Karl Marx (1818-1883) – L’uomo «totale», è l’uomo che si appropria del suo essere onnilaterale. L’uomo ricco è l’uomo che ha bisogno di una totalità di manifestazioni di vita umane, l’uomo in cui la propria realizzazione esiste come necessità interna, in una società in cui ciascuno non ha una sfera di attività esclusiva ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo.

Karl Marx_Uomo totale

Nei Manoscritti economici-filosofici del 1844, poco prima di formulare la contrapposizione tra «assoluta povertà» e «ricchezza interiore» e criticare esplicitamente l’unilateralità e ottusità prodotte nell’uomo dal «senso dell’avere», K. Marx sostiene che, con la soppressione della proprietà privata, «l’uomo si appropria del suo essere onnilaterale in maniera onnilaterale e quindi come uomo totale» (K. Marx, Manoscritti economici-filosofici del 1844, Einaudi, Torino 1949, p. 116). L’uomo «totale», dunque, è l’uomo che si appropria del suo essere onnilaterale, che supera le unilateralità effetto della proprietà privata e del dominio del senso dell’avere ed è capace di dare attuazione alla «realtà umana», composta da una pluralità di sensi fisici e spirituali (ibidem, p. 116) .

Scriveva, infatti:

«La proprietà privata ci ha resi così ottusi ed unilaterali che un oggetto è considerato nostro soltanto quando lo abbiamo […]. Al posto di tutti i sensi fisici e spirituali è quindi subentrata la semplice alienazione di tutti questi sensi, il senso dell’avere. L’essere umano doveva essere ridotto a questa assoluta povertà, affinché potesse estrarre da sé la sua ricchezza interiore» (ibidem, pp. 116 e ss.).

«Si vede come al posto della ricchezza e della miseria come le considera l’economia politica, subentri l’uomo ricco e la ricchezza dei bisogni umani. L’uomo ricco è ad un tempo l’uomo che ha bisogno di una totalità di manifestazioni di vita umane, l’uomo in cui la propria realizzazione esiste come necessità interna, come bisogno» (ibidem, , pp. 123) .

 

Dobbiamo produrre la nostra totalità:

«Ma in fact, una volta cancellata la limitata forma borghese, che cosa è la ricchezza se non l’universalità dei bisogni, delle capacità, dei godimenti, delle forze produttive, ecc. degli individui, creata nello scambio universale?
Che cosa è se non il pieno sviluppo del dominio dell’uomo sulle forze della natura, sia su quelle della cosiddetta natura, sia su quelle della propria natura? Che cosa è se non l’estrinsecazione assoluta delle sue doti creative […], che rende fine a se stessa questa totalità dello sviluppo, cioè lo sviluppo di tutte le forze umane come tali, non misurate su di un metro già dato? Nella quale l’uomo non si riproduce in una dimensione determinata, ma produce la propria totalità?» (K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica [Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie], 2 voll., La Nuova Italia, Firenze 19773, vol. II, p. 112).

E perfezionarci in qualsiasi ramo a piacere:

«Appena il lavoro comincia ad essere diviso ciascuno ha una sfera di attività determinata ed esclusiva che gli viene imposta e dalla quale non può sfuggire: è cacciatore, pescatore, o pastore. o critico, e tale deve restare se non vuol perdere i mezzi per vivere; laddove nella società comunista, in cui ciascuno non ha una sfera di attività esclusiva ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo a piacere, la società regola la produzione generale e appunto in tal modo mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina di andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi vien voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico» (K. Marx, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma 20005, p. 24) 78 .


 

Karl Marx – Cristalli di denaro: “auri sacra fames”
Karl Marx – Il denaro è stato fatto signore del mondo
Karl Marx – Il denaro uccide l’uomo. Se presupponi l’uomo come uomo e il suo rapporto col mondo come un rapporto umano, potrai scambiare amore soltanto con amore
Karl Marx – La natura non produce denaro
Karl Marx (1818-1883) – A 17 anni, nel 1835, già ben sapeva quale sarebbe stata la carriera prescelta: agire a favore dell’umanità.
Karl Marx (1818-1883) – Il capitale, per sua natura, nega il tempo per una educazione da uomini, per lo sviluppo intellettuale, per adempiere a funzioni sociali, per le relazioni con gli altri, per il libero gioco delle forze del corpo e della mente.
Karl Marx (1818-1883) – La patologia industriale. La suddivisione del lavoro è l’assassinio di un popolo
Karl Marx (1818-1883) – Sviluppo storico del senso artistico e umanesimo comunista. La soppressione della proprietà privata è la completa emancipazione di tutti i sensi umani e di tutte le qualità umane. Il comunismo è effettiva soppressione della proprietà privata quale autoalienazione dell’uomo, è reale appropriazione dell’umana essenza da parte dell’uomo e per l’uomo
Karl Marx (1818-1883) – Il regno della libertà comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità.
Karl Marx (1818-1883) – Gli economisti assomigliano ai teologi, vogliono spacciare per naturali e quindi eterni gli attuali rapporti di produzione.
 
Karl Marx (1818-1883) – Per sopprimere il pensiero della proprietà privata basta e avanza il comunismo pensato. Per sopprimere la reale proprietà privata ci vuole una reale azione comunista.
Karl Marx (1818-1883) – Noi non siamo dei comunisti che vogliono abolire la libertà personale. In nessuna società la libertà personale può essere più grande che in quella fondata sulla comunità.
Karl Marx (1818-1883) – La sensibilità soggettiva si realizza solo attraverso la ricchezza oggettivamente dispiegata dell’essenza umana.
Karl Marx (1818-1883) – Vi sono momenti della vita, che si pongono come regioni di confine rispetto ad un tempo andato, ma nel contempo indicano con chiarezza una nuova direzione.
Karl Marx (1818-1883) – Quando il ragionamento si discosta dai binari consueti, si va sempre incontro a un iniziale “boicottaggio”
Karl Marx (1818-1883) – L’arcano della forma di merce. A prima vista, una merce sembra una cosa ovvia. Dalla sua analisi, risulta che è una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologici. Ecco il feticismo che s’appiccica ai prodotti del lavoro appena vengono prodotti come merci, e che quindi è inseparabile dalla produzione delle merci.
Karl Marx (1818-1883) – Ogni progresso compiuto dall’agricoltura capitalista equivale a un progresso non solo nell’arte di DERUBARE L’OPERAIO, ma anche in quella di SPOGLIARE LA TERRA, ogni progresso che aumenta la sua fertilità in un certo lasso di tempo equivale a un progresso nella distruzione delle fonti durevoli di tale fertilità
Karl Marx (1818-1883) – Il sistema monetario è essenzialmente cattolico, il sistema creditizio è essenzialmente protestante. La fede nel valore monetario come spirito immanente delle merci, la fede nel modo di produzione e nel suo ordine prestabilito, la fede nei singoli agenti della produzione come semplici personificazioni del capitale autovalorizzantesi.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Stefania Massari – Pensiero è essenzializzazione. Il «Menone». L’aporeticità dell’eristica e la risolvibilità della dialettica.

Stefania Massari 001
Stefania Massari

Pensiero è essenzializzazione[1].

Il Menone.

L’aporeticità dell’eristica e la risolvibilità della dialettica


 

Abstract: Nel Menone, attraverso il vivace canovaccio narrativo, si evidenzia il dinamismo del pensare platonico, che può essere interpretato, senza intendere effettuare forzature ermeneutiche, bensì semplicemente valorizzando i risultati della Wirkungsgeschichte, come un dinamismo di riconduzione a essenza (analogo a quello della fenomenologia husserliana) che dischiude in sé l’esigenza di un’ulteriorità dialogica, all’interno della concettualizzazione dej temi principali del dialogo, o un dinamismo di pensiero speculativo (a modo della fenomenologia hegeliana), invitando al pensiero l’intera comunità ermeneutica delle opere platoniche, e infine sottendendo la centralità della teoria sui principi supremi o protologia in Platone, che informa di sé la teoria delle idee. Il presente articolo intende mostrare non solo l’autoevidenza di una esigenza di dialogicità all’interno della suddetta ermeneutica ma evidenziare un confronto attualizzante, con sguardo filosofico della storia, tra Platone, Husserl ed Hegel. Quest’ultimo, in particolare, con il suo considerare l’essenza, nella dottrina dell’essenza della sua fenomenologia come fondamento dell’esistenza (das Wesen als Grund der Existenz ), si rivela come un autentico interprete del pensiero platonico essenziale.


 

Wie gründer sich Gott? Gott gründt sich ohne Grund und mißt sich ohne Maß: Bist du ein Geist mit ihm,
Mensch, so verstehst du das.
Angelus Silesius, Cherubinischer Wandersmann

 

Lo scopo di questo articolo non è dimostrativo in senso razional-strumentale, bensì strettamente filosofico. L’articolo vuole essere un invito al pensiero, e, utilizzando come guida la posizione di Erich Przywara sulla “filosofia dell’essenza”, intende mostrare che sia possibile un confronto attualizzante (ossia oltre che storico-filosofico, filosofico-storico[2]), tra Platone, Husserl ed Hegel, osservando in tali autori una profondità speculativa, reciprocamente analoga. Presentando inoltre esso stesso un dinamismo speculativo, che rischia di apparire criptico ai più, il presente scritto ha l’intento di rendere autoevidente l’esigenza, all’interno della concettualizzazione[3] di alcuni temi del Menone platonico, di un’ulteriorità del pensare stesso, che produca a sua volta pensiero, e di una dialogicità intrinseca ai concetti stessi utilizzati da Platone, non tanto dunque per evidenziare “diaireticamente” il ventaglio delle possibilità esegetiche dell’opera platonica ma per rendere autenticamente scientifica, cioè pensante, la sua ermeneutica. Ma che significa pensare se non, platonicamente, ma anche husserlianamente ed hegelianamente, (e questa è la posizione specifica della scrivente posta all’attenzione del lettore) spingere i concetti attraverso il dinamismo essenzializzante, fino a preludere a un cominciamento (noetico), che abbia a che fare con una libera asserzione iniziale, analoga a un assenso di fede? Dire (affermare, assentire) infatti che la speculazione sia dialogica in sé, e tale lo sia il pensiero, al di là dei vincoli della catalogazione dossografica, non significa, a mio parere, porsi apoditticamente e dogmaticanente nel circuito della comunità pensante, ma invitare i componenti attuali di questa stessa comunità, alla profondità della meditazione e della riflessione, oltre ogni chiusura. L’intento è pensare insieme al Platone del Menone, soffermandosi sui suoi stessi contenuti essenziali e con la medesima apertura problematica e il medesimo stupore caratterizzanti il Platone stesso del suo tempo. Considerando altrimenti l’approccio al testo, la deriva manualistica sarebbe sempre una possibilità, e ciò, all’interno della ricerca, non gioverebbe certamente all’ermeneutica platonica. Dire teoreticismo manualistico è a mio parere dire anche irresolutività sofistica in senso platonico. L’aporeticità del dire eristico appare infatti ben evidente nelle argomentazioni del personaggio platonico intitolato a Menone, l’intellettuale ateniese dalla parlantina sicura e da una forte determinazione d’intenti, che incontriamo nell’omonimo dialogo. Essa deriva dal fatto che egli non possiede i requisiti adeguati a soddisfare i criteri di un’“intellezione[4]” che sia capace di “iniziare” un processo autenticamente ideativo (o di essenzializzazione). Essenzializzazione è termine che desumiamo dalla fenomenologia husserliana e dalla speculazione hegeliana, orientati dalla trattazione dell’analogia entis di Erich Przywara[5]. Per Husserl, la riduzione fenomenologica, che conduce alla coscienza intenzionale è “essenzialmente” (eideticamente) un processo di riconduzione a essenza dell’esperienza fenomenologica[6], che è, husserlianamente, fondativa dell’esperienza conoscitiva e dunque epistemologia. Coscienza intenzionale è coscienza dell’apertura della coscienza stessa a una intenzionalità primigenia, ovvero a una interna ed esterna dialogicità tra un mondo soggettivo e un mondo oggettivo. Una essenzializzazione è a mio parere, e significativamente, ben rintracciabile nel canovaccio delle opere platoniche, desumibile dal rimando continuo a un’esigenza fondazionale (protologica[7]) di tutto il processo di pensiero che si sviluppa attraverso i dialoghi. Ciò che non si conosce autenticamente è ciò di cui non si intuisce l’essenziale, e ciò di cui non si intuisce l’essenziale (v. intellezione) non si può indagare, perché l’approccio meramente teoretico o logico in senso astratto produce contraddizioni insanabili (eristikos logos). Chi già conosce in senso meramente gnoseologico (della conoscenza come nozione) non è necessario che aggiunga nozione a nozione, perché il criterio sarebbe qui meramente quantitativo, chi invece non conosce, come tabula rasa o mero recipiente da riempire, non saprebbe che cosa varrebbe la pena conoscere, non possedendo l’attitudine valutante di un sapere noetico. Il discorso eristico non ha rilevanza filosofica, poiché si trova al di fuori dell’essenza come causa formale a cui accedere con l’aitias logismos[8]. Esso è aporetico, teoreticistico, ossia inutile. La stessa sofistica lo disvela. L’aporia appare come un’esigenza del discorso, intesa in senso hegeliano, di senso ulteriore (essenzializzazione nella fenomenologia hegeliana[9]). Riconoscere tale problematicità inerente all’aporia significa trovarsi già nello “speculativo”. La mancanza di significatività del dire aporetico allude all’esigenza di un’apertura a livello originario. Mancando tale apertura, vengono a mancare le basi della pensabilità. Ma dove si rinviene, e se così si può dire, agostinianamente, tale apertura originaria, dove essa si deve ricercare? Platone è chiarissimo. La via deve essere anamnestica. Lo schiavo di Menone accede nell’immediato a una “orthe doxa”, guidato sapientemente da Socrate partendo dal suo interiore ricordare. Ma dapprima va detto in mythologein ciò che si riferisce a un’ulteriorità che supera ogni concezione riduttivistica del sapere. Che l’anima sia immortale e che abbia a che fare con quell’ulteriorità, i poeti e i sacerdoti, familiari ai racconti sugli dèi, già da sempre lo dicono. Ma occorre giungervi filosoficamente, ovvero dialetticamente (per aitias logismos). Se rimanesse solo nell’alveo di una divina mania non sarebbe condivisibile, comunicabile[10]. Occorre invece farne oggetto di pensiero, di quella ratio-relatio che converte integralmente (speculativamente) a una vita virtuosa. Il racconto di un’anima immortale diviene racconto di una intuizione originaria. L’anima ha già visto tutte le cose di questo mondo e dell’Ade, nascendo più volte (pollakis gegonouia), come occorre rinascere a quell’origine di divina significanza, per poter riformulare, ripensare l’ordine delle cose e del mondo, a partire da una iniziale “syngeneia”, congenericità e consentaneità[11]. Syngeneia è quell’affinità della natura con se stessa e con l’anima dell’uomo (a motivo dell’iniziale conoscenza), affinché essa stessa congenere e consentanea intuisca l’imprescindibilità di un pensiero che debba riguardare la totalità delle cose e dell’uomo (che in termini hegeliani può tradursi come quel vero che sia l’intero, ovvero che lo riguardi dall’inizio e come risultato). La syngeneia, di chiara ascendenza pitagorica, risulta essere “uno dei filosofemi più importanti dell’epistemolgià platonica”[12]. Esso rappresenta l’inizio del pensiero speculativo che non può che riferirsi a una dimensione protologica, all’interno di una disposizione volta a una costante unificazione delle cose del mondo e del divenire[13]. Cosicché non ci riferiamo a una collocazione provvisoria dell’oggetto del pensiero ma a una integrazione vitale, come vera e propria “condizione” dell’anima. Essa esprime l’ordine speculativo, come scaturigine dell’esperienza pensante a partire dall’intuizione iniziale di una integralità e totalità mai pienamente e compiutamente esauribili razionalmente. L’anima immortale rappresenta ovvero l’anima pensante, sintonizzata con la condizione del pensare, cioè l’archè anypotheton[14]. La mitologica dimenticanza di ciò che si è visto nella pianura della verità, di quel cominciamento che vada continuamente riconquistato e riattualizzato per essere riaffermato, rappresenta l’esigenza del pensare come riposizionamento rispetto all’epoca del soggetto pensante[15]. La syngeneia è intuizione ontologica, poiché è affermazione dell’affinità di tutti i generi nel pensiero sull’essere, ovvero la massima realtà di tutto l’esistente. Il mito qui, in tanto è utilizzato, in quanto riconduce a un cambiamento di ordine morale. Il mito è ancora una volta ordinato alla prassi. Lo schiavo è guidato da Socrate a effettuare un’inferenza geometrica laddove il risultato del problema postogli non sia commensurabile numericamente. Il giovane, non consono al sapere epistemico, privo dell’attitudine integrale ad acquisirlo, ma dotato di quella sincerità immediata che lo porta a intraprendere il sentiero contingente dell‘orthe doxa, della quale si sente naturalmente congenere, viene guidato a quell’intuizione geometrica capace di superare e contenere, come una specie di unità eraclitea, l’uno in se stesso distinto, l’aporeticità e il riduttivismo di una matematica considerata secondo un aspetto meramente gnoseologico e privata di quell’essenziale ampliamento che solo una visione noetica in senso protologico avrebbe potuto fornire. Che cos’è quell’irrazionalità all’interno della misurazione che se considerata fine a se stessa può decettivamente essere scambiata per irrapportabilità? È “realmente” irrapportabile il valore numerico della diagonale con il lato del quadrato? Ovvero cosa ci suggerisce l’ontologia platonica a riguardo? È come se Platone volesse indicarci un’estensione significativa all’interno della misurazione. La misurazione esige una forma significativa che rimandi al di là della misurazione stessa, ovvero rimandi a una figurazione geometrica al fine di un’attuazione pragmatica di essa. Quale pensiero poté inquietare i pitagorici quando estromisero dalla loro cerchia il tale Ippaso di Metaponto? L’irrapportabilità all’interno della numerazione può intaccare fino a squalificare la valenza universale dei numero nella gerarchia dei livelli di realtà? Eppure numero è misura e la misura è il meglio (metron ariston). Forse i pitagorici temevano che si confondesse la criticità all’interno della mera misurazione con la vera finalità della scuola pitagorica che probabilmente era la stessa di tutta quanta la grecità nel suo complesso. La stessa dedizione dei greci allo studio della proporzione denota un interesse che va al di là della mera metodologia, che si poteva invece osservare in popoli ad essi coevi[16]. Il loro interesse era di ordine etico-religioso, oltre che gnoseologico e ontologico. Ma qual è la via per giungere a tale obbiettivo? Una umile ricerca, come quella che intraprendono coloro che non sanno (ὄμοιος εἶ οὐκ εἰδότι, simile a uno che non sa)[17], come Socrate stesso usa autodefinirsi. Egli dopo aver domandato maieuticamente a Menone intorno alla virtù, che cosa essa sia nella sua totalità, dopo aver accompagnato l’interlocutore sulla via diairetica, e averlo indotto nell’aporia, e dopo averlo intorpidito, come una “piatta torpedine marina” , conviene che occorre ancora una volta una comune indagine (ἐθέλω μετὰ σοῦ σκέψασθαι καὶ συζητῆσαι ὄτι ποτέ ἐστιν, voglio cercare e indagare con te cosa essa sia), sempre e di nuovo (πάλιν ἐξ ἀρχῆς, di nuovo , dall’inizio) su ciò che fino a ora si era maieuticamente domandato. Ma il dire di Socrate diventa opportunità per delle trovate eristiche da parte del suo interlocutore. Se ignori qualcosa, come farai a cercarla? Chiede Menone. E se la trovassi, come la riconosceresti? Il filosofo ateniese comprende l’antinomia sottesa a tale discorso. Egli intendeva sicuramente giungere a dire, che sia nel caso si affermi di sapere, sia nel caso contrario, l’indagine non possa avere alcun utile risultato. L’eristica, infatti, è il domandare fine a se stesso. ἐριστικὸν λόγον è quell’argomento secondo il quale non si ritiene possibile ricercare sia ciò che si sa, sia ciò che non si sa, perché nella prima istanza è inutile, già conoscendo l’oggetto della ricerca, nella seconda si ignora persino ciò che si dovrebbe cercare. Qui c’è un uso improprio della logica, e ciò può essere valutato solo a partire da un’apertura protologica dei principi supremi. Quale risvolto pragmatico può avere il gusto della confutazione senza via possibile di risoluzione argomentativa? Lo zelo socratico per il bene della città degli uomini non può trovare soddisfazione vitale nella mera argomentazione di ordine descrittivo. Egli allora si rivolge al mythos, per trovare la base ideale adeguata a fondare un’argomentazione che soddisfi i criteri di quei principi ai quali abbiamo accennato. Ai sacerdoti, alle sacerdotesse e ai poeti preme dare ragione (logon didonai) del loro ministero che pratica col divino. Essi dicono che occorre trascorrere la vita più santamente possibile (ὡς ὁσιώτατα διαβιῶναι τὸν βἰον·)[18]. Essi parlano di un’anima immortale sottoposta a processi di purificazione nel mondo dell’Ade, che gli fa guadagnare lo status di sapienza e di eroicità nel bene quando rinasce fra i mortali. Ma soprattutto di ciò che l’anima apprende in tutte le vite, e nei mondi nei quali è vissuta, e che può ricordare. Perché “ cercare e apprendere sono, nel loro complesso, reminiscenza [anamnesi]”, (τὸ γὰρ ζητεῖν ἄρα καὶ τὸ μανθάνειν ἀνάμνησις ὅλον ἐστίν). Occorre infatti un ragionamento che renda operosi e non pigri[19]. Esso riguarda la questione della postulazione necessaria al darsi della conoscenza autentica e dell’epistemologia. Quando nel “dioti” si possono includere la questione dell’incommensurabilità numerica e della commensurabilità geometrica, ci si può incamminarsi sul sentiero dell’epistemologia. Dal “che è”, luogo del discreto e della descrizione, al “perché”, procedurale, istorico, causale, continuo, archetipico. Occorre postulare un continuo sulla infinitudine del discreto: l’unità della primigenia apertura generatrice della possibilità duale. L’uno, come il punto, che si estende ai molti, si continua, offrendosi alla propria negazione come discreto, generando la linea. Ecco il geometrico. La questione dell’incommensurabilità è quel “salto” protologico verso l’intero assiologico che valorizza l’ontologico e lo gnoseologico: la conoscenza in libertà, ovvero di un libero pensiero “ex autou”, dall’interiorità di sé, ciò che è l’anima (cfr. 85 d): libertà da libertà, come affermazione iniziale. È possibile, con Erich Przywara, che scorge una “presenza fondativa della dimensione religiosa nella conoscenza filosofica”, rimanendo però sempre al di fuori di ogni assolutizzazione del “dato creaturale”, accostare la postulazione “anipotetica” che si evince dai dialoghi in generale ma rappresenta un implicito rimando soprattutto nel tessuto dialogante e pensante del Menone stesso con la questione della dimensione della fede religiosa, e della necessità in relazione a essa di un assenso iniziale del soggetto[20]; cosicché risulta possibile rintracciare tale esigenza, inerente a una postulazione iniziale,  effettuando uno studio sulla metodologia della ricerca umana e veritativa, oltre che teologica, all’interno del testo biblico, il quale, seppur appartenente alla tradizione ebraico-cristiana, rimane una delle grandi radici, sia nella recezione positiva sia negativa del suo messaggio, che ha inciso maggiormente nella configurazione della civiltà occidentale. Anche il testo biblico è scritto in mythologein, proprio come tentativo fondazionale e come sapere kerigmatico, ovvero prefigurativo di un mondo, a partire dalla grande cosmogenesi del primo capitolo del suo primo libro, come racconto fondazionale cosmogonico; cosicché risulta possibile scorgere un intento analogo, (proprio come analogia nel senso di discorso sulla somiglianza e sulla proporzionalità di Erich Przywara), nel mythos descritto nel Menone. Il mythos esprime il limite di una conoscenza intellettiva in senso hegeliano, che diventa, descrivendo puramente il metodo, senza utilizzarlo consapevolmente in relazione a un intero speculativo, mera gnoseologia, “Il difetto fondamentale del conoscere finito”[21]. Esso non è consapevole del suo metodo: a orientarlo è la “necessità” delle determinazioni concettuali (der Notwendigkeit der Begriffsbestimmungen). Per Hegel la geometria possiede il perfetto metodo sintetico del conoscere finito (die Geometrie hat deswegen allein die synthetische Methode des endlichen Erkennens in ihrer Vollkommenheit). Essa ha a che fare con l’intuizione sensibile, ma astratta. Nel suo procedimento si scontra con entità incommensurabili e dunque irrazionali che esigono che essa si spinga oltre il principio meramente intellettivo, cosicché tale “irrazionale” divenga “inizio” o prima traccia di Razionalità (concettuale e ideale)[22]. Laddove la necessità del mero intelletto (casualità seriale ed efficiente) è esteriore e “deve” essere considerata in vista di una “intellezione soggettiva” (subjektive Einsicht). Tale necessità esteriore, come mero intelletto gnoseologico, esige un soggetto che gli restituisca senso ulteriore e metaintellettuale, pensante ed essenziale. Hegel in questo passo dell’ Enzyklopädie rivela la sua vicinanza al dinamismo del pensare platonico. Ecco che l’ermeneutica può cogliere dei segnavia, all’interno del pensiero di alcuni autori della Wirkungsgeschichte, per andare oltre il mero posizionamento della contrapposizione manualistica, che esprime una mentalità, come usava dire Giovanni Reale, da “deuteragonista”, e la quale, come Platone insegna, è propria della sofistica, e così entrare finalmente e in modo “autoriale” a un convito del pensiero che costruisca il nuovo e una prassi possibile e concreta.

Stefania Massari

[1] V. “Essenzializzazione” in Erich Przywara, come atto formale della filosofia dell’essenza, nel mondo antico; Id., Analogia entis, La struttura originaria e il ritmo cosmico, introd. e trad. di Paolo Volonté, Vita e Pensiero, Milano 1995, p. 210. In tale concetto, a partire dalla sua trattazione della metafisica come “essenza dentro–fuori l’esistenza”, Przywara trova l’apertura necessaria per accostare la metafisica dell’essenza dell’essere, nel triplice irradiamento “vero-buono-bello” in relazione al problema dell’uno e del molteplice, in Platone, Aristotele, Agostino, Tommaso, Kant ed Hegel; cfr. pp. 24. 33-34-35, e infine in Husserl, distinguendo il criterio metaontico degli antichi da quello metanoetico dei moderni.

[2] Per sguardo filosofico-storico si vuole intendere, proprio nel senso filosofico canonico, una valorizzazione dei canoni storiografici mediante un uso pensante della Wirkungsgeschichte, alla maniera del dinamismo speculativo presente all’interno del sistema storico-filosofico in Hegel.

[3] Per concettualizzazione di temi platonici s’intende l’evidenziazione della dinamica “essenzializzante” degli stessi, oltre che la loro pensabilità dalla parte del lettore e dell’interprete.

[4] Cfr. Maurizio Migliori, Il recupero della trascendenza platonica e il nuovo paradigma, Rivista di Filosofia Neo-scolastica, Vol. 79, No. 3 (luglio-settembre 1987), p. 363 – v. nota n. 59, nella quale Migliori cita K. Gaiser. La paideia platonica, destinata ai filosofi, che è di tipo matematico-dialettico, e di lunga durata, è tesa a un’assimilazione interiore che culmina con la pura “intellezione” del Bene stesso, ma l’elaborazione dialettica, sostiene Gaiser, «doveva essere accompagnata e verificata da un’esperienza di certezza immediata ed evidente, da una dischiusura della verità tramite intuizione intellettuale (noesis)». Per un confronto col senso comune di tale concetto, e ai fini di una più proficua attualizzazione, si potrebbe considerare il significato della parola “intellezione”, presente in uno dei dizionari in uso più diffuso (es. v. la voce “intellezione” in vocabolario Treccani: – Il processo dell’intendere mediante la facoltà dell’intelletto, concepito in filosofia come sintesi di due elementi opposti: quello intelligente o «soggetto» [principio attivo dell’intendere] e quello che è inteso o «oggetto» [termine dell’azione del soggetto]).

[5] Cfr. Erich Przywara, Analogia entis, La struttura originaria e il ritmo cosmico, op. cit., II, Il ritmo cosmico.

[6] Cfr. Edmund Husserl , Aufsätze und Vorträge (1911-1921), Martinus Nijhoff Publishers, 1987, pp. 3-62: Id. Philosophie als strenge Wissenschaft, Traduzione italiana di Corrado Sinigaglia. Filosofia come scienza rigorosa, con prefazione di Giuseppe Semeraro, Economica Laterza, Bari 2010, p. 55: “Fin dove arriva l’intuizione, l’aver coscienza intuitivo, giunge anche la possibilità della corrispondente ideazione”.

[7] Si possono vedere, sul senso essenziale della “protologia”: Giovanni Reale, Per una nuova interpretazione di Platone alla luce delle “dottrine non scritte”, Bompiani, Milano 2002; M. I. Parente, Platone e il problema degli agrapha, inMéthexis, 6, 1993.

[8] Cfr. Richard Kraut, The Cambridge Companion to Plato, Cambridge University Press, Chicago 1992, p. 221.

[9] Cfr. G. W. F. Hegel, Fenomenologia della Spirito, Introduzione, Traduzione, note e apparati di Vincenzo Cicero, Bompiani, Milano 2013, p. 1005: “Lo Spirito, rappresentato inizialmente come sostanza dell’elemento del pensiero puro, è con ciò immediatamente l’essenza semplice, uguale a se stessa ed eterna, la quale però non ha questo significato astratto dell’assenza, bensì il significato dello Spirito assoluto. Lo Spirito però non è semplicemente un significato, non è l’interno, ma è il reale. L’essenza semplice ed eterna, perciò se restasse nell’ambito della rappresentazione e dell’enunciazione di tale semplicità ed eternità, sarebbe Spirito solo nella vacuità di questa parola. Per il fatto di essere l’astrazione, invece, l’essenza semplice è di fatto il negativo in se stesso, e precisamente la negatività del pensiero, la negatività così com’è, in sé, nell’essenza: è la differenza assoluta da sé, cioè il suo puro divenire-altro.”

[10] Cfr. ciò che riferisce Cristina Ionescu, in The mythical introduction of recollection in the Meno (81 a 5 – e 1), Journal of philosophical research, Volume 31, 2006, sulla valenza pedagogica e comunicativa del mito in riferimento ai destinatari del messaggio “The main reason why recollection is introduced by appeal to myth is to facilitate our access to truth in direct correspondence to our specific pedagogical needs, and in this sense the myth has a substantial role complementing logical arguments. At one level, Socrates’ appeal to myth is motivated by his intention to persuade Meno to continue the investigation of virtue. Since Meno’s intellectual resources are scarce, introducing recollection by means of a story which appeals to his emotions and whose content is, even if only at the superficial level, attractive to him has the desired effect.”

[11] Cfr. Platone, Menone 81c9-d5 : ἅτε γὰρ τῆς φύσεος ἁπάσης συγγενοῦς οὐσης, καὶ μεμαθηκυίας τῆς ψυχῆς ἅπαντα οὐδὲν κωλύλει ἓν μόνον ἀναμνησθέντα ὃ δὴ μὰθησιν καλοῦσιν ἄνθρωποι τἆλλα πάντα αὐτὸν ἀνευρεῖν, ἐάν τις ἀνδρεῖος ἦ καὶ μὴ ἀποκάμνη ζητῶν· (Dal momento che tutta quanta la natura è affine e che l’anima ha appreso tutte quante le cose, nulla impedisce che, ricordandosi di una cosa soltanto – ciò che gli uomini chiamano appunto apprendimento – riscopra tutte le altre, sempre che si tratti di qualcuno coraggioso e che non resiste dal conoscere). “Syngeneia” è il termine che usano i Greci, da Omero in poi per definire l’affinità nei rapporti fra Dio e la natura dell’uomo e che solo in Platone (presente prevalentemente nel Timeo) viene giustificato. Cfr. Giovanni Reale, Storia della Filosofia greca e romana, a c. di Vincenzo Cicero, premessa di Maria Bettetini, Bompiani, Milano 2018, p. 2366.

[12] Cfr. Platone, Menone, a c. di Franco Ferrari, Rizzoli, Milano 2016, pag. 47.

[13] “Protologia” ed “henologia” sono, com’è noto, termini introdotti dalla speculazione della scuola interpretativa di Tubinga e di Milano. Essi sono, all’interno di tale scuola, considerati condizione essenziale nel dinamismo del pensare. Sull’henologia come attributo preminente e imprescindibile del “Principio” in Platone, Plotino, Porfirio e Proclo, in una dialettica con l’ontologia aristotelica e nella sua recezione tomista, e ancora, come criterio imprescindibile per l’intelligibilità della storia della filosofia antica e moderna, si può vedere: Giuseppe Girgenti, Il pensiero forte di Porfirio, Mediazione fra henologia platonica e ontologia aristotelica, Vita e Pensiero, Milano 1996. Si veda inoltre, Giovanni Reale, Per una nuova interpretazione di Platone alla luce delle “dottrine non scritte”, Bompiani, Milano 2002

[14] Άρχή Άνυπόθετον è, per Hans Krämer, quel bene (άγαθόν) che è al di sopra delle idee e dell’ούσία , e che, come principio che non è più solo postulato, costituisce il fine della dialettica. Cfr. H. Krämer, Dialettica è definizione del bene in Platone, introduzione di G. Reale e traduzione di Enrico Peroli, Vita e Pensiero, Milano 1996, pag. 37.

[15] Cfr. Platone, Phaedr. 246 – 247.

[16] Simone Weil, nelle lettere che scrive al fratello André sulla matematica dei greci, distingue tra la metodologia dei calcoli babilonesi, per i quali non si presentava la preoccupazione dell’approssimazione numerica, applicandosi a risolvere problemi a partire da risoluzioni note, facendo dunque intendere di prediligere l’analisi delle metodologie, piuttosto che altri interessi, e l’interesse dei greci di ordine religioso ed estetico. Non fu un dramma, secondo la Weil, il dover distinguere la geometria dalla misurazione numerica da parte dei pitagorici, a motivo dell’incommensurabilità di alcune grandezze matematiche, anzi il fatto che avessero assunto come simbolo dei loro circoli il pentagono stellato, figura significativa riguardo al rapporto fra incommensurabili, denota quanto la loro preoccupazione fosse altra. Propriamente, dai circoli pitagorici scaturiscono l’estensione degli insiemi numerici (Eudosso, allievo di Archita) e le nozioni di limite ed integrazione. È noto che Platone apponeva sulla porta dell’Accademia la frase: “Non entri chi non sia geometra”, e che diceva frequentemente: “Dio è un perpetuo geometra”, frase attribuitagli da Plutarco (Questiones Conviviales). La preoccupazione unica di tutti i greci, continua la Weil, era la purezza dell’anima, e il loro segreto, imitare Dio. La matematica era per loro un’arte, per esplicitare l’affinità fra la mente umana e l’universo”. Cfr. Simone Weil e André Weil, Correspondance familiale, a c. di Robert Chenavier e André Devaux, Éditions Gallimard, Paris 2012. Ed. italiana: “L’arte della matematica”, a c. di Maria Concetta Sala, Adelphi Edizioni, Milano, 2018.

[17] Cfr. Menone 80 d. Trad. Francesco Adorno.

[18] Cfr. Menone 81 b 5.

[19] Cfr. Menone 81 e.

[20] Cfr. Erich Przywara, Analogia entis, La struttura originaria e il ritmo cosmico, op. cit., Introduzione, xxxiii

[21] Cfr. Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse, Dritte Ausgabe, Heidelberg 1830, Verwaltung des Oswaldschen Verlags, trad. it. Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, a c. di Vincenzo Cicero, Introduzione, traduzione, note e apparati di Vincenzo Cicero, Bompiani, Milano 2017., Sottotitolo del par. 23.

[22] Cfr. Ibidem, p. 407: “Altre scienze se la cavano facilmente quando giungono al limite del loro procedimento intellettivo. Esse infrangono la coerenza di quel procedimento e prendono dall’esterno tutto quanto serve loro. Lo prendono dalla rappresentazione, dall’opinione, dalla percezione o altri ambiti ancora”.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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John Maxwell Coetzee – Che tipo di filosofia ti piacerebbe? Il genere che ti scuote. Che ti cambia la vita.

John Maxwell Coetzee 01

«Eugenio: – Che tipo di filosofia di piacerebbe?.

Simon: – Il genere che ti scuote. Che ti cambia la vita».

John Maxwell Coetzee, L’infanzia di Gesù, Einaudi, Torino 2013.


L’infanzia di Gesù è il libro piú misterioso e affascinante del premio Nobel J. M. Coetzee. Eppure è anche il racconto piú semplice di tutti: quello dell’amore di un «padre» per un «figlio» che ha la grandezza e la forza di ridefinire il mondo.

Un uomo adulto, quasi anziano, e un bambino sbarcano a Novilla. Novilla non è la loro città, lo spagnolo non è la loro lingua: ma come tutti gli abitanti della città, con cui condividono il misterioso destino, vi sono giunti dopo un viaggio in mare e non conservano nessun ricordo delle loro vite precedenti. Non sanno da dove vengono, a chi erano legati, quale evento catastrofico li ha condotti fin lí come profughi; non lo sanno e sembra che nemmeno abbia piú importanza. C’è solo una cosa che Simón, l’uomo, sa: deve prendersi cura di questo bambino che ha conosciuto sulla nave, deve accudirlo anche se non è suo figlio, anche se nulla lo lega a lui. Anche se Davíd si dimostra presto un bambino molto particolare. E sa che deve aiutarlo a ricongiungersi con la «madre». Quando il romanzo sembra essere giunto ai limiti estremi del suo esaurimento, arrivano scrittori come J. M. Coetzee a mostrare che tutto è ancora possibile: è come se il Nobel sudafricano prolungasse la linea che da Kafka passa per Beckett e ne facesse gemmare le possibilità per il mondo del nuovo millennio e le sue inquietudini. L’infanzia di Gesú è allo stesso tempo una riflessione radicale e profondissima sul mistero dell’umano, sul conflitto tra desiderio e felicità, tra Storia e Salvezza, una perturbante interrogazione su come dobbiamo vivere e se mai saremmo in grado di riconoscere il Messia se arrivasse oggi. Ma è anche la storia struggente dell’amore di un «padre» per un bambino, quell’insieme di tenerezza e responsabilità che spinge un uomo a prendersi cura del futuro anche in un mondo che di futuro sembra privo. L’infanzia di Gesú è stato accolto in tutto il mondo come un capolavoro: eppure, o forse proprio per questo, non c’è praticamente critico o lettore che ne dia la stessa interpretazione, nessuna lettura che ne intacchi l’enigma. È come se ognuno di noi si trovasse di fronte a un libro diverso, a una domanda a cui dovrà dare una risposta assolutamente individuale. A un libro che parla solo a lui.

Chuang-Tzu (Zhuāngzǐ) – Per far scomparire l’ombra bisogna rimanere nell’oscurità, per far cessare le impronte bisogna rimanere nella quiete.

Chuang-Tzu 01

«C’era un uomo che aveva paura della propria ombra e orrore delle proprie impronte. Così le sfuggiva correndo. Ma quante più volte alzava il piede, tanto più numerose erano le impronte che lasciava; e più in fretta scappava, meno l’ombra l’abbandonava. Credendo di andare troppo piano, corse più svelto senza mai riposare, finché, all’estremo delle forze, non morì. Egli non capiva che per far scomparire l’ombra bisogna rimanere nell’oscurità, che per far cessare le impronte bisogna rimanere nella quiete».

Chuang-Tzu, La calma, Mondadori, Milano 2007, p. 63.

Zhuāngzǐ (Trang tử) nella iconografia vietnamita.

Giovanna Marini – Lamento per la morte di Pasolini … solo a morire lì vicino al mare

Giovanna Marini 01

La scrittura di un testo teatrale e musicale, con le parole di Pier Paolo Pasolini, ha dato vita, a quarant’anni della sua morte, a uno spettacolo singolare, per certi versi imprevedibile (Sono Pasolini) che mette a confronto il Pasolini maturo che si rivolge ai giovani e il giovane Pasolini, quello della sua formazione friulana politica-poetica. Questo confronto/contrasto è sostenuto da una colonna sonora incessante che, grazie alla scrittura di Giovanna Marini e all’esecuzione del “Coro Favorito”, riscopre e ridona nuova luce al “liquido” suono della lingua friulana del giovane Pasolini, quello de La meglio gioventù e del La nuova gioventù. Il compact disc contiene l’integrale registrazione sonora delle musiche espressamente composte da Giovanna Marini che da tempo si cimenta con successo su testi pasoliniani. La Marini qui riscopre e ripropone anche brani tradizionale (villotte) ben presenti nell’immaginario culturale di Pasolini, preciso riferimento di quel mondo popolare da lui tanto evocato, rimpianto, ripensato e cantato.

Lamento per la morte di Pasolini

 

Persi le forze mie persi l’ingegno
la morte mi è venuta a visitare
e leva le gambe tue da questo regno
persi le forze mie persi l’ingegno.

Le undici le volte che l’ho visto
gli vidi in faccia la mia gioventù
o Cristo me l’hai fatto un bel disgusto
le undici volte che l’ho visto.

Le undici e un quarto mi sento ferito
davanti agli occhi ho le mani spezzate
la lingua mi diceva è andata è andata
le undici e un quarto mi sento ferito.

Le undici e mezza mi sento morire
la lingua mi cercava le parole
e tutto mi diceva che non giova
le undici e mezza mi sento morire.

Mezzanotte m’ho da confessare
cerco perdono dalla madre mia
e questo è un dovere che ho da fare
mezzanotte m’ho da confessare.

Ma quella notte volevo parlare
la pioggia il fango e l’auto per scappare
solo a morire lì vicino al mare
ma quella notte volevo parlare
non può non può, può più parlare.

Giovanna Marini – Lamento per la morte di Pierpaolo

 

Salvatore Bravo – L’irrazionale-razionale del capitalismo si palesa con la legge della “nuova civiltà”: l’arbitrarismo.

Massimo Bontempelli x 20

Salvatore Bravo

L’irrazionale-razionale del capitalismo si palesa
con la legge della “nuova civiltà”: l’arbitrarismo


L’irrazionale razionale del capitalismo
La legge della “nuova civiltà” è l’arbitrarismo
Il concetto di «arbitrarismo»
False soluzioni
Città senza cittadinanza
La verità del traffico veicolare
La funzione “dis-educativa” del traffico veicolare
Riforma del paradigma privatistico
Conclusione


L’irrazionale razionale del capitalismo
L’irrazionale razionale è la cifra del capitalismo assoluto. La definizione è del filosofo Massimo Bontempelli. L’irrazionale-razionale del capitalismo assoluto lo si può cogliere in ogni aspetto del quotidiano: è sufficiente seguire il filo d’Arianna della categoria della totalità per mostrare quanto la “razionalità” del capitalismo assoluto, se ricondotta al concreto, palesi la sua irrazionalità. Nell’immediato, la razionalità comporta il calcolo delle azioni da effettuare per ottenere il plusvalore. In realtà, se il cono di luce allarga il suo raggio di visuale, l’irrazionalità del razionale capitalistico si svela nella sua violenza: il consumo diviene dispendio di risorse umane ed ambientali, l’accumulo si ribalta in irrazionalità, perché nega il fine per il trionfo del mezzo. Il capitalismo è irrazionale perché antimetafisico.
Il capitalismo speculativo è la realizzazione compiuta della logica del plusvalore, il quale si muove in due direzioni per occupare ogni spazio fisico e mentale. Il plusvalore relativo è finalizzato ad occupare ogni spazio della coscienza saturandola con l’intromissione di parole per il solo calcolo e rappresentazioni di sole merci, la mente si trasforma in semplice specchio dell’immediato, mentre il plusvalore assoluto sfrutta la forza lavoro, precarizza. Il plusvalore relativo, con i suoi sogni mediatici addomestica le masse, il popolo da demos (δῆμος) consapevole e disposto all’agire della prassi è sostituito dal laos (λαός), ovvero dalla massa depauperizzata della coscienza che si rimette alle parole del “ministero della verità” perennemente in azione con il fine di sussumere e reificare. Il popolo, privo e deprivato di domande, si rimette al capo, inneggia all’uomo forte, è pronto a seguirlo, “educato” ad essere oggetto della storia.

La legge della “nuova civiltà” è l’arbitrarismo
La guerra è lo stato perenne dei popoli proni al “ministero della verità”. Si manifesta, in modalità esponenziali, in circostanze che necessitano l’abbattimento del nemico che si oppone al nuovo ordine del discorso. Ma la guerra è la condizione quotidiana delle nuove plebi. Essa si manifesta nella competizione senza limite, nell’ossessione individualista e narcisista, nel riduzionismo generalizzato. L’io minimo è perennemente belligerante, poiché sostituisce la ricerca di sé con le operazioni di acquisizione. I popoli sono in guerra, perché senza domande. Ogni epochè dell’agire acquisitivo è messo alla pubblica berlina. Alla parola che unisce dev’essere sostituita la violenza della parola che divide, alla relazione umana il libero scambio quale religione unica ed assoluta della globalizzazione. La legge della “nuova civiltà” è l’arbitrarismo, come l’ha definita Massimo Bontempelli. In assenza di vincoli comunitari ed assiologici, ogni esperienza umana e luogo di condivisione sono sussunti alla logica acquisitiva.

Il concetto di «arbitrarismo»
Attraverso il traffico veicolare e lo spazio che esso occupa Massimo Bontempelli denuncia l’arbitrarismo, una nuova forma di nichilismo acquisitivo e proprietario con il quale lo spazio pubblico è svuotato del suo senso per essere occupato dai privati, fino ad essere pubblico in senso formale, ma di fatto è privatizzato a spese del pubblico:

«Basta ragionare, per capire quale sia questo presupposto: è quella forma di nichilismo che abbiamo chiamato arbitrarismo, qui espressa nella concezione secondo cui è un diritto della persona libera quello di usare a piacere lo spazio pubblico per spostarvisi con un proprio privato abitacolo semovente».[1]

Lo sfruttamento si concretizza per sottrazione: erodere ogni spazio pubblico e sostituirlo con il mercato, che in modo capillare cancella nel concreto lo spazio pubblico per eliminare dalla comunità la disposizione alla condivisione. Si opera sulla percezione concreta dello spazio vissuto che dev’essere occupato dal traffico veicolare per essere anche mercato espositivo gratuito perennemente in azione delle auto. I veicoli nelle pubbliche strade muovono al desiderio di acquisto irriflesso dei pedoni e non. Lo sfruttamento del popolo si manifesra anche nella forma dell’occupazione dello sguardo che essendo esposto al traffico veicolare in modo continuo, introietta l’acquisto e l’uso delle auto come una necessità irrinunciabile. Lo spazio si deforma, in quanto è vissuto come oggetto da conuistare e non da conoscere e vivere. Lo sguardo, l’udito, il tatto diventano i canali in cui la merce penetra ed occupa il corpo vissuto. Ci si abitua alla normalità del rumore come dei gas di scarico, si naturalizza l’artificiale. Il traffico occupa lo spazio come l’aria, anche quest’ultima è al servizio degli esiziali interessi privati, è “occupata” dai gas come dall’inquinamento sonoro. Si deve mutare l’olfatto e l’udito, affinchè l’innaturale sostituisca le condizioni che consentono la socializzazione e la dialettica del pensiero. Lo spazio cittadino da agorà dell’incontro diventa mercato totale.
La violenza del traffico è l’espressione immediata del capitalismo speculativo, risponde ad esigenze immediatamente razionali, ma in realtà ha l’effetto – nel suo moltiplicarsi incontrollato – di occupare ogni spazio fisico e mentale fino al loro annichilimento.

False soluzioni
Il traffico può procurare fastidio in alcuni, si possono denunciare gli effetti immediati, ma tali critiche non colgono la profondità del problema, restano all’interno dell’empirico, registrano i dati dell’inquinamento, ma non colgono la verità del fenomeno traffico, gli interessi privati che si celano dietro l’occupazione del suolo pubblico:

«Un po’ tutti si lamentano del cosiddetto traffico, sia pure a livelli diversi, corrispondenti a diversi gradi di sensibilità. Le persone di più consistente spessore umano non sopportano il sequestro allucinante di tutte le strade in tutte le ore alla socialità comunicativa, ad opera dei veicoli che invadono ogni spazio, lo percorrono spesso in modo pericoloso, lo ammorbano di gas, lo rendono costantemente pericoloso». [2]

Le critiche, le lamentale, non turbano i poteri, in quanto esse non producono alternative, poiché non sono estranee al problema nella sua abissale profondità, e non conducono alla prassi, anzi, le critiche impotenti sono sollecitate, perché sono l’orpello della democrazia formale.
Si cerca di risolvere il problema senza cambiare gli equilibri sociali, senza mettere in discussione la struttura economica e la sovrastruttura culturale. Si sposta il traffico in altre zone della città, si libera una parte minuscola della città rappresentandola come svolta green, come l’inizio di un nuovo modo di vivere e di abitare la città per lasciare tutto inalterato, anzi si ammorbano maggiormente parti della città, spesso abitate dai ceti meno abbienti subiscono gli effetti del dirottamento ecologico. Il consumo del territorio, l’inurbamento di aree sempre più ampie, in presenza di calo demografico, comporta la costruzione di strade su cui percorrere distanze sempre più ampie. Le strade attraggono auto, sono il segno che invita al loro uso, alla cultura del dominio e della sottomissione del suolo:

«Succede, però, che l’ampliamento degli spazi a disposizione delle automobili attira nuove automobili, ed i problemi di scorrevolezza si riproducono con il passare del tempo identici, ma con quantità maggiori di veicoli, e quindi con più devastanti effetti ecologici». [3]

Lo spazio liberato dal traffico è diversamente sussunto alle logiche acquisitive: si eliminano le auto per sostituirle con il traffico dei consumatori. Lo spazio di vita dev’essere sotto l’imperio della reificazione, per cui le zone liberate dal traffico sono occupate dalla medesima logica acquisitiva: nessuno spazio deve sfuggire allo scambio mercantile.

 

Città senza cittadinanza
Le soluzioni propagandate come ecologiche ed innovative, riproducono la struttura gerarchica dell’integralismo economico, la città è divisa in due strati: la superficie per gli automobilisti, sotto terra – con la costruzione delle metropolitane – i pedoni. La divisione degli spazi spesso coincide con la subalternità dei pedoni all’automobilista. Si gerarchizzano gli spazi: le auto sempre più costose per il loro mantenimento sono dei più ricchi, di coloro che non sono ancora del tutto precarizzati, mentre i pedoni chiusi nel loro buio orizzonte, nella caverna metropolita giudicano naturale la propria condizione:

«Per migliorare la circolazione urbana, si sono costruite metropolitane, ma in questo modo, dirottando i pedoni sotto terra , si è resa più forte l’idea che le città appartengono agli automobilisti, e si sono creati nuovi flussi di traffico da e per le stazioni delle metropolitane». [4]

Il traffico educa all’isolamento gli automobilisti rinchiusi ed al sicuro nell’abitacolo del veicolo imparano l’atomistica delle solitudini, i pedoni subiscono l’occupazione dello spazio pubblico, si abituano alla privatizzazione dello Stato. La città – curvata al solo valore di scambio – è città senza agorà e dunque è lo spazio realizzato del nichilismo, poiché lo spazio non è per gli esseri umani, ma è finalizzato allo scambio mercantile, alla violenza del plusvalore. Le violenze che attraversano le città contemporanee sono l’epifenomeno della negazione della città come convivialità e comunità, al suo posto non vi è che la violenza sulle ruote e del cemento. Il cittadino non è parte della comunità cittadina, ma assiste e serve la bestia selvaggia del mercato. Si assiste alla costruzione della spazialità piena, ingombra di merc. Il traffico diviene modello spaziale, per cui l’unico spazio possibile e vivibile è nella sola pienezza delle merci.

La verità del traffico veicolare
L’auto è la cinghia di trasmissione della privatizzazione. L’automobilista occupa lo spazio pubblico in modo diretto, e ne è separato, chiuso e racchiuso in un abitacolo che lo divide e che gli impedisce il contatto percettivo con il mondo esterno, lo guarda velocemente alla ricerca della sua meta, la quale è sempre funzionale ai suoi calcoli privati: il mondo intero è cancellato in nome dei personalissimi intendimenti privati:

«L’automobile, invece, essendo un abitacolo chiuso, sposta l’individuo attraverso lo spazio pubblico mantenendolo estraneo. Essa, cioè non è soltanto un mezzo privato di circolazione nello spazio pubblico, ma è anche uno spazio privato nello spazio pubblico, come fosse una piccola casa semimovente, o una stanza distaccata della casa spostabile nelle strade. […] L’automobile, quindi, determina la privatizzazione dello spazio pubblico non in quanto è un mezzo di proprietà privata, ma in quanto è uno spazio privato che si mantiene tale nello spazio pubblico. La privatizzazione dello spazio pubblico determinata dall’automobile ha creato modelli di comportamento collettivo che sono aberranti, e tuttavia generalmente accettati come normali».[5]

Lo spazio sotto l’effetto del traffico manifesta la verità della città nel tempo del capitalismo assoluto: non è più luogo della dialettica dell’incontro, ma è nella sua interezza valore di scambio, mercificazione totale degli spazi i quali sono occupati in nome della violenza del valore di scambio. La città non è più abitata, non ha più storia, ma è solo un immenso spazio espositivo per consumatori senza speranza.
Il gigantismo delle auto, inoltre, è l’espressione dell’onnipotenza del privato sul pubblico: auto dall’aspetto sempre più minaccioso palesano la potenza del privato. Il corazzamento veicolare causa l’espulsione dalla strada del pedone, che si ritrae dinanzi alla possibilità d’essere schiacciato dalla potenza automobilistica, la quale perde la sua funzione di spostamento veicolare per sottolineare la tracotanza sociale dei nuovi padroni sui normali pedoni. La minaccia è anche nel rumore assordante, vero strumento di inibizione del pensiero libero. Le città si estendono divorando suolo e spingendo folle umane verso la marginalità urbana. La violenza del sistema capitale si svela e nel contempo si struttura come abitudine intrascendibile.

La funzione “dis-educativa” del traffico veicolare
Il sistema del capitalismo assoluto si regge sulla divisione, sulla deformazione dei sensi come dei sentimenti: si deve imparare ad inseguire solo gli interessi privati ed a cancellare il pubblico. L’automobilista rappresenta il microcosmo del capitalismo assoluto, egli è astratto dalla realtà concreta e sfrutta la strada pubblica per fini privati. Gli automobilisti “rischiano” di diventare il mezzo con cui il capitalismo estende le sue logiche:

«L’automobilista, in realtà, è una figura la cui logica di comportamento replica su scala di massima quella dell’imprenditore capitalistico, caratterizzata dall’uso privato di risorse pubbliche (nel caso dell’automobilista dello spazio stradale), e dell’esternalizzazione dei costi della sua attività (nel caso dell’automobilista la circolazione), che diventano così da privati costi sociali».[6]

La privatizzazione della vita negli ultimi anni si è estesa con mezzi ulteriori. Si pensi ai telefoni cellulari, allo sguardo perennemente rapito da immagini e messaggi, spesso vacui, che corrono sulle linee telefoniche. Anche il pedone non guarda la strada, ma costantemente resta legato alla catena della sua vita astratta, separata dalla collettività. Le nuove catene invisibili si moltiplicano, ed in esse ci si avvolge con la stessa normalità con cui si respira. L’auto prepara l’imprenditore, poiché forma all’occupazione del suolo pubblico, al suo sfruttamento, mentre il pedone prepara il precario, poiché formato alla passività ed alla naturalizzazione delle gerarchie sociali.

Riforma del paradigma privatistico
Risolvere il problema del traffico è possibile solo se si cambia paradigma di lettura del reale. Le soluzioni messe in atto in nome della svolta ambientale, stile Greta, hanno il fine solo di perpetuare lo stato di cose attuale. Il paradigma può cambiare solo se la consapevolezza, sempre collettiva (Geist), diviene motore di un cambiamento della struttura e della sovrastruttura. Si assiste invece a cambiamenti parziali per occultare il macrodato che il pianeta non regge a tali logiche arbitraristiche. Massimo Bontempelli propone, così, la sostituzione del traffico con il rafforzamento dei mezzi pubblici espressione di un senso della comunità ritrovata:

«I problemi creati dall’automobile, cioè, non possono essere sensatamente affrontati se non con nuovo paradigma di pensiero che legittimi livelli progressivi di interdizione e penalizzazione del mezzo automobilistico. Occorre, in primo luogo, contrariamente, a quanto suppone il senso comune, smettere subito di potenziare la rete stradale, e sviluppare invece il trasporto su rotaia. […] Alle crescenti difficoltà di usare le automobili si dovrebbe rispondere con l’offerta di migliori e più convenienti trasporti pubblici». [7]

Conclusione
L’analisi del traffico veicolare denota e connota il capitalismo assoluto, capace di produrre ricchezza e nel contempo di distruggere – con la sua irrazionale razionalità – l’ambiente e la socialità.
Le miserie del capitalismo speculativo sono innumerevoli, producono miseria materiale nelle nazioni che subiscono il neocolonialismo, ma anche forme di miseria ambientale ed etica che non rientrano nei pubblici dibattiti nei paesi ad economia avanzata. L’integralismo economico è per sua istituzione e storia adialettico al punto che il silenzio di ogni opposizione è oggi denominata inclusione:

«Il modo di produzione capitalistico ha ormai storicamente svelato la sua natura spaventosamente distruttiva su molteplici piani. Esso ha creato ricchezza economica ad un livello mai raggiunto da alcun sistema precedente. Ma la creazione capitalistica di nuova ricchezza ha dimostrato di essere, allo stesso tempo, creazione di nuove povertà, distruzione della socialità degli esseri umani, della loro sanità psichica, dell’ambiente naturale adatto alla loro vita biologica, delle risorse per il loro futuro. Esso è ormai la maledizione del genere umano, che è condannato, per creare e distribuire ricchezza secondo i rapporti di produzione capitalistici, in maniera sufficiente a mantenere un minimo di equilibrio sociale, a vivere in modo sempre più distruttivo nei confronti della natura e di se stesso».[8]

Il breve scritto di Bontempelli, dunque, non è solo una riflessione sul traffico, ma insegna a filosofare, ad assumere un comportamento antidogmatico, a pensare per agire e vivere diversamente. L’attività filosofica consiste nell’interrogare il noto, per scoprire che è sconosciuto. Tale processo implica il passaggio da uno stato di passività ad uno di attività consapevole e concettuale.
Se i tempi paiono lontani dalla rivoluzione del paradigma, i testi di Bontempelli consentono comunque di far rimanere in vita idee e concetti che possono essere ritrovati e avere nuova fioritura, in quanto ciò che ora appare come intrasmutabile con la propagandata «fine della storia» ideologicamente onnipresente nei ministeri della (falsa) verità del capitalismo, già lavora per il suo superamento anche se in tempi non profetizzabili.

Salvatore Bravo

[1] Massimo Bontempelli, L’arbitrarismo della circolazione autoveicolare, C.R.T.- Petite Plaisance, Pistoia 2001, pag. 7.

[2] Ibidem, pag. 5.

[3] Ibidem, pag. 6.

[4] Ibidem.

[5] I Ibidem, pp. 9-10.

[6] Ibidem, pp. 11.

[7] Ibidem, pp. 12-13.

[8] Massimo Bontempelli – Marino Badiale, Per salvare la vita. 28 tesi contro la barbarie.

Salvatore Antonio Bravo – Una morale per M. Foucault?
Salvatore Bravo – Aldo Capitini e la omnicrazia. L’apertura è sentire la compresenza dell’altro, sentire la propria vita fluire nell’altro, lasciarlo essere, amarlo per quello che è, liberarlo dalla paura del potere, della mercificazione.
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Salvatore Bravo – La tolleranza è parola invocata nel quotidiano terrore dei giorni. La tolleranza nasconde il volto aggressivo della globalizzazione. È la concessione della legge del più forte, il diritto di vivere concesso dal potere.
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Salvatore Antonio Bravo – La società dei cacciatori. L’atomismo sociale e la deriva individualista dei nostri giorni, trovano la loro sostanza in un’immagine esplicativa della condizione umana postmoderna: il cacciatore.
Salvatore Antonio Bravo – «Le vespe di Panama» di Z. Bauman. La filosofia perde la sua credibilità e la sua natura critica e costruttiva se vive nel mondo temperato delle accademie e degli studi televisivi e mediatici, dove campeggia l’uomo economico: turista della vita, vagabondo tra le mercificazioni.
Salvatore Antonio Bravo – Il comunista è un pensatore militante, consapevole dunque che la sua azione è perenne: non vi sono sistemi o regimi che concludono la storia e pacificano gli animi. In Marx l’idea del comunismo si concretizza anzitutto nell’immagine di una società in cui l’individuo, liberato dall’alienazione, diventa un uomo totale, universale, cioè capace di dar pieno sviluppo alla sua personalità.
Salvatore Antonio Bravo – Theodor L. Adorno, in «Minima moralia. Meditazioni sulla vita offesa», ci comunica l’urgenza di un nuovo esserci. Chi vuol apprendere la verità sulla vita immediata, deve scrutare la sua forma alienata, le potenze oggettive che determinano l’esistenza individuale fin negli anditi più riposti. Colui che non vede e non ha più nient’altro da amare, finisce per amare le mura e le inferriate. In entrambi i casi trionfa la stessa ignominia dell’adattamento.
Salvatore Antonio Bravo – «Viva la Revoluciòn» di E. Hobsbawm.
Salvatore Antonio Bravo – Evald Ilyenkov e la logica dialettica. Occorre studiare il pensiero come un’attività collettiva, in cooperazione. Il capitalismo è profondamente anticomunitario, trasforma tutto in merce, disintegra le comunità, smantella la vita nella sua forma più alta: il pensiero comunitario consapevole.
Salvatore Antonio Bravo – «Il giovane Marx», di György Lukács. L’intera opera di Marx è finalizzata dall’amore per l’umanità che si fa pensiero consapevole della disumanità di ogni condizione di alienazione, e di ogni reificazione negatrice della libertà.
Salvatore Antonio Bravo – Il libro di Norman G. Finkelstein, «L’industria dell’olocausto. Lo sfruttamento della sofferenza degli ebrei».
Salvatore Antonio Bravo – Il mercato e l’asservimento della Scuola: il mito dell’orientamento consapevole. Ciò che occorre invece è tempo per un’educazione da esseri umani, per lo sviluppo intellettuale, per l’adempimento di funzioni sociali, per rapporti socievoli, per il libero gioco delle energie vitali fisiche e mentali.
Salvatore Antonio Bravo – Marx poeta nel suo anelito all’universale: «Non rimaniamo immobili Senza volere né fare niente. Non subiamo passivamente il giogo ignominioso. Il desiderio, la passione, l’azione sono parte di noi».
Salvatore Antonio Bravo – L’industria culturale capitalistica utilizza solo autori che interpretino K. Marx in senso riduttivo, proprio per evitare possibilità di sviluppo teorico progettuale con una conseguente prassi rivoluzionaria.
Salvatore A. Bravo – Il collare e le catene delle navi negriere, sono ora sostituiti dal controllo digitale, un panopticon che controlla per spezzare sul nascere la possibilità di un pensiero che voglia progettare un mondo altro.
Salvatore Bravo – Estetiche del turbocapitalismo. La paideia negativa e nichilistica dell’immagine. Contrapporre alla notte delle immagini la cultura dell’impegno, sottraendosi alla violenza dell’incultura dell’immagine.
Salvatore Bravo – Il flâneur, passeggiatore annoiato, è l’uomo massa della società dell’abbondanza che vive nella distanza dallo sguardo altrui. Essere astratto e distratto vive l’esperienza senza simbolizzarla in prassi, al servizio del sistema mediante le protesi tecnologiche, che esigono automatici comportamenti.
Salvatore Bravo – L’assenza di futuro è il nichilismo dell’assoluto presente. Il trionfo dell’immediato-astratto forma individui e non persone. Il radicamento nell’attimo fa del soggetto un ente che si piega alle circostanze.
Salvatore Bravo – Il pensiero corporante all’epoca del capitalismo assoluto, con la sua promessa dell’Eden restituisce soltanto un corpo esausto e violento, come nel mito della caverna di Platone. Si immilla la frustrazione. Il capitalismo oggi esige che l’uomo lotti contro se stesso oltre che contro gli altri.
Salvatore Bravo – Il disorientamento gestaltico e le parole valigia. Le parole valigia e lo spettacolo sempre in scena reificano il soggetto umano riducendolo a semplice funzione del gioco perverso della produzione.
Salvatore Bravo – Il modello Marchionne trasforma gli uomini in soldati dell’efficienza, inibisce ogni discussione sul senso e sulla dignità del lavoro, il cui scopo non è la sopravvivenza biologica, ma l’espressione di sé, della propria identità, la conoscenza di se stessi, come afferma la Costituzione. Il lavoratore è persona, non un servo dell’azienda.
Salvatore Bravo – L’umanesimo del lavoro in Marx. Il lavoro dell’«uomo macchina» distrugge il lavoro come progetto creativo in cui conoscersi perché il lavoro coatto brucia la creatività e inibisce la possibilità di costruire e produrre secondo le leggi della bellezza.
Salvatore Bravo – Tecnica e cultura classica. La potenza della tecnica non è garanzia di virtù e bene. Cultura classica come formazione alla libertà consapevole.
Salvatore Bravo – Lo sradicamento è vita fuori dalla storia, dalla coscienza, dalla comunità in cui la vita fiorisce. Lo sradicamento massimo è la riduzione di tutto sulla linea della quantità, è associare il bene solo alla quantità. Ma se il bene è la quantità, il male è per tutti.
Salvatore Bravo – ll presente non è tutto, lo diviene in assenza di domande. La domanda è già utopia concreta. Per pensare l’utopia concreta l’immaginazione è imprescindibile, essa è operazione critica, domanda radicale e filosofica, è una diversa rappresentazione del presente: mentre configura il futuro, opera nel presente investendolo di nuova vita. Un mondo senza pensiero ed immaginazione empatica è solo distopia.
Salvatore Bravo – L’epoca dello straniamento. Se ignoriamo che cosa mai noi siamo come potremo conoscere l’arte per render migliori noi stessi? Dalla peccaminosità assoluta alla colpevole innocenza. La vera trasgressione è il pensiero critico contro l’attività perenne senza consapevolezza.
Salvatore A. Bravo – Il bisogno di filosofia è un bisogno autentico, in quanto filosofare è proprio dell’essere umano. Nulla è facile, ma tutto diventa più difficile in un mondo senza teoretica.
Salvatore A. Bravo – Vogliamo ricordare Costanzo Preve, l’uomo e il filosofo che, con la sua resistenza al capitalismo speculativo, ha testimoniato che è possibile vivere diversamente dal nietzschiano “ultimo uomo”. È sceso nelle profondità sistemiche della nostra epoca e scandagliato filosoficamente la genesi dell’odierno economicismo nichilistico.
Salvatore A. Bravo – Le metafore nella filosofia. La metafora è bussola concettuale per guardare oltre l’orizzonte dell’angusto presente.
Salvatore A. Bravo – Plebe e popolo: rivoluzione passiva e tecnologie. Vi è popolo solo dove vi è sovranità partecipata. Il popolo diventa plebe in assenza di pensiero e di linguaggio. Il popolo è comunità manifesta, è progetto partecipato. Non possiamo sottrarci alla responsabilità del divertere.
Salvatore A. Bravo – La prudenza è virtù che coniuga qualità e misura dando un significato alla quantità, determinandola. La società dell’imprudenza si concretizza nella forma del nichilismo economicistico.
Salvatore A. Bravo – Senza progettualità, in un mondo senza virtù e nell’epoca della normalità del male, non vi è che l’eternizzazione dell’attimo che si ripete.
Salvatore A. Bravo – Ma che genere di uomini è questo? Quod genus hoc hominum? Quale barbara patria permette un’usanza simile? Quaeve hunc tam barbara morem permittit patria? Ci negano il rifugio dell’arena; muovono guerra impedendoci di scendere a terra e di fermarci sulla spiaggia. L’impegno civile è resistenza antropologica.
Salvatore A. Bravo – I barbari e l’Occidente. La comunità è il luogo del dono. La barbarie è l’incapacità di pensare la possibilità del dono. La bellezza germina nel pensiero che medita sull’esperienza. L’edonismo struttura un mondo senza intelligenza.
Salvatore A. Bravo – Massimo Bontempelli interprete di Karl Marx. Marx era prima di tutto un rivoluzionario: questa era la sua reale vocazione. La lotta era il suo elemento. Ed ha combattuto con una passione, con una tenacia e con un successo come pochi hanno combattuto.
Salvatore A. Bravo – La laicità all’epoca dell’integralismo laicista. Si può resistere alla mutazione antropologica messa in atto dal capitale assoluto in nome dell’aziendalizzazione della vita, della parola, delle relazioni.
Salvatore A. Bravo – La pedagogia del coding. Pensare come una macchina. L’efficienza è l’obiettivo finale. L’obbiettivo e disellenizzare. Il coding è costruzionismo attivistico. Al coding si può opporre la cultura classica.
Salvatore A. Bravo – La superstizione scientista. La verità è qualche cosa di infinitamente più dell’esattezza scientifica.
Salvatore A. Bravo – L’albero filosofico del Ténéré. Esodo dal nichilismo ed emancipazione in Costanzo Preve. Dalla metafora del deserto (Nietzsche-Arendt) al fondamento veritativo in Costanzo Preve.
Salvatore A. Bravo – Storia, filosofia ed oblio in Massimo Bontempelli. Sulla necessità di coniugare lo studio della storia e della filosofia di fronte alla pianificazione dell’oblio alienante e nichilistico.
Salvatore A. Bravo – Salviamo le Cattedrali dalle fiamme del plusvalore.
Salvatore Bravo – Superare L’inquietudine e l’indifferenza nell’estasi del camminare eretti, con l’entusiamo che scaturisce nell’anima da un punto originale che genera valore e determina valore, continuando ad ardere anche dopo tutte le catastrofi empiriche. È necessario, oggi, difendere il diritto alle passioni.
Salvatore Bravo – Siamo nella rete della globalizzazione della chiacchiera, ma abbiamo l’illusione di essere liberi. La chiacchiera, che è alla portata di tutti, non solo esime dal compito di una comprensione genuina, ma diffonde una comprensione indifferente, per la quale non esiste più nulla di incerto.
Salvatore Bravo – Populismo pedagogico e scuola senza concetto. La scuola facile non libera, non permette al pensiero di configurarsi, ma lo destruttura in chiacchiera. La scuola difficile e dell’impegno educa alla domanda, forma alla temporalità distesa e densa di contenuti.
Salvatore Bravo – La filosofia è per sua natura anticrematistica e comunitaria. è resistenza all’inverno dello spirito che avanza. L’uscita dallo “stato capitale” necessita della radicalità della filosofia, senza di essa non vi è prassi, non vi è verità, non vi è domanda, ma solo l’antiumanesimo.
Salvatore Bravo – I nuovi «dannati della terra» sono in grado di sfidare la paura. L’essere umano è pensiero, coscienza. per quanto forte sia il condizionamento, nessun potere potrà occupare lo spazio interiore dell’uomo, perché l’infinito è nell’essere umano.
Salvatore Bravo – Il 23 Novembre del 2013 veniva a mancare Costanzo Preve. Ci lascia una importante eredità morale e filosofica: cercare verità, complessità, libertà dalle conventicole. La filosofia non ha il compito di rassicurare, ma di porre domande, rinunciando alle facili risposte.
Salvatore Bravo – Intellettuali, parola e potere.
Salvatore Bravo – La filosofia umanizza, strappa l’essere dall’abbandono in cui vive, per consegnarlo a se stesso, al suo progettare nella storia. Scindere la verità dalla prassi e dalla responsabilità dispone l’essere umano alla passività. Ma così la filosofia diviene gioco ed intrattenimento per mediocrità acculturate.
Salvatore Bravo – La voce del padrone sulla scuola della sola “quantità”. In campo la «Fondazione Agnelli» ed «Eudoscopio».
Salvatore Bravo – filosofia e ordine del discorso. La «passione durevole» di György Lukács per la filosofia è finalizzata a trascendere i condizionamenti del capitalismo che vuole anestetizzare la corrente calda del pensiero critico perché nella prefigurazione del fine la coscienza struttura la prassi dell’emancipazione.

Rainer M. Rilke (1875-1926) – Sicurezza significa non sospettare di nulla, non tenere nulla a distanza, non considerare nulla come un Altro irriducibile, significa spingersi oltre ogni concetto di proprietà e vivere di acquisizioni spirituali e mai di possessi reali.

Rainer Maria Rilke08

 

Cara Ilse,

[…] Al di fuori di una poesia, di un quadro, di una metafora, di una architettura o di una musica, la sicurezza si può raggiungere forse solo a costo di una ben precisa limitazione di sé, chiudendosi nel recinto di una porzione di mondo che si conosce e si è scelta, in un ambiente che ci è noto e comprensibile, nel quale sia possibile disporre di sé in modo efficace e immediato. Ma possiamo davvero desiderare una condizione del genere? La nostra sicurezza deve invece in qualche modo trasformarsi in una relazione con il tutto, con il mondo nel suo complesso; essere sicuri per noi significa conoscere l’innocenza del torto e accettare la capacità del dolore di tramutarsi in forma; significa rifiutare i nomi per onorare, come fossero nostri ospiti, i singoli collegamenti e legami che il destino nasconde dietro ogni nome; significa nutrimento e rinuncia fino a sprofondare nello spirito, […] significa non sospettare di nulla, non tenere nulla a distanza, non considerare nulla come un Altro irriducibile, significa spingersi oltre ogni concetto di proprietà e vivere di acquisizioni spirituali e mai di possessi reali […]. Questa sicurezza tutta da osare accomuna le ascese e le cadute della nostra vita e in questo modo dona loro un senso. Accogliere la vastità dell’insicurezza: in un’infinita insicurezza anche la sicurezza diviene infinita.

9 ottobre 1916

 

Rainer M. Rilke, La vita comincia ogni giorno. Lettere di saggeza e commozione, L’Orma, Roma 2017, p. 53.

Rainer M. Rilke (1875-1926) – Non dimenticare mai di formulare un desiderio: i desideri durano a lungo, tutta la vita, tanto che non potremmo aspettarne l’adempimento.
Rainer Maria Rilke (1875 – 1926) – La pazienza è tutto
Rainer Maria Rilke (1875-1926) – E queste cose, che passano ma ci credono capaci di salvarle, noi che passiamo più di tutto, vogliono essere trasmutate, entro il nostro invisibile cuore in – oh Infinito – in noi! Quale che sia quel che siamo alla fine.
Rainer Maria Rilke (1875-1926) – Occorre raccogliere senso e dolcezza per tutta una vita. Anche i ricordi di per se stessi ancora “non sono”. Solo quando divengono in noi sangue, sguardo e gesto, non più scindibili da noi, solo allora può darsi che in una rarissima ora sorga nel loro centro e ne esca la prima parola di un verso.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Angelo Tonelli – Sapienza è una condizione dello spirito, un modo di essere, e non un insieme di contenuti che si ritengano veri e saggi. È la posizione interiore del meditante. Il Sapiente è radicato nella sorgente delle cose. Il Sapiente è conoscenza.

Angelo Tonelli 02

«Sapienza è una condizione dello spirito, un modo di essere, e non un insieme di contenuti che si ritengano veri e saggi. È la posizione interiore del meditante e del contemplatore, che non si preoccupa di spiegare il mondo o le procedure del pensiero, ma è puro testimone, sic et simpliciter, specchio fluido in cui tutto appare e si dissolve, senza lasciare traccia sulla superficie. Il Sapiente è radicato nella sorgente delle cose […].
La Sapienza è un modo di essere, non di pensare. La filosofia è un modo di pensare, e fonda la sua capacità di distacco sulla procedura riflessiva del pensiero, non sulla contemplazione-meditazione. La filosofia è frutto dell’ego, la Sapienza del Sé. Il Sapiente è conoscenza, il filosofo si sforza di conoscere. La prestazione più eccellente della filosofia è nel suo farsi “esercizio spirituale”, secondo la bella formula applicata da Hadot alla filosofia antica […]» (pp. 21-22).

«Mirabilmente rappresenta il saggio morente Friedrich Hölderlin nel dramma La morte di Empedocle, quando il Sapiente si rivolge con queste parole ai cittadini che vorrebbero dissuaderlo dal morire:

O cara ingratitudine! Eppure io, a sufficienza,
vi diedi di che vivere. È destino vostro
di vivere fin tanto che avete fiato; non mio. Per tempo
deve congedarsi colui dalla cui bocca lo spirito
ha parlato. La natura divina si rivela
spesso in questo modo e così la stirpe umana
nelle sue ricerche può riconoscerla. Ma una volta
che il mortale, a cui di delizia ha colmato il cuore, l’abbia proclamata,
fate che infranga il vaso, affinché a usi diversi
non serva il divino e non si trasformi
in opera umana. Lasciate
che questi eletti muoiano, lasciate
che gli spiriti liberi, al tempo stabilito
e con amore, si sacrifichino agli dèi, prima
che si spengano in prepotenza, superbia e vergogna.
E questa è la mia sorre; ne sono cosciente
e da tempo, dai giorni della giovinezza, l’ho predetta
a me stesso. Rispettatela! Domani,
non trovandomi più, potrete dire:
“Non doveva invecchiare, né contare i giorni,
né essere schiavo di affanni e malattie.
Non visto si è congedato; mano umana
non l’ha sepolto, e nessun occhio sa
delle sue ceneri, perché niente altro
a lui si addice: innanzi a lui
nell’ora sacra della morte
gli dei sono apparsi senza velo …
Alla luce e alla terra egli era caro, e lo spirito,
lo spirito del mondo destava in lui il suo stesso spirito,
in cui esse vivevano, e al quale morendo fa ritorno.[1]

Così morì il Sapiente che nei Physiká indagò con sguardo di fisico l’Origine di tutte le cose, e con penetrazione di veggente, nei Katharmoi, disse le peripezie dell’anima umana, di vita in vita, di morte in morte. Mai, nella filosofia, la Vita e la Natura conobbero più intensa celebrazione che nella morte di Empedocle, né la conoscenza si saldò altrettanto strettamente all’azione».

Angelo Tonelli, Sulle tracce della sapienza, Moretti & Vitali, 2009.

[1] F. Hölderlin, Der Tod des Empedokles, trad. italiana di E. Pocar, Milano 1983, pp. 141-143.

Sulle tracce della sapienza. Per una rifondazione etica della contemporaneità,
Moretti & Vitali, Bergamo 2009.

Quarta di copertina
Frutto e sintesi di trenta anni di ricerche filologiche intorno alla Sapienza, il libro di Tonelli ne presenta campionature significative, dalla tradizione iniziatica eleusina allo sciamanesimo originario, dai grandi tragici ai Presocratici, a Platone, alla teurgia degli Oracoli Caldaici, alle visioni dell’alchimista Zosimo di Panopoli, fino a un’incursione nel Moderno, con la rilettura di The Waste Land e di Four Quartets di Eliot in chiave mistico-rituale, e della psicologia analitica junghiana in chiave alchemica e gnostica. Per quel che riguarda la Sapienza d’Oriente, l’attenzione si concentra sulla sua dimensione di pratica spirituale, perché il Buddhismo e l’Induismo hanno saputo concretare nell’unità corpo-mente la condizione sapienziale, affinando tecniche meditative adatte a lenire la sofferenza e favorire lo sviluppo delle qualità etiche positive. In chiusura, l’autore riannoda il filo che lega l’inizio della filosofia con il principio della sua fine, ovvero Platone con Kant, per quel che riguarda la possibilità dell’esercizio di una influenza dei pensatori sul potere, rintracciando la causa della loro inefficacia, pur nella nobiltà del gesto, proprio nell’essere filosofi, e non Sapienti, e dunque propagatori di un modo di pensare, e non di un modo di essere totale.

SOMMARIO

 

Premessa

PARTE PRIMA: LA SAPIENZA D’OCCIDENTE

I.
Che cos’è Sapienza?
Lo specchio fluido della conoscenza
Sapienza e filosofia
Ritornare alla Sapienza
La postazione sapienziale
Chi è Sapiente?

II.
La Sapienza greca tra Oriente e Occidente
Due fiumi, una sorgente
La veste di Brahma
Kant, Buddha, Eleusis
Ex Oriente lux?
Sciamani d’Oriente e d’Occidente
Eraclito e Chuang-tzu
Eleusis, Dioniso, e l’Oriente

III.
Essere Sapienza
I Sophoi
Tò soph6n
L’essere è intuire
Misticismo dei teurghi
La mente sacra e indicibile
Il Sapiente è Sapienza
Dell’Amore
Snaturamenti

IV.
Alle radici della Sapienza: Dioniso attraverso-oltre
L’equivoco su Dioniso
Dioniso a Eleusi
Katabasis, anabasis, epopteia
Legómena
Deiknymena, dramena
La visione suprema
Epopteia e immortalità
Il dio dell’ebbrezza e della contemplazione
Un dio che inebria
Il Simposio e l’Ultima Cena

V.
Parmenide, Eraclito, Empedocle: la parola come iniziazione
Parola sapienziale
Uno sciamano teoretico
Le tre vie di Parmenide
Il mondo è conoscenza?
La quarta via
Il libro sacro di Eraclito
Le tavolette orfeodionisiache di Olbia
Eraclito e i misteri
Il contesto ellenico
Performances sapienziali
L’armonia nascosta
Nondualismo
Il Fuoco cosmico
Psyché, Aión
Come conoscere?
Stati di coscienza
Il Risveglio
Amor mundi
Sapienza come azione
Interrogai me stesso
Sperare l’insperabile
I miracoli di Empedocle
Il superuomo malinconico
Il Signore della Morte
Sciamano e maestro di sciamanesimo
Poesia sapienziale, Sapienza poetica
Le radici del cosmo
L’Origine di tutte le cose
Sphdiros
Dal caos al k6smos
Il molteplice Uno
Transimmanenza
Psicocosmogonia empedoclea
Una civiltà dell’amore
La morte mistica
L’omaggio di Hölderlin

VI.
Ontologia sapienziale del tragico
Lo specchio e il théatron
Tragedia come Sapienza
Dietro le quinte dell’Essere
Il riscatto
La tragedia come iniziazione
Un rito collettivo di Sapienza
Tutto è pieno di dei
Vita che guarda la vita
Un rito profanato?
Drómena, káharsis
Eusébeia, sophrosyne
Eschilo e la vertigine della hybris
Orfeo tragico
La tragedia, Dioniso e il sacrificio
Il profanatore dei Misteri
Páthei md/hos e iniziazione
L’intuizione di Colli
Paideia eschilea
Katábasis, anábasis, e integrazione dell’Ombra
Sofocle iniziatico
La salutare disfatta dell’ego
Sapienza compassionevole
Accettazione deU’ assurdo strazio
Edipo eleusino?
Espansione deUa coscienza
illuminazione delle Ombre
Una medicina della pólis
L’equivoco su Euripide
Uomini e dèi
Tormentata fiducia in una teodicea
Anánke, e la malinconia
Dov’è la gioia?
Tutto vero e tutto falso
Trame iniziatiche: Oreste, Ippolito, Elena, Alcesti; Eracle, Baccanti
Baccanti e il trionfo della Sapienza dionisiaca
Medèn agan
Mania e misura

VII.
Ritorno a Orfeo
Poesia e rito
Poeti-sacerdoti
Poesia, musica, mistero
Gli dèi e il mondo
Orfeo
L’Orfeo di adesso
Anamorfosi, consacrazione
Musica di parole
Una disciplina contemplativa
La danza e il sacro
Soma-sema
Corporificare l’incorporeo, spiritualizzare il corporeo
La via orfica
Gli Inni orfici
Lo sguardo degli dei

 

VIII
La rivoluzione platonica
Il Grande Divisore
Tragitti paralleli dell’ascesi
La visione olimpica
Sapienza è immortalità
Lo sguardo dell’auriga
Una rivoluzione sapienziale nella politica

 

IX.
La Sapienza dei teurghi
La bellezza e il sacro
Gli Oracoli caldaici
Posseduti dagli dèi
Il rituale
Statue animate
Magie
Il Superuomo mistico e illuminato
Il fiore dell’intuire

 

X.
Postille al più sapienziale dei filosofi

 

PARTE SECONDA: SAPIENZA D’ORIENTE

I.
La divina arte del meditare
Al vertice dell’esperienza sapienziale
La vacuità
Granelli di sabbia sulle rive del Gange
Il Re che tutto crea
Samsara e Nirvana
L’attimo presente
Il vuoto è forma
Corpo di Sapienza
La domanda dell’Ombra
I limiti della meditazione e l’integrazione dell’Ombra
Il Cristianesimo e la scissione dall’Ombra
Repressione e rimozione
La “buona coscienza”
Etica dualistica e distruttività dell’Ombra rimossa
Risanare la scissione
Il problema del male e l’alchimia responsabile dell’Ombra
Perfezione e totalità: la nuova etica
Lasciar respirare l’Ombra

 

II.
Il canto della Sapienza d’Oriente
Poema di violenza e Sapienza
Libertà dall’attaccamento
Essere nel Sé
Brahman
Krishna
Epifania del divino
La spada della Sapienza divina
Sattva, rajas, tamas
Oltre la Natura
Assolvere il proprio compito
Il Figlio degli Dei

 

 

PARTE TERZA: NEL CUORE DEL MODERNO.
SAPIENZA DELL’INCONSCIO, POESIA COME INIZIAZIONE

I.
La Sapienza dell’inconscio
Jung e l’alchimia
La psicologia del profondo come disciplina iniziatica
Le Visioni di Zosimo
L’acqua divina
Autosacrificio divino
La pietra filosofale e il tempio infinito
L’uomo aureo
La fonte mercuriale
Oltre l’Anthropos

II.
Abraxas
Septem sermones ad mortuos di C. G. Jung
Verità è Menzogna
Il Pleroma
Vacua plenitudo
Totalità è ambiguità
Creatura e Pleroma
Horror vacui
La contraddizione redentrice
Tenere a bada il pensiero

Imago dei

III.
Eliot mistico, tra Oriente e Occidente
Un archetipo del Moderno?
I due Eliot
Datta dayadhvam damyata
Musica mistica
Eliot e Eraclito
Chrónos e Aión
Poemi iniziatici
Il Fuoco e la Rosa
 

EXPLICIT: PER UNA CIVILTÀ DELLA SAPIENZA

I.
Fallimento e trionfo di Platone
Kant, millequattrocento anni dopo
Opus contra naturam, iuxta naturam
Politica ancella dell’etica

II.
Postilla
Noi veniamo dopo

 

APPENDICE

Discorso ai politici sulla Sapienza
Un Minotauro creato dalla storia
Il politico illuminato
Il laboratorio umano
Sperare l’insperabile
Una lettera del Presidente della Repubblica
Bibliografia essenziale

In epoca moderna il filo-sophós, decadimento del sophós, decade ulteriormente a intellettuale, che non solo ha perduto come il primo ogni contatto con la sfera della sophia, ma anche è diventato incapace di pronunciare una visione del mondo dotata di una profonda radice sapienziale, e si è ridotto a ermeneuta del pensiero precedente o esegeta del costume contemporaneo, attraverso l’esercizio di una ratio ben diversa, per esempio, dal lógos unificante e intuitivo eracliteo.

La sfida che si pone è lavorare per una civiltà della consapevolezza, della pace, della solidarietà e dell’equilibrio ecologico

A. Tonelli


 

Passeggiando con i suoi libri …


Come in alto, Teatro Andromeda, opera di Lorenzo Reina. Santo Stefano Quisquinia, Sicilia. Foto di Christian Reina.

Zozimo di Panopoli, Coliseum, 1988.


Eraclito. Dell’Origine, traduzione e cura di A. Tonelli, Feltrinelli, 1993.


 

Oracoli caldaici,  cura e traduzione di Angelo Tonelli, Rizzoli, 1995.


Oracoli caldaici,  cura e traduzione di Angelo Tonelli, Rizzoli, 1995.


 

Thomas S. Eliot, La terra desolata. Quattro quartetti, Traduzione e cura di Angelo Tonelli, Feltrinelli, 1995.


Frammenti del perpetuo problema, Camparotto editore, 1998.


Altramarea. Poesia come cosa viva. Antologia di poesia contemporanea,
a cura di A. Tonelli, Camparotto editore, 1998.

Questo non è un libro di poesia nel senso vulgato del termine, perché i testi che compongono la raccolta sono giunti al curatore attraverso la comunicazione orale, diretta, formulata in un adeguato “témenos”, proprio come accadeva agli albori della poesia, nelle corti micenee di Omero, o nei giochi sacri di Pindaro, o nel tiaso di Saffo, o ancora, più vicino a noi nel tempo, nelle conversazioni dei poeti decadenti francesi, o dei futuristi. Questo non è un libro in senso stretto e tipico, ma – per usare un termine con cui Giorgio Colli rendeva “Erlebnis” – l’eco di “vissutezze” poetiche reiterate nel corso degli anni – e destinate a reiterarsi ancora, a ogni solstizio d’estate, con “Argonauti” nel Golfo degli Dei, e nell’agosto rovente, con “Altramarea” – che a quella “vissutezza” intende alludere, perché è in essa che la poesia si è fatta vita e sguardo sulla vita, ha acceso entusiasmi e presagito orrori planetari, creato incanto e graffiato con stridori metallici, nella circolazione vivente della parola incarnata dal suo autore, a rispecchiarsi nell’anima di un uditorio vivo. […].


María Zambrano, Seneca,
Traduzione di Angelo Tonelli,
Bruno Mondadori, 1998.


Properzio, Il libro di Cinzia. Elegie. Testo latino a fronte. Vol. 1,
trad di A. Tonelli, Marsilio, 1999.

“Cinzia fu l’inizio, Cinzia sarà la fine”: con questo impegno di fedeltà il ventiduenne Properzio fissava in una formula emblematica l’essenza dell’amore elegiaco, assoluto e totalizzante. Con l’autorità e il fascino della donna bella, colta e raffinata, Cinzia segna il primo libro delle elegie properziane, il libro che rappresenta in modo esemplare la complessità di sentimenti del poeta innamorato: gelosie, tradimenti, riconciliazioni, momenti di tenerezza e di dedizione, di freddezza e di rifiuto. La sincerità della passione si unisce alla finzione letteraria, spesso filtrata attraverso la rievocazione del mito. Scelta di vita e scelta di poesia tendono a identificarsi creando un codice letterario, quello del genere elegiaco, che nella sua perfezione formale e nella sua breve vitalità rimase modello insuperato di poesia d’amore e specchio della vita mondana della società augustea.


Eschilo, Le tragedie, a cura di Angelo Tonelli, Marsilio, 2000.

Miti eterni, storie immortali che sfidano ogni epoca con la loro poesia e con il loro mistero, legami inestricabili con un passato che in modo immutato ancora ci seduce e ci angoscia con i suoi enigmi. Una voce poetica, tesa e vibrante, ci canta il lutto del re di Persia sconfitto dai greci, la disperazione del Prometeo crocifisso per amore, la tragedia dei figli di Edipo che si uccidono in un estremo duello alla settima porta di Tebe, il delirio di Cassandra e la furia di Clitennestra uxoricida, la vendetta, la follia e l’assoluzione di Oreste per l’assassinio della madre.


Sofocle, Le tragedieLe tragedie, a cura di Angelo Tonelli, Marsilio, 2004.

Celebrato per la purezza dello stile e per la perfezione della struttura drammaturgica, Sofocle è il più limpido ma anche il più complesso ed enigmatico dei tre grandi tragici greci. Ateniese, innamorato della sua città, ne esaltò la bellezza, ne difese le istituzioni, ma intravide anche i pericoli del passaggio epocale dall’individualismo conservatore delle famiglie aristocratiche all’egualitarismo democratico dello stato di diritto. Cantore della polis, ma anche di eroi perdenti e sfortunati, di donne assetate di giustizia e di vendetta, Sofocle è soprattutto il creatore del personaggio di Edipo re di Tebe, metafora esemplare delle alterne vicende della vita e della cieca crudeltà del caso.


Zozimo di Panopoli, Visioni e risvegli, a cura di Angelo Tonelli, Rizzoli, 2004.

Personaggi misteriosi, mostri crudeli, sacrifici rituali e “riti terribili” popolano questo testo complesso e affascinante che con la violenza delle sue visioni ha sedotto lo stesso Jung, a cui si deve il merito di averlo sottratto a un oblio millenario. Scritto agli inizi del IV secolo, Visioni e risvegli raccoglie quattro brevi trattati di alchimia, il più famoso dei quali, Sulla virtù, descrive con toni onirici e fantasiosi i diversi gradi di un rito di iniziazione. Dell’antica storia di questi testi, ricchi di aneliti mistici ed echi religiosi, parla nell’introduzione Angelo Tonelli, che analizza anche i legami tra l’alchimia greca e la psicologia dell’inconscio di Jung.


 

Euripide, Le tragedie, a cura di Angelo Tonelli, Marsilio 2007.

Con la traduzione integrale delle tragedie di Euripide si conclude un progetto di grande rilievo editoriale iniziato da Angelo Tonelli nel 2000 con la versione completa di Eschilo, cui è seguita nel 2004 quella di Sofocle. Per la prima volta e non solo in Italia, si possono leggere tutte le tragedie greche nella traduzione di uno studioso che è un profondo conoscitore del greco antico, esperto di drammaturgia antica e moderna, poeta egli stesso e creatore di eventi.


 

Canti di Apocalisse e d’estasi, Camparotto Editore, 2008.


Sulle tracce della sapienza. Per una rifondazione etica della contemporaneità,
Moretti & Vitali, Bergamo 2009.

Frutto e sintesi di trenta anni di ricerche filologiche intorno alla Sapienza, il libro di Tonelli ne presenta campionature significative, dalla tradizione iniziatica eleusina allo sciamanesimo originario, dai grandi tragici ai Presocratici, a Platone, alla teurgia degli Oracoli Caldaici, alle visioni dell’alchimista Zosimo di Panopoli, fino a un’incursione nel Moderno, con la rilettura di The Waste Land e di Four Quartets di Eliot in chiave mistico-rituale, e della psicologia analitica junghiana in chiave alchemica e gnostica. Per quel che riguarda la Sapienza d’Oriente, l’attenzione si concentra sulla sua dimensione di pratica spirituale, perché il Buddhismo e l’Induismo hanno saputo concretare nell’unità corpo-mente la condizione sapienziale, affinando tecniche meditative adatte a lenire la sofferenza e favorire lo sviluppo delle qualità etiche positive. In chiusura, l’autore riannoda il filo che lega l’inizio della filosofia con il principio della sua fine, ovvero Platone con Kant, per quel che riguarda la possibilità dell’esercizio di una influenza dei pensatori sul potere, rintracciando la causa della loro inefficacia, pur nella nobiltà del gesto, proprio nell’essere filosofi, e non Sapienti, e dunque propagatori di un modo di pensare, e non di un modo di essere totale.


Le parole dei Sapienti. Senofane, Parmenide, Zenone, Melisso. Testo originale a fronte.
Traduzione e cura di Angelo Tonelli, Feltrinelli, 2010.

Sapienza è una condizione dello spirito, un modo di essere, e non un insieme di contenuti che si ritengano veri e saggi. Il Sapiente è radicato nella sorgente delle cose, e dell’esperienza sapienziale possono farsi testimonianza scritta o orale parole, come quelle di Eraclito, Parmenide, Empedocle in Occidente, e delle Upanishad o dello ChuangTzu in Oriente, che vibrano della risonanza mistica da cui sorgono. A differenza della filosofia, la Sapienza è un modo di essere, non di pensare, ed è frutto del sé, mentre la filosofia lo è dell’ego. I Sapienti greci non erano uomini di scrivania, come forse amerebbero dipingerli a propria immagine e somiglianza gli esangui ermeneuti contemporanei, bensì individui che intraprendevano una via di continua ricerca di se stessi, all’insegna del motto delfico gnõthi sautón, e da questa pratica di ricerca spirituale venivano trasformati fin nelle intime midolla, come i Sapienti d’Oriente. Nel versante orientale, la Sapienza è un immenso commentario intorno alle folgorazioni mistiche e alle formulazioni religiose dei Veda, che trovano sistemazione nelle Upanishad. Diversa è la Sapienza greca, in cui fioriscono personalità spiccate, con maggiore differenziazione di linguaggio e di pensiero. Ma i temi di fondo sono gli stessi, e con ogni evidenza la Madre della Sapienza d’Oriente e d’Occidente è una sola e la medesima, benché da essa germoglino frutti ben diversi.


Sperare l’insperabile. Per una democrazia sapienziale,
Armando, 2010.

Le tendenze negative di base – ignoranza, avidità, violenza e il dio denaro – hanno esercitato ed esercitano una pressione preponderante sulla psiche dell’umanità nel suo complesso, e hanno condotto a una situazione di discrimine: o si riesce a creare una nuova direzione, illuminata, della civitas globale, in grado di agire in controtendenza rispetto alla crisi ecoantropologica in atto, oppure si andrà a una vera e propria catastrofe della civiltà. E poiché la devastazione dell.habitat e gli ordigni di guerra nascono nella testa degli uomini, è lì che occorre disinnescarli.


 

Poemi dal Golfo degli Dèi, Ediz. italiana e inglese, Agorà & Co., Sarzana, 2011.


 

Sapienza ritrovata, Arcipelago Edizioni, 2011.


 

Tutte le tragedie greche. Testo greco a fronte, Bompiani, Milano 2011.

Frutto di oltre dieci anni di lavoro, questa edizione di tutta la tragedia greca con testo a fronte, la prima a essere realizzata interamente da un unico curatore, insieme poeta e filologo, consente di cogliere con sguardo unificante la fulgida stagione della tragedia ellenica che vide fiorire il genio creativo di Eschilo, Sofocle ed Euripide. Viene così restituita al lettore moderno, in tutta la sua feconda inattualità, una delle culminazioni dell’arte sapienziale e iniziatica del nostro Occidente, capace di riverberare la spiritualità orfeodionisiaca eleusina nella sua dimensione essoterica: in maniera esplicita, attraverso tragedie vistosamente iniziatiche come Baccanti, Oresteo, Alcesti, Edipo re ed Edipo a Colono; e in maniera indiretta, grazie alla forma apollodionisiaca dell’opera drammatica nella sua espressione scritta. Forma che a sua volta rinvia alla struttura stessa del théatron, che è luogo sapienziale in cui si contempla (theàomai) il gioco delle passioni con empatia e distacco. Con il greco a fronte i capolavori dei tragediografi a noi pervenuti brillano nella lingua in cui furono composti, e consentono di restituire con sufficiente approssimazione la phoné originaria in cui furono pronunciati: nel rito consacrato a Dioniso, alla luce del sole ellenico, sotto lo sguardo della collettività riunita nel nome del dio dell’ebbrezza e della contemplazione.


 

Ritografie. Opere figurative 1995-2012. Ediz. illustrata, Agorà & Co, 2012.


 

Seminare il possibile. Democrazia e rivoluzione spirituale, Alboversorio, 2015.

Questo pamphlet ha un intento: seminare slancio e speranza nel futuro mentre tutto sembra congiurare contro una possibilità di rinascita collettiva. Urge che si aboliscano i partiti, come già suggeriva Simone Weil, e si catalizzino energie nuove. Questo movimento, che è già in atto e trova già espressione in eventi dedicati alla relazione tra spiritualità, etica e politica, ha il compito fondamentale di preparare la democrazia del futuro, che sorgerà sulle rovine del sistema politico nazionale e internazionale fondato sul dominio del dio denaro.


 

Eleusis e Orfismo. I misteri e la tradizione iniziatica greca.
Testo greco a fronte, a  cura di Angelo Tonelli, Feltrinelli, Milano 2015.

A Eleusi, il centro iniziatico maggiore di tutta la grecità, nel mese di Boedromione (il nostro settembre-ottobre) affluivano tutti coloro che avessero i requisiti necessari per ricevere l’iniziazione, ovvero avere “mani pure”, non macchiate da delitto, e parlare la lingua greca. Sicuramente furono iniziati ai livelli più alti Sofocle, Eschilo, Pindaro, Platone. La suprema iniziazione, a cui si poteva accedere dopo avere fatto trascorrere un lungo periodo dalla partecipazione al rituale collettivo dei Grandi Misteri, dischiudeva all’esperienza diretta dell'”unità di tutte le cose” e della morte-rinascita, simboleggiata dalla spiga, che il mistero condivideva con Dioniso, il dio che muore e rinasce, come l’Osiride degli Egiziani. L’Orfismo introduce nella grecità una via ascetica e purificatoria, fondata sulla credenza nella reincarnazione, e nella necessità di un tragitto di progressiva liberazione dalla prigione della materia per ricongiungersi con la propria essenza divina. Le testimonianze consentono di ricostruirne le complesse e suggestive cosmoteogonie, e i miti fondamentali, tra cui la discesa agli Inferi di Orfeo alla ricerca della sposa Euridice e lo specchio di Dioniso, che rivela il mondo visibile come lampeggiamento transimmanente dello sguardo del dio su uno specchio.


 

[Giuliano il Teurgo], Oracoli caldaici, a cura di Angelo Tonelli, Bompiani, 2016.

Composti verso la fine del II secolo dopo Cristo, gli “Oracoli Caldaici” sono attribuiti a Giuliano il Teurgo, figlio dell’altro Giuliano che, secondo Suidas, compose un’opera sui demoni. Poeta e sciamano dei misteri teurgici, in cui la figura del mßntis-doche·s (il nostro medium) coincide con quella del profétes, Giuliano comunica in frammenti oscuri e insieme luminosi, come si addice all’oracolo, un’esperienza visionaria individuale fiorita nell’ambito di un Erlebnis mistico e sapienziale collettivo. Gli “Oracoli caldaici”, che Proclo paragonava per importanza al “Timeo” di Platone, sono una raccolta di frammenti in cui un medium in trance parla con la voce del nume, e ne comunica la Sapienza che conduce gli umani oltre il velo delle apparenze, fino all’intuizione dell’Assoluto e al congiungimento con esso. Unica testimonianza diretta di una tradizione esoterica che associava metafisica e magia in un accordo inscindibile, gli oracoli consentono di guardare dietro le quinte di una esperienza mistica e iniziatica di grande densità immaginale, che viene comunicata in un linguaggio densamente poetico. E’ un viaggio verso l’Assoluto che sta alla radice di tutte le cose, o meglio ancora verso il Divino indicibile che si manifesta attraverso ipostasi e numi, che prendono nome di Padre, Ecate, No³s, e la cui quintessenza brilla nell’animo dei teurghi.


 

Guardare negli occhi la Gorgone. Piccolo vademecum per attraversare le paure,
Agorà & Co., Sarzana, 2016.

L’esperienza della paura è costitutiva della condizione umana, e nessuno ne è mai stato esente: non Cristo, che sulla croce grida il suo “Eli Eli lema sabachthani?”: “Padre Padre, perché mi hai abbandonato?”; non Buddha Sakhyamuni, che prima di imboccare la via dell’ascesi si imbatte, sgomento, nelle figure della vecchiaia, della malattia, della morte. Nessuno ha calcato il suolo di questo pianeta senza avere provato, in misura maggiore o minore, la vampa dell’ansia o l’angoscia dell’incubo notturno, il morso del panico, l’irrequieto aggirarsi del pensiero nelle lande livide del timore di ammalarsi o di morire, o del lutto per il trapasso di una persona preziosa, o per la fine di un grande amore. Qui si indicano alcune vie, tra cui la psicoanalisi junghiana, lo psicodramma, la danzaterapia, la meditazione e altre pratiche spirituali tratte da varie tradizioni, per attraversare indenni questa selva oscura, e trarne stimolo alla crescita spirituale.


 

Sulla morte. Considerazioni sul possibile oltre, La Parola, 2017.

Questo libro è il frutto di molti anni di riflessioni sulla morte e il possibile Oltre, con un approccio non accademico, ma neanche privo di riferimenti alla letteratura scientifica sul tema, nella convinzione che il momento più impegnativo, insieme con la nascita, della nostra permanenza sul pianeta terra, sia evento solenne e culmine di conoscenza, a cui è bene giungere il più possibile consapevoli e preparati. Vi si troveranno riferimenti allo sguardo sapienziale greco (il Fedone di Platone, Le lamine d’oro orfiche) e orientale (Il libro tibetano dei morti) sul grande passo, ma anche alla letteratura relativa alle esperienze di quasi morte (NDE), tra cui quella di C.G. Jung (e anche quella di Er, raccontata ne La Repubblica di Platone), e alle conseguenze che le esperienze documentate di OBE (Out Body Experience), ovvero di fuoriuscita dal corpo durante gli stati di coma, hanno sulla vexata quaestio del rapporto coscienza-cervello, anche alla luce della fisica quantistica. Un excursus esaustivo e indispensabile per farsi un’idea precisa sulla morte e sull’aldilà.


 

La degenerazione della politica e la democrazia smarrita.
Una nuova etica per la sopravvivenza della civiltà,
Armando, 2018.

Le tendenze negative di base – ignoranza, avidità, violenza e il dio denaro – hanno esercitato ed esercitano una pressione preponderante sulla psiche dell’umanità nel suo complesso, e hanno condotto a una situazione di discrimine: o si riesce a creare una nuova direzione, illuminata, della civitas globale, in grado di agire in controtendenza rispetto alla crisi ecoantropologica in atto, oppure si andrà a una vera e propria catastrofe della civiltà. E poiché la devastazione dell’habitat e gli ordigni di guerra nascono nella testa degli uomini, è lì che occorre disinnescarli. Sarà la Storia stessa in quanto bestemmia alla natura illuminata degli umani a generare dal suo grembo il seme della civitas illuminata: per sopravvivere la specie dovrà abdicare dalla propria tenebra interiore. Sono tre i metodi fondamentali che convergono in una sola via, per risorgere: la meditazione di presenza, l’indagine dell’inconscio e l’integrazione dell’Ombra e la frequentazione di testi ed esperienze sapienziali. In una parola, la vita come iniziazione: alla consapevolezza, alla liberazione, all’immortalità che nasce dall’esperienza óeWunità di tutte le cose (hèn pànta), secondo la folgorante sintesi di Eraclito, che è il mentore metaspaziotemporale di questo libro.


 

Attraverso oltre. Della conoscenza, della solidarietà, dell’azione, Moretti & Vitali, 2019.

La conoscenza non coincide con la padronanza filosofica e scientifica del pensiero, o l’accumulo di informazioni corrette intorno alla vita, ma con la stabilizzazione di livelli di coscienza illuminati, attraverso una costante disciplina e apertura interiore. Noi Occidentali dobbiamo rivolgere lo sguardo ai Misteri Eleusini, alle iniziazioni orfiche, e a quei pensatori che Platone definiva sophoí, ovvero Sapienti, e che hanno nome Eraclito, Empedocle, Parmenide, Pitagora, ma anche ai grandi maestri della conoscenza tragica (“patendo conocere”), Eschilo, Sofocle, Euripide, per non citare che i maggiori tra i Greci. Guardare alle radici della nostra cultura significa anche guardare alla Sapienza d’Oriente, perché anche di essa (oltre che dello sciamanesimo iperboreo e della spiritualità egiziana, persiana e mesopotamica) era pervasa la Sapienza di Pitagora, Eraclito, Parmenide, Empedocle, Democrito e Platone. Di questa connessione originaria tra Occidente, in particolare la nostra Magna Grecia, e Oriente, a cui Angelo Tonelli ha dedicato trenta anni di ricerche e di cui ha già fornito ampie documentazioni, viene qui presentata, in anteprima assoluta, una testimonianza archeologica di inconfutabile evidenza: la fotografia del ritratto del “Mongolo di Taranto”, raffigurato in una ceramica protolucanica databile al IV secolo a.C., ai tempi di Platone, in cui compare un volto di chiara etnia mongola, a dissipare ogni eventuale dubbio sulla interazione tra Mediterraneo greco e Estremo Oriente, in epoca antica, interazione fino a oggi silenziata o negata da un’Accademia ancora arroccata alle Termopili immaginarie per contrastare la manifesta presenza dell’Oriente nel nostro Occidente sapienziale. E questa obliterazione ha gravato e grava sulla nostra cultura, perché se ne è ignorata la radice eurasiatica meditativa, sciamanica, noetica, condannando gli individui, e con essi la civiltà d’Occidente, a livelli di interiorità, saggezza e consapevolezza infantili, che sono alla base della crisi ecoantropologica in atto: una sorta di “furto d’organo”, il nous, ovvero il luogo di connessione tra l’umano e il divino nella coscienza unitaria e illuminata. Questo tragitto “sulle tracce della Sapienza” a cui l’autore ha già dedicato un omonimo fortunato libro, di cui questo costituisce in qualche modo la continuazione, consente di fare collidere e colludere la grande esperienza conoscitiva originaria occidentale-orientale con le acquisizioni della scienza più avanzata e le domande di rinnovamento culturale e interiore poste dalla crisi della civiltà contemporanea.


 

María Zambrano, Seneca. Con una antologia di testi,
traduttori Claudia Marseguerra e Angelo Tonelli, SE, 2019.

«Seneca non avrebbe potuto essere un martire: fu sempre un intellettuale e niente di più. Un intellettuale per cui la gloria è impossibile. Fedele a una ragione senza trascendenza, a una ragione naturale. La ragione di Platone e di Plotino, l’idea, non era più di questo mondo, come non lo è la pura verità. Seneca celebrava la ragione della mediazione, della relatività. Per questo il suo pensiero, e ancora più del suo pensiero, la sua immagine, la sua figura, è viva in tutti i tempi in cui la ragione, senza fede, vuole mediare tra un mondo irrazionale e il regno puro che ha dovuto lasciare. Seneca tornerà in vita ogni volta che di fronte all’inesorabilità della morte e del potere umano si troverà, tra una fede che si estingue e un’altra che la sostituisce, una Ragione abbandonata».


Galleria di copertine

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Inteviste e altro …

“Voglio un movimento sapienziale-politico capace di formare governatori illuminati”:
dialogo con Angelo Tonelli su poesia e salvezza


L’Apocalisse secondo Angelo Tonelli


Teatro Andromeda: l’Ecuba diretta da Angelo Tonelli


Scoprire Angelo Tonelli. Intervista di Marco Angella


“Le nostre origini sono eurasiatiche, Pitagora era uno sciamano,
dobbiamo insegnare pratiche meditative a scuola”:
dialogo con Angelo Tonelli, che ha scoperto il punto d’unione tra Oriente e Occidente


Angelo Tonelli – Recours au poème


Conversazione di Livio Partiti con Angelo Tonelli
Angelo Tonelli – La conoscenza non coincide con la padronanza filosofica e scientifica del pensiero. Priva di una cultura della saggezza, la democrazia si sfalda. Dobbiamo evolvere culturalmente e spiritualmente, ripensando i cardini della consociazione planetaria.


 
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Giovanni Reale (1931-2014) – Il vero “vincere”, per Socrate consisteva nel “convincere”. Il nichilismo compiuto “insegna il piacere della distruzione”. La malvagità corre molto più veloce della morte.

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Da tempo ormai ci si è accorti che uno dei mali più gravi dell’uomo d’oggi è quello della violenza e della guerra, che assume forme e aspetti sempre differenti. Si sente anche ripetere che alla radice di questo fenomeno sta lo smarrimento del senso del valore dell’uomo e delle cose, ossia il nichilismo.
Questo è indubbiamente vero, e Nietzsche, il teorico del nichilimo, lo aveva precisato con un’acutezza e una premonizione addirittura allucinante: “Il nichilismo non solo una contemplazione della valità delle cose, né solo la convinzione che ogni cosa meriti di andare in rovina: si pone mano all’opera, si manda in rovina ...”.
Il nichilismo compiuto, a suo avviso, “insegna il piacere della distruzione”. Ridurre al nulla con la mano si connette astrattamente con il ridurre al nulla mediante il giudizio, e vicevera.
[…] Ma già Socrate formulava con il suo pensiero e metteva in atto con l’esempio della sua stessa vita quella che si può chiamare (e non solo ante litteram) “rivoluzione della non-violenza”.
All’amico Critone, che lo invitava a figgire dal carcere corromoendo il custode, Socrate risponde: “Non si deve disertare, né ritirarsi, né abbandonare il proprio posto, e […]  persuadere in che consista la giustizia; invece di farre uso della violenza […]”.
Il ragionamento con cui motivava questo suo asserto era il seguente. Non si deve mai commettere ingiustizia, neppure rendendendola quando la si subisce; e quindi non si deve mai fare del male in nessun modo: “Dunque , né bisogna restituire ingiustizia, nè bisogna fare del male a nessunio degli uomini, neppure se, per opera loro, si subisce qualsiasi cosa”.
Senofonte conferma: “Socrate preferì rimanere fedele alle leggi e morire, invece di vivere facendo violenza”.
Il vero “vincere”, per Socrate consisteva nel “convincere”. Nel dialogo Critone, Socrate espone la sua tesi in modo programmatico.
Platone stesso fa propria la tesi socratica, e in un certo senso la amplifica. Nel Gorgia scrive: “Bisogna giuardarsi dal commettere ingiustizia, più che dal riceverla; l’uomo deve preoccuparsi non di apparire , ma di essere buono, e in privato e in pubblico”.
[…] Socrate diceva: “La cosa più difficile non è fuggire alla morte, ma molto più difficile è fuggire alla malvagità, perché la malvagità corre molto più veloce della morte“.

Giovanni Reale,  Articolo pubblicato domenica 16 dicembre 2001, p. III, Il Sole 24 Ore.

Giovanni Reale (1931-2014) – Si è filosofi solo se e finché si è totalmente liberi, ossia solo se e finché si cerca il vero come tale. Conoscendo in modo disinteressato, l’uomo si accosta alla verità e in questa maniera realizza la sua natura razionale al più alto grado.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Kurt Weill (1900-1950) – Una musica che semplicemente fornisce un commento agli eventi sulla scena, non è musica per un’opera.

Kurt Weill

«Una musica che semplicemente fornisce un commento agli eventi sulla scena, non è musica per un’opera».

Kurt Weill, in: David Drew, K. Weill. A handbook, 1987.

Kurt Weill, quella grande e strana musica di qualità

di

Dalla Germania di Weimar a quella di Hitler fino agli Stati Uniti: un artista all’avanguardia, che ha aperto strade fino ad allora poco battute, consentendo a tutti di accedere a una musica radicalmente innovativa

«L’Opera da tre soldi è il primo esempio dell’uso di una musica teatrale in accordo a un nuovo punto di vista. La sua più suggestiva innovazione risiede nella stretta separazione della musica da tutti gli altri elementi di intrattenimento. Perfino superficialmente questo è evidente nel fatto che la piccola orchestra è sistemata visibilmente sul palcoscenico. Nei momenti delle canzoni viene approntato uno speciale cambio di luci: l’orchestra è illuminata, i titoli dei vari brani sono proiettati su uno schermo sistemato dietro».

Bertolt Brecht, in: Willet John, The Tehatre of Bertold Brecht, 1977.

Blatas. L’Opera da Tre Soldi, Dipinti – Disegni – Sculture, di Giuseppe Pugliese Domenico Crivellari,David Farneth (Autore) 1984.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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