Albert Camus (1913-1960) – Invece di uccidere e morire per diventare quello che “non” siamo, dovremo vivere e lasciare vivere per creare quello che realmente siamo.

Camus 006
Riflessioni sulla pena di morte

A. Camus, Riflessioni sulla pena di morte

"Invece di uccidere e morire per diventare quello che non siamo,
dovremo vivere e lasciare vivere
per creare quello che realmente siamo".

A. Camus

Riflessioni sulla pena di morte (Réflexions sur la guillotine) è un saggio scritto da Albert Camus nel 1957. I brani che seguono sono tratti dall’ed. SE, Milano 1993, nella traduzione di Giulio Coppi.

«Poco prima della guerra del 1914, un assassino che aveva commesso un crimine particolarmente rivoltante (aveva massacrato una famiglia di coloni, compresi i figli) venne condannato a morte ad Algeri. Si trattava di un bracciante che aveva ucciso in una sorta di delirio omicida, ma con l’aggravante di aver derubato le proprie vittime. Il processo suscitò grande scalpore. Generalmente si ritenne che la decapitazione fosse una pena troppo mite per un simile mostro. Questa fu, così mi si disse, anche l’opinione di mio padre, sdegnato soprattutto dall’eccidio dei bambini. Una delle poche cose che so di lui, in ogni caso, è che volle assistere all’esecuzione, per la prima volta in vita sua. Si alzò nel cuore della notte per recarsi sul luogo del supplizio, all’altro capo della città, fra un gran concorso di folla. Di quanto vide, quel mattino, non disse nulla a nessuno. Mia madre racconta soltanto che rientrò di furia, stravolto, si rifiutò di parlare, si stese un istante sul letto e d’improvviso incominciò a vomitare. Aveva visto in faccia la realtà che si celava sotto le formule solenni tese a mascherarla. Non pensava più ai bambini massacrati, non poteva più pensare che a quel corpo palpitante sull’asse dove l’avevano gettato per tagliargli il collo.
Bisogna dunque ritenere che quest’atto rituale è ben spaventoso, se poté vincere l’indignazione di un uomo semplice e probo, e se un castigo da lui considerato fino ad allora cento volte meritato, non ebbe in definitiva altro effetto che provocargli la nausea fisica. Quando la giustizia suprema non offre che occasioni di vomito all’uomo onesto posto sotto la sua protezione, appare difficile sostenere che essa sia destinata, come dovrebbe essere suo compito, ad accrescere la pace e l’ordine in seno allo Stato. È invece evidente che essa non è meno ripugnante del delitto, e che questo nuovo assassinio, lungi dal riparare l’offesa inferta al corpo sociale, non può aggiungervi che fango. Lo dimostra il fatto che nessuno osa parlare apertamente di una tale cerimonia. […] È invece mia intenzione parlarne crudamente. Non per il gusto dello scandalo, né, ritengo, per una malsana tendenza naturale. Ho sempre avuto orrore, come scrittore, di certi compiacimenti; come uomo, ritengo che gli aspetti ripugnanti della nostra condizione debbano, se inevitabili, essere affrontate in silenzio. Ma quando il silenzio, o le astuzie del linguaggio, contribuiscono a perpetuare un abuso che deve essere riformato, o una sventura che può essere alleviata, non esiste altra soluzione che parlar chiaro, e svelare l’oscenità che si cela sotto il manto delle parole. […] L’argomento principe dei partigiani della pena di morte è, lo sappiamo, l’esemplarità del castigo. Non si recidono teste soltanto per punire coloro che le portano, ma anche per intimidire, con un esempio terrificante, quelli che sarebbero tentati di imitarle. La società non si vendica, vuole solo prevenire. Brandisce una testa perché i candidati all’omicidio vi leggano il proprio futuro e indietreggino.
Questo argomento sarebbe decisivo se non si fosse costretti a constatare:
1. che neppure la società stessa crede all’esemplarità di cui parla;
2. che non è affatto dimostrato che la pena di morte abbia fatto indietreggiare un solo omicida deciso ad esserlo, mentre è evidente che essa ha esercitato un effetto fascinoso su migliaia di criminali;
3. che costituisce, per altri aspetti, un esempio ripugnante le cui conseguenze sono imprevedibili.
La società, in primo luogo, non crede a quel che dice. Se realmente vi credesse, esporrebbe le teste. Accorderebbe alle esecuzioni il beneficio del lancio pubblicitario che solitamente riserva ai prestiti nazionali o alle nuove marche di aperitivi. Sappiamo invece che le esecuzioni, in Francia, non avvengono più pubblicamente, ma si perpetrano nei cortili delle prigioni davanti a un ristretto numero di esperti.
[…]
Se infatti si vuole che la pena sia esemplare, non soltanto si devono moltiplicare le fotografie, ma bisogna anche collocare la ghigliottina su un palco in Place de la Concorde, alle due del pomeriggio, invitando l’intera popolazione e teletrasmettere la cerimonia per gli assenti. […]
Bisogna far questo, oppure smettere di parlare di esemplarità.
[…]
Potrei produrre ulteriori testimonianze altrettanto allucinanti. Ma, per quanto mi riguarda, non saprei andare oltre. Dopo tutto, io non sostengo che la pena di morte sia esemplare, e questo supplizio mi appare per quello che è, un grossolano atto chirurgico eseguito in condizioni che lo privano di qualsiasi carattere edificante. Invece la società e lo Stato, che hanno visto ben altro, possono tollerare perfettamente questi particolari, e poiché predicano l’esemplarità, dovrebbero cercare di renderli tollerabili a tutti, affinché nessuno possa ignorarli e l’intera popolazione, terrorizzata, diventi francescana. Diversamente, chi sperano di intimidire con questo esempio tenuto sempre nascosto, con la minaccia di un castigo presentato come mite e immediato, in definitiva più tollerabile di un cancro, con questo supplizio coronato dei fiori della retorica. Certamente non quelli che vengono considerati onesti – e alcuni lo sono – poiché a quell’ora dormono, poiché il grande esempio non è stato loro comunicato, poiché mangeranno il loro pane imburrato nell’ora del seppellimento prematuro, e poiché verranno informati dell’opera della giustizia, a patto che leggano i giornali, da un comunicato dolciastro che si scioglierà come zucchero nella loro memoria. Eppure sono proprio queste pacifiche creature a fornire la più alta percentuale di omicidi. Molte di queste oneste persone sono criminali che ignorano di esserlo. Secondo un magistrato, la stragrande maggioranza degli assassini da lui conosciuti non sapeva, radendosi al mattino, che la sera avrebbe ucciso. Per l’esemplarità e per la sicurezza, converrebbe dunque brandire, invece di truccarlo, il volto nudo del giustiziato davanti a tutti quelli che al mattino si radono.
[…]
In effetti, bisogna uccidere pubblicamente, oppure confessare di non sentirsi autorizzati ad uccidere. Se la società giustifica la pena di morte con la necessità dell’esempio, dovrà giustificare se stessa rendendo la pubblicità necessaria. Deve, ogni volta, mostrare le mani del boia, e costringere a guardarle i cittadini troppo delicati, e anche tutti coloro che, direttamente o indirettamente , hanno fatto esistere quel boia. Diversamente confessa di uccidere senza sapere quello che dice né quello che fa, oppure sapendo che, lungi dall’intimidire l’opinione pubblica, queste cerimonie rivoltanti non possono che ridestare in essa il crimine, o precipitarla nello smarrimento. Chi potrebbe chiarirlo meglio di un magistrato, il consigliere Falco, ormai giunto alla fine della carriera, la cui coraggiosa confessione merita diessere meditata: “… L’unica volta che nella mia carriera ho deciso contro una commutazione di pena e per l’esecuzione dell’imputato, ritenevo che, malgrado la mia posizione, avrei assistito perfettamente impassibile all’esecuzione. L’individuo, del resto, era poco interessante: aveva martirizzato la figlioletta, gettandola infine in un pozzo. Ebbene! Dopo la sua esecuzione, per settimane, per mesi, le mie notti furono ossessionate da quel ricordo… Ho fatto la guerra, come tutti, e ho visto morire una gioventù innocente, ma posso dire che quell’orribile spettacolo non mi ha mai procurato quella sorta di cattiva coscienza provata assistendo a questa specie di omicidio amministrativo che chiamiamo pena capitale”.
Ma, in definitiva, perché la società dovrebbe credere a questo esempio, che non impedisce il delitto, e i cui effetti, se esistono, sono invisibili? La pena capitale non può intimidire chi non sa che sta per uccidere, chi lo decide all’improvviso, e prepara quell’atto in preda alla febbre o a un’idea fissa, e neppure chi, recandosi ad un appuntamento chiarificatore, si porta appresso un’arma per impaurire l’infedele, o l’avversario, e poi se ne serve pur non volendolo, o non ritenendo di volerlo. La pena capitale non può, per dirla in breve, intimidire l’uomo gettato nel delitto come si può esser gettati nella sventura. Significa allora dire che nella maggioranza dei casi è impotente. È giusto riconoscere che raramente in Francia viene applicata nei casi appena citati. Ma questo stesso «raramente» fa fremere.
Impaurisce almeno quella razza di criminali su cui pretende di agire, e che vivono di crimine?
Nulla è meno certo. Si può leggere in Koestler che in Inghilterra, all’epoca in cui i borsaioli venivano giustiziati, altri borsaioli esercitavano il proprio talento tra la folla che circondava la forca da cui pendeva il collega. Una statistica degli inizi del secolo, in Inghilterra, afferma che su duecentocinquanta impiccati, centosettanta avevano in precedenza assistito personalmente a uno o due esecuzioni capitali. Ancora nel 1886, su centosessantasette condannati a morte passati per le carceri di Bristol, centosessantaquattro avevano assistito almeno a una esecuzione. Tali sondaggi non possono più essere condotti in Francia, a causa della segretezza che circonda le esecuzioni. Ma autorizzano a ritenere che attorno a mio padre, il giorno dell’esecuzione, doveva esserci un nutrito numero di futuri criminali che, loro, non hanno certo vomitato. La potenza dell’intimidazione agisce unicamente sui timidi non destinati al delitto e cede di fronte agli irriducibili sui quali vorrebbe precisamente agire.
[…]
Anche se questo accadesse, bisognerebbe poi fare i conti con un altro paradosso della natura umana. L’istinto di vita, se è fondamentale, non lo è più di un altro istinto, di cui non parlano gli psicologi accademici: l’istinto di morte, che esige in certe ore particolari la distruzione di se stessi e degli altri. È probabile che il desiderio di uccidere spesso coincida con il desiderio di morire o di annientarsi. L’istinto di conservazione si trova in tal modo abbinato, in proporzioni variabili, all’istinto di distruzione. Solo quest’ultimo riesce a spiegare totalmente le numerose perversioni che, dall’alcolismo alla droga, conducono coscientemente l’uomo alla propria rovina. L’uomo desidera vivere, ma è vano sperare che un tale desiderio regni sulla totalità delle sue azioni. Desidera anche non essere, vuole l’irreparabile, e la morte per la morte. Accade così che il criminale non desideri soltanto il delitto, ma anche la sventura che l’accompagna, persino e soprattutto se è una sventura smisurata. Quando questo strano desiderio cresce e domina, non solo la prospettiva di una condanna a morte non potrebbe fermare il criminale, ma è persino probabile che accresca ulteriormente la vertigine in cui si perde. Si uccide allora per morire, in un certo modo.
Queste anomalie bastano a spiegare come una pena che sembra calcolata per impaurire animi normali, sia in realtà totalmente priva di effetto sulla psicologia media. Tutte le statistiche senza eccezione, quelle riguardanti i paesi abolizionisti oppure gli altri, dimostrano che non esiste rapporto tral’abolizione della pena di morte e la criminalità. Quest’ultima non aumenta né regredisce. La ghigliottina esiste, come esiste il delitto; tra di essi non c’è altro vincolo apparente all’infuori della legge. E quanto ci è dato dedurre dalle cifre che le statistiche ci offrono in abbondanza, è questo: per secoli si sono puniti con la morte reati diversi dall’omicidio e il castigo supremo, applicato così a lungo, non è riuscito a far sparire nessuno di questi reati. Da secoli tali reati non si puniscono più con la morte. Eppure non sono cresciuti di numero, e alcuni di essi sono persino diminuiti. Ugualmente, per secoli si è punito l’omicidio con la pena capitale, eppure la razza di Caino non è scomparsa. Infine, nelle trentatrè nazioni che hanno abolito la pena di morte, o in cui non viene più applicata, il numero degli omicidi non è aumentato. Chi potrebbe dedurre da tutto questo che la pena di morte ha un potere intimidatorio?
[…]
Se dunque si vuol conservare la pena di morte, che ci venga almeno risparmiata l’ipocrisia di giustificarla con la sua esemplarità. Chiamiamo con il suo vero nome questa pena a cui ogni pubblicità è rifiutata, questa intimidazione che non agisce sulle persone oneste, finché lo sono, che affascina quelle che non lo sono più, e che degrada, o corrompe, coloro che vi pongono mano. È una pena certo, uno spaventoso supplizio, fisico e morale, ma non offre alcun esempio sicuro, se non demoralizzante. Sanziona, ma non previene, quando addirittura non suscita l’istinto omicida. È come se non esistesse, salvo per colui che la subisce, nell’anima, per mesi o per anni, e nel corpo, in quell’ora disperata e violenta in cui lo tagliano in due, senza privarlo della vita. Chiamiamola col suo nome che, in mancanza di una qualsiasi altra nobiltà, le restituirà almeno quella della verità, e riconosciamola per quel che essenzialmente è: una vendetta.
Infatti, il castigo che sanziona senza prevenire si chiama vendetta. È una risposta quasi aritmetica che la società fornisce a chi infrange la sua legge primordiale. Questa risposta è antica come l’uomo: si chiama taglione. Chi mi ha fatto del male, deve averne; chi mi ha strappato un occhio, deve perderne uno dei suoi; chi ha ucciso, deve morire. Si tratta di un sentimento, e particolarmente brutale, non di un principio. Il taglione rientra nell’ordine della natura, dell’istinto, non rientra nell’ordine della legge. La legge, per definizione, non può obbedire alle stesse regole della natura. Se l’assassinio è nella natura umana, la legge non è fatta per imitare o riprodurre questa natura. È fatta per correggerla. Ora, il taglione si limita a ratificare e a dar forza di legge a un puro movimento naturale. Noi tutti abbiamo conosciuto questo impulso, spesso a nostra vergogna, e conosciamo la sua potenza: ci viene dalle foreste originarie. A questo riguardo, noi francesi, che giustamente ci indigniamo vedendo il re del petrolio, in Arabia Saudita, predicare la democrazia internazionale mentre affida a un macellaio il compito di recidere con un coltello la mano del ladro, anche noi viviamo in una sorta di medioevo che non ha nemmeno la consolazione della fede. Definiamo ancora la giustizia secondo le regole di una rozza aritmetica. Possiamo almeno dire che questa aritmetica è esatta, e che la giustizia, sia pur elementare e limitata alla vendetta legale, è salvaguardata dalla pena di morte? Si è costretti a rispondere in modo negativo.
Lasciamo da parte il fatto che la legge del taglione è inapplicabile, e che sembrerebbe tanto eccessivo punire l’incendiario appiccando il fuoco alla suacasa quanto insufficiente castigare il ladro prelevando dal suo conto in banca una somma equivalente. Ammettiamo pure che sia giusto e necessario compensarel’assassinio della vittima con la morte dell’assassino. Ma l’esecuzionecapitale non è semplicemente la morte. È tanto diversa, nella propria essenza, dalla privazione della vita quanto lo è il campo di concentramento dal carcere. È un assassinio, senza dubbio, che ripaga in forma aritmetica l’assassinio commesso. Ma aggiunge alla morte un regolamento, una premeditazione pubblica e conosciuta dalla futura vittima, un’organizzazione infine, che di per se stessa è fonte di sofferenze morali più atroci della morte. Non c’è dunque equivalenza.
[…]
È questa, si dirà, la giustizia umana, sempre preferibile all’arbitrio, nonostante le sue imperfezioni. Ma questo malinconico apprezzamento è tollerabile soltanto per le pene ordinarie. È scandaloso riguardo alle sentenze di morte. Un’opera classica di diritto francese, per giustificare l’impossibilità della pena di morte di essere suscettibile di gradazioni, così scrive: «La giustizia umana non ha affatto l’ambizione di garantire questa proporzione. Perché? Perché sa di essere inadeguata». Dobbiamo dunque concludere che questa inadeguatezza ci autorizza a pronunciare un giudizio assoluto e che, nel dubbio di poter realizzare la pura giustizia, la società deve precipitarsi, con i più gravi rischi, verso la suprema ingiustizia? Se la giustizia sa di essere inadeguata, non le converrebbe mostrarsi moderata, e lasciare alle sue sentenze margini sufficienti affinché l’eventuale errore possa essere rimediato? Questa debolezza in cui la giustizia trova per se stessa, in maniera permanente una circostanza attenuante, non dovrebbe concederla sempre anche al criminale? Una giuria può forse dire in coscienza: «Se la faccio morire per errore, lei mi perdonerà considerando la debolezza della nostra comune natura. Ma io lac ondanno a morte senza tener conto né di questa debolezza, né di questa natura»? Esiste una solidarietà di tutti gli uomini nell’errore e nello smarrimento. Questa solidarietà dovrebbe forse agire in favore dei tribunali e venir sottratta all’accusato? No, e se la giustizia ha un senso in questo mondo, null’altro significa se non il riconoscimento di questa solidarietà, che non può, per la sua stessa essenza, essere disgiunta dalla compassione. La compassione, s’intende, può esser qui solo il sentimento di una sofferenza comune, non una frivola indulgenza che non tenga in alcun conto né le sofferenze né i diritti della vittima. Non esclude il castigo, ma sospende l’estrema condanna. Le ripugna il provvedimento definitivo, irreparabile che, non contemplando la miseria della condizione comune, si dimostra ingiusto verso l’umanità intera.
[…]
Di fronte al delitto, come si definisce effettivamente la nostra civiltà? La risposta è semplice: da trent’anni a questa parte i delitti di Stato superano di gran lunga i delitti individuali. Non parlo neppure delle guerre, mondiali o locali che siano, benché il sangue sia un alcol che, a lungo andare intossica come il più generoso dei vini. Ma il numero degli individui uccisi direttamente dallo Stato ha assunto proporzioni astronomiche e supera infinitamente quello dei delitti individuali. Continuano a diminuire i condannati per reati comuni e ad aumentare i condannati politici. Lo dimostra il fatto che ognuno di noi, per quanto rispettabile, può contemplare l’eventualità di essere un giorno condannato a morte, eventualità che all’inizio del secolo sarebbe apparsa ridicola. […]
Quelli che fanno versare la maggiore quantità di sangue sono gli stessi che credono di avere dalla loro parte il diritto, la logica, e la storia.
Non è dall’individuo ma dallo Stato che oggi la società deve difendersi. È possibile che tra trent’anni le proporzioni siano rovesciate. Ma, per il momento, la legittima difesa deve opporsi soprattutto allo Stato. La giustizia e la convenienza più realistica esigono che la legge protegga l’individuo contro uno Stato in preda alle follie del settarismo o dell’orgoglio. “Che cominci lo Stato abolendo la pena di morte” dovrebbe essere, oggi, il grido che ci unisce».

Albert Camus

 

L’immagine in evidenza:

Omaggio a Camus del pittore messicano Eduardo Pola (1998)


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Antoine De Saint-Exupéry (1900-1944) – Rispetto dell’Uomo! Rispetto dell’Uomo! … Ecco la pietra di paragone! Una civiltà si fonda prima di tutto nella sostanza.

Rispetto

LETTERA A UN OSTAGGIO_Layout 1

 

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«Rispetto dell’Uomo! Rispetto dell’Uomo! … Ecco la pietra di paragone! Quando il nazista rispetta esclusivamente chi gli somiglia, non rispetta altro che se stesso. Egli rifiuta le contraddfizioni creatrici, rovina ogni speranza di ascesa e fonda per mille anni, al posto di un uomo, il robot di un termitaio.
L’ordine per l’ordine castra l’uomo del suo potere essenziale, che è di trasformare sia il mondo che se stesso.

La vita crea l’ordine, ma l’ordine non crea la vita.

[…] Riconosciamo essere dei nostri anche quelli diversi da noi.

Ma quale strana parentela! Si fonda sull’avvenire, non sul passato. Sul fine, non sull’origine. Siamo l’uno per l’altro come dei pellegrini che, per sentieri diversi, procedono a stento verso lo stesso appuntamento.

Ma ecco che oggi il rispetto dell’uomo, condizione della nostra ascesa, è in pericolo. I cedimenti del mondo moderno ci hanno spinto nelle tenebre. […]

Il viaggiatore che valica la sua montagna nella direzione d’una stella, se si lascia troppo assorbire dai suoi problemi di scalata rischia di dimenticare quale stella lo guida. Se agisce solo per agire non andrà da nessuna parte. […] Così se mi irrigidisco in qualche passione partigiana, rischio di dimenticare che una politica ha senso solo a condizione di essere al servizio di un’evidenza spirituale. Abbiamo assaggiato, in momenti miracolosi, una certa qualità delle relazioni umane: questa è per noi la verità.

Qualunque sia l’urgenza dell’azione ci è vietato dimenticare la vocazione che deve comandarla, in caso contrario quell’azione resterà sterile. Vogliamo fondare il rispetto dell’uomo. […] Io posso combattere, in nome della mia strada, la strada scelta da un altro. Posso criticare i passi della sua ragione. I passi della ragione sono incerti. Ma devo rispettare quell’uomo, sul piano dell Spirito, se lui si affanna verso la sua stella.

Rispetto dell’Uomo! Rispetto dell’Uomo! […]
Se il rispetto dell’uomo è fondato nel cuore degli uomini, essi finiranno proprio per fondare di rimando un sistema sociale, politico o economico che consacrerà quel rispetto.
Una civiltà si fonda prima di tutto nella sostanza».

Antoine De Saint-Exupéry, Lettera a un ostaggio. Bisogna dare un senso alla vita degli uomini (1943), Elliot Edizioni.

Risvolto di copertina
Insieme a “Terra degli uomini”, “Lettera a un ostaggio” rappresenta il punto più alto dell’opera di Saint-Exupéry sia sotto il profilo letterario ed emozionale che nella visione filosofica della vita, che può riassumersi nell’affermazione: “Non c’è che un problema, uno solo, in tutto il mondo: restituire agli uomini un significato spirituale”. Scritta durante il suo viaggio d’esilio verso gli Stati Uniti, in fuga dalla Francia occupata, pensando a Leon Werth, l’amico a cui aveva dedicato “II Piccolo Principe”, “Lettera a un ostaggio” nasce dalla preoccupazione dell’autore per il pericolo di un esasperarsi dell’intolleranza che la guerra aveva portato alla luce. Dietro il filo dei pensieri, si sviluppa una linea melodica costante che ha per guida l’immagine del sorriso, reso possibile dalla coscienza e dall’impegno a essere in ogni momento quello che si è, per se stessi e per la comunità in cui si è inseriti. Questo testo è stato definito “il poema della restaurazione del sorriso”. Dello stesso tenore è il secondo scritto contenuto in questo volume, bisogna dare un senso alla vita degli uomini, che fa parte di una raccolta di saggi intitolata “La pace o la guerra”, pubblicata originariamente su “Paris Soir” all’inizio dell’ottobre 1938.

 


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Nikolaj Gavrilovič Černyševskij (1828-1889) – Bellezza è la vita come dovrebbe essere nella intera realtà, al punto di diventare necessità.

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Che Fare?

«Bellezza è la vita come dovrebbe essere
nella intera realtà,
al punto di diventare necessità. […]
E l’amore, tu lo sai,
non è che il desiderio di veder felice chi si ama.
Ora, senza libertà non esiste amore».

 

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Nikolaj Gavrilovič Černyševskij, Che fare?, Introduzione di Eleonora Fiorani e Francesco Leonetti. Traduzione di Federico Verdinos, Garzanti, 1974 (2004).

Risvolto di copertina

Mosso dalla sua opposizione all'idealismo, Cernysevskij pose alla base del romanzo Che fare? il rapporto uomo-donna inteso come rapporto basilare della società, attraverso il quale filtrò e analizzò i problemi del vivere sociale: uguaglianza tra i sessi, organizzazione del lavoro, analisi critica delle convenzioni. Questo romanzo sociale, scritto nel 1863 nella fortezza di Pietro e Paolo a Pietroburgo – dove lo scrittore era stato rinchiuso per la sua attività e i suoi scritti critici sovversivi – ebbe una straordinaria efficacia rivoluzionaria, specie tra i giovani. Fu conosciuto attraverso copie clandestine e apparve integralmente e pubblicamente solo nel 1905.

 


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Josè Saramago (1922-2010) – Mi lascia indifferente il concetto di felicità, ritengo più importanti la serenità e l’armonia

Saramago 01

 

«Mi lascia indifferente il concetto di felicità, ritengo più importanti la serenità e l’armonia. Il concetto di felicità presuppone che uno sia contentissimo, che se ne vada in giro ridendo, abbracciando tutti, dicendo sono felice, che meraviglia. È chiaro che anche un mal di denti gli toglierà la gioia e, quindi, la felicità.
Penso che la serenità sia una cosa diversa. La serenità ha molto dell’accettazione, ma include anche un certo autoriconoscimento dei propri limiti.
Vivere in armonia non significa non avere conflitti, ma poter convivere con gli stessi serenamente».

Josè Saramago

 


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György Lukács (1885 – 1971) – Il fuoco che arde nell’anima partecipa all’essenza delle stelle. Perché il fuoco è l’anima di ogni luce, e nella luce si avvolge il fuoco.

Lukács 003

lukacs

«Il romanzo è la forma dell'avventura [...];
il suo contenuto è la storia di un'anima
che si mette in cammino per conoscersi,
che cerca l'avventura per mettersi alla prova,
per trovarvi, confermando se stessa,
la propria essenzialità».

György Lukács

 

Teoria del romanzo

Teoria del romanzo

 

 

«Felice il tempo nel quale la volta stellata è la mappa dei sentieri praticabili e da percorrere, che il fulgore delle stelle rischiara. Ogni cosa gli è nuova e tuttavia familiare, ignota come l’avventura e insieme certezza inalienabile. Il mondo è sconfinato e in pari tempo come la propria casa, perché il fuoco che arde nell’anima partecipa all’essenza delle stelle; come la luce del fuoco, così il mondo è nettamente separato dall’io, epperò mai si fanno per sempre estranei l’uno all’altro. Perché il fuoco è l’anima di ogni luce, e nella luce si avvolge il fuoco. Così ogni atto dell’anima riceve un senso e giunge al compimento entro questa duplicità: esso è compiuto nel senso e compiuto per i sensi, è perfetto perché l’anima riposa in se stessa mentre muove all’azione; è perfetto, ancora, perché il suo agire si stacca da essa e, fattosi autonomo, perviene al proprio centro e si iscrive in un suo conchiuso ambito».

György Lukács, Teoria del romanzo, SE.

 


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Søren Kierkegaard (1813-1855) – Occorre essere sinceri di fronte alla possibilità

Il concetto dell'angoscia

«[…] soltanto chi è formato dalla possibilità, è formato secondo la sua infinità. Perciò la possibilità è la più pesante di tutte le categorie. Veramente si sente dire spesso il contrario, che la possibilità è così lieve e la realtà invece tanto pesante. Ma da chi si sentono fare tali discorsi? Da alcuni uomini miserabili, che non hanno mai saputo che cosa sia la possibilità, e avendo dimostrato la realtà che costoro non sono buoni a nulla, si son rifatta a furia di menzogne una possibilità che fu così bella, così affascinante; alla base di questa possibilità sta tutt’al più un po’ di presunzione giovanile di cui sarebbe meglio vergognarsi.
Di solito la possibilità di cui si dice che è così lieve, si intende come possibilità di felicità, di fortuna, ecc. Ma questa non è affatto la possibilità; questa è una invenzione fallace che gli uomini, nella loro corruzione, imbellettano per avere almeno un pretesto di lamentarsi della vita e della Provvidenza e per avere un’occasione di farsi importanti ai propri occhi.
No, nella possibilità tutto è ugualmente possibile e chi fu realmente educato mediante la possibilità, ha compreso tanto il lato terribile quanto quello piacevole. Se un tale esce dalla scuola delle possibilità sapendo […] che

, […] si ricorderà che essa [la realtà] è molto più leggera di quanto non fosse la possibilità.
È soltanto in questo modo che la possibilità può formare; perché la finitezza e le condizioni finite nelle quali è assegnato all’individuo il suo posto, siano esse piccole e comuni o di grandezza storica, formano soltanto in un modo finito; si può sempre ingannarle, sempre ricavarne un’altra cosa, sempre mercanteggiare, sempre svignarsela in qualche punto, sempre tenersene un po’ fuori, sempre evitare di imparare da loro qualche principio di valore assoluto.
Per imparare così l’individuo deve avere di nuovo la possibilità in sé e formare da sé quello da cui deve imparare […].
Ma perché un individuo sia formato così assolutamente e infinitamente mediante la possibilità, egli deve essere sincero di fronte alla possibilità e deve avere fede. Per fede io intendo qui quello che una volta Hegel, a modo suo, determina molto giustamente: la certezza interiore che anticipa l’infinito».

Søren Kierkegaard, Il concetto dell’angoscia. La malattia mortale, Sansoni, Firenze 1965, pp. 194-195.

 


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Rainer Maria Rilke (1875 – 1926) – La pazienza è tutto

Rilke 003

Rilke, Lettere a un giovane poeta

 

«Aspettate con umilità e con pazienza l’ora della nascita di un nuovo chiarore. […] Il tempo, qui, non è una misura. Un anno non conta. Dieci anni non sono niente. Essere artisti non vuol dire contare, vuol dire crescere come l’albero che non sollecita la sua linfa, che resiste fiducioso ai grandi venti della primavera, senza temere che l’estate possa non venire. L’estate viene. Ma non viene che per quelli che sanno attendere, tanto tranquilli e aperti che se avessero l’eternità davanti a loro. Lo imparo tutti i giorni a prezzo di sofferenze che benedico: la pazienza è tutto“.

Rainer Maria Rilke, Lettere a un giovane poeta.

Rilke nel 1901, ritratto da Helmuth Westhoff.

Rilke nel 1901, ritratto da Helmuth Westhoff.

 


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Thomas Mann (1875 – 1955) – L’arte è come se ricominciasse ogni volta da capo. Essa non minaccia la vita poiché è creata per dare alla vita la vita dello spirito. È alleata del bene, e nel suo fondo vi è la bontà. Nata dalla solitudine, il suo effetto è il ricongiungimento.

«L’arte, nelle sue realizzazioni ed espressioni individuali, è come se ricominciasse ogni volta da capo, come se, indossata la maschera dell’ingenuità, inconsapevole di sé, senza conoscersi o, per meglio dire, senza riconoscersi, facesse, ogni volta di nuovo e come per un caso fortuito e irripetibile, il proprio ingresso nella vita. Ogni sua apparizione è un caso unico, specialissimo e di impronta eminentemente personale, e per colui che lo rappresenta risulta assai arduo sussumerlo alla grande idea generale dell’arte; anzi, sulle prime non gli viene neppure in mente di farlo. […]

L’arte non minaccia la vita con gelido pugno demoniaco, poiché essa è creata per dare alla vita la vita dello spirito. Essa è alleata del bene, e nel suo fondo vi è la bontà, affine alla saggezza e ancor più vicina all’amore. Volentieri essa induce gli uomini al riso, ma ciò che suscita in loro non è mai una risata di scherno, bensì una letizia in cui l’odio e la stupidità si dissolvono, una letizia che libera e che ricongiunge.
Nata ogni giorno di nuovo dalla solitudine, il suo effetto è il ricongiungimento. Essa è l’ultima a nutrire illusioni riguardo alla propria influenza sul destino umano. Spregiatrice di ciò che è cattivo, non è mai stata in grado di arrestare la vittoria del male; sempre tesa ad attribuire un senso, non ha mai impedito le più sanguinose insensatezze.
Essa non è una forza, è soltanto una consolazione.
E tuttavia; gioco profondissimamente serio, paradigma di ogni aspirazione al compimento, essa è stata data come compagna all’umanità sin dall’inizio, e mai quest’ultima potrà distogliere del tutto dall’innocenza dell’arte il proprio occhio ottenebrato dalla colpa».

Thomas Mann, L’artista e la società, in Id., Nobiltà dello spirito e altri saggi, Mondadori, 2015, pp. 1614, 1626.

 


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Maura Del Serra – I LIBRI ed altro

I LIbri di M. Del Serra

Poesia

 

***   Preludio in voce   ***

Al popolo della pace, testo e voce di Maura del Serra

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Ladder of Oaths

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Scala dei giuramenti

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Tentativi di certezza

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Voce di voci

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Canti e pietre

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Scintille

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Infinito presente

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Infinite Present

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L'opera del vento

L’opera del vento

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Adagio con fuoco

Adagio con fuoco

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Congiunzioni

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L'età che non dà ombra

L’età che non dà ombra

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Za solecem i nociju vosled

Za solecem i nociju vosled

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Aforismi

Aforismi

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Elementi

Elementi

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Dietro il sole e la notte

 

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Corale

Corale

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Sostanze

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senza niente

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Concordanze

Concordanze

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Meridiana

Meridiana

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La gloria oscura

La gloria oscura

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L’arco


Teatro

 

Teatro

Teatro

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La vita accanto

La vita accanto

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Guerra di sogni

Guerra di sogni

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La fonte ardente

La fonte ardente

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Andrej Rubliòv

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Eraclito. Due risvegli

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Isole. Poema scenico

Isole. Poema scenico

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Scintilla d'Africa

Scintilla d’Africa

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Agnodice

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Dialogo Natura e Anima

Dialogo Natura e Anima

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Rosens ande

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Lo spettro della rosa

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La fenice

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La Minima

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L'albero delle parole

L’albero delle parole


Critica

 

Una rara pietà

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Simone Weil. 'intelligenza della santità

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Di poesia e d'altro, III

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Crescita e costruzione. Immagini del giardino

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Campana

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Traduzioni

 

 

R. Ughetto, Poesie

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M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto

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G. Herbert, Corona di lode

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E. Lasker-Sculer, Ballate ebraiche e altre poesie

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Curatele

 

 

Kore. Iniziazioni femminili

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M. Guidacci, Le poesie

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John Berger – L’attività dei ricchi è costruire muri, compreso il muro del denaro. La strategia della resistenza è questa …

Berger 002

«L’attesa appartiene al corpo, mentre la speranza appartiene all’anima».
J. Berger

Da A a X. Lettere di una storia

Da A a X.

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Risvolto di copertina

Che cosa fa la scrittura se non convocare gli assenti, riportare a noi chi è lontano, trattenere al nostro fianco i morti e i non ancora nati, tessere e ritessere il nostro passato, immaginare il futuro e le persone con cui vorremmo condividerlo? A'ida, la A del titolo di questo romanzo d'amore lieve e incandescente, duro e gioioso, scrive per non arrendersi alla separazione. Perché l'opposto dell'amore non è l'odio, ma il distacco, che cancella i corpi e sbarra l'orizzonte al qui e ora della vita, ai suoi dolcissimi "nel frattempo". X, Xavier, l'uomo amato, è in carcere, condannato a due ergastoli per presunte attività terroristiche. La sorda giustizia del più forte lavora sui sensi, sulla progressiva perdita di contatto con il reale, sull'amnesia dei sentimenti. Mira a disconnettere, a creare dei vuoti di memoria, a cancellare. A la combatte scrivendo le lettere stupefacenti che fanno da spina dorsale a un romanzo che sembra arrivare dalle periferie dolenti del mondo contemporaneo e insieme dal suo cuore malato. Scrive per vivere e far vivere a X non solo il loro amore "interrotto", ma i progetti, i desideri e le speranze che li hanno uniti e - attraverso un vero e proprio miracolo narrativo - il senso atmosferico della realtà, della natura, dei corpi e delle voci che non possono più raggiungerlo se non grazie a lei e alla sua capacità di fargli sperimentare la vita attraverso il racconto.

 

«Parole torturate

Dire la verità? Parole torturate finché non si arrendono al loro esatto opposto. Democrazia, Libertà, Progresso, quando vengono rimandate nelle loro celle, sono incoerenti. Poi ci sono altre parole, Imperialismo, Capitalismo, Schiavitù, alle quali è negato l’ingresso, che vengono ricacciate indietro ad ogni posto di frontiera e i cui documenti sono confiscati e consegnati a impostori come Globalizzazione, Libero Mercato, Ordine Naturale.

Soluzione: la lingua notturna dei poveri. Chi la usa riesce a dire e avere qualche verità.

 

La strategia della resistenza è questa...

Il nemico non può essere affrontato in modo diretto. Avvicinato frontalmente, è invincibile. Avvicinato frontalmente, non si può che riconoscerlo vincitore. Per continuare a essere vincitore il nemico ha bisogno di nuovi nemici frontali. Dal momento che non esistono, li inventa. La aspettiamo come la nostra occasione per innumerevoli attacchi laterali. La strategia della resistenza è questa… I poveri sono collettivamente inafferabili. Non sono soltanto la maggioranza del pianeta, sono dappertutto, e anche il più piccolo evento parla in qualche modo di loro. Di conseguenza l’attività dei ricchi è costruire muri: muri di cemento, di sorveglianza elettronica, sbarramenti missilistici, campi minati, frontiere armate, disinformazione mediatica, e infine il muro del denaro …».

            John Berger, Da A a X. Lettere di una storia.

 

Ilaria Rabatti – Un libro di John Berger: «Da A a X. Lettere di una storia»

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