«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
«Si tratta di far apparire le pratiche discorsive nella loro complessità e nel loro spessore; far vedere che parlare significa fare qualcosa, qualcosa di diverso che esprimere quello che si pensa, tradurre quello che si sa, qualcosa di diverso anche che far funzionare le strutture di una lingua; far vedere che aggiungere un enunciato a una serie preesistente di enunciati, significa fare un gesto complicato e costoso, che implica delle condizioni (e non soltanto una situazione, un contesto, dei motivi) e che comporta delle regole (diverse dalla regole logistiche e linguistiche di costruzione); far vedere che un cambiamento, nell’ordine del discorso, non presuppone delle “idee nuove”, un po’ di invenzione e di creatività, una mentalità diversa, ma delle trasformazioni in una pratica, eventualmente in quelle che le sono vicine e nella loro articolazione comune. Non ho negato, e me ne guardo bene, la possibilità di cambiare il discorso: non ho tolto il diritto esclusivo e istantaneo alla sovranità del soggetto».
Michel Foucault, Archeologia del sapere. Una metodologia per la storia della cultura [L’archéologie du savoir, 1969], Rizzoli,1999.
Discorso e verità nella Grecia antica di Michel Foucault
Un contributo fondamentale per la comprensione dell’umanesimo della cultura greca
Tra le opere che più contribuiscono a fare luce su alcune caratteristiche fondamentali della cultura e del pensiero dei Greci, favorendo una migliore comprensione del loro essenziale tratto umanistico, Discorso e verità nella Grecia antica di Michel Foucault occupa indubbiamente un posto di primo piano. Le riflessioni in esso contenute, relative all’ultimo periodo della ricerca foucaultiana, mirano non ad «affrontare il problema della verità» nella Grecia antica, ma a porre «il problema di colui che dice la verità, del dire la verità come attività» (p. 111), al fine di mostrare che, «se la filosofia greca ha sollevato il problema della verità dal punto di vista dei criteri che presiedono ad affermazioni vere e a un giudizio corretto, la stessa filosofia greca ha sollevato anche la questione della verità dal punto di vista del dire la verità come attività» (ivi). Non si tratta di un problema di scarso rilievo: esso, infatti, ha posto i Greci di fronte a questioni della massima importanza come: «chi è in grado di dire la verità? Quali sono i requisiti morali, etici, spirituali che abilitano qualcuno a presentarsi e ad essere considerato come un dicitore di verità? E su quali argomenti è importante dire la verità?» (ivi). E ancora: «Quali sono le conseguenze del dire la verità? Quali sono gli effetti positivi per la città, per i governanti, per gli individui? E infine: qual è il rapporto tra l’attività del dire la verità e l’esercizio del potere? Può il dire la verità coincidere con l’esercizio del potere […]?» (pp. 111-112).
Secondo l’autore, tali domande fondamentali concernenti l’attività del «dire la verità» – che i Greci hanno designato col termine parresia, forma nominale del verbo parresiazestai, «dire tutto» – sono state poste al centro della riflessione e del discorso filosofico a partire da Socrate. Questo pensatore occupa una posizione privilegiata nell’analisi di Foucault. È proprio Socrate, infatti, a rappresentare ai suoi occhi la figura del parresiastes – e cioè del «dicitore di verità» – nel modo più eminente, come testimoniano i dialoghi di Platone. Ma in che senso costui è un «parresiasta»? Che cosa lo fa essere tale? Quali requisiti possiede colui che pratica la parresia? In generale, chi è il «parresiasta»? In Socrate, evidenzia Foucault, «non vi è la minima discrepanza tra ciò che dice e ciò che fa»; «c’è un rapporto armonico […] tra le sue parole (logoi) e le sue azioni (erga)» (p. 65). Il suo logos, ciò che egli sostiene, e il suo bios, il suo modo di vivere, sono in perfetta concordanza. Questa armonia, dal carattere dorico, si manifesta nel coraggio che contraddistingue Socrate. Infatti, come precisa Foucault, «se c’è una specie di “prova” della sincerità del parresiastes, essa sta nel suo coraggio» (p. 6). Il «parresiasta» non coincide con chiunque dica la verità, poiché, in tal caso, qualsiasi insegnante di scuola potrebbe definirsi tale, dal momento che ciò che insegna è certamente vero; egli è invece «qualcuno che corre un rischio. […] La parresia dunque è legata al coraggio di fronte al pericolo: essa richiede propriamente il coraggio di dire la verità a dispetto di qualche pericolo. E nella sua forma estrema, dire la verità diventa un “gioco” di vita o di morte» (p. 7). Stando così le cose, è evidente come essa non riguardi soltanto il rapporto con gli altri ma, innanzitutto, con se stessi: il parresiastes agisce secondo coscienza e in piena libertà e «preferisce essere uno che dice la verità, piuttosto che un essere umano falso con se stesso» (ivi). In conclusione, la parresia può essere descritta come «un’attività verbale in cui un parlante esprime la propria relazione personale con la verità, e rischia la propria vita perché riconosce che dire la verità è un dovere per aiutare altre persone (o se stesso) a vivere meglio» (p. 9). Ed è proprio in ciò che consiste il filosofare socratico.
L’attività di Socrate si caratterizza così come un’autentica pratica parresiastica che si contrappone «all’ignoranza di sé e ai falsi insegnamenti dei sofisti» (p. 67) ed è in qualità di «parresiasta» che egli, diversamente dagli altri uomini, si rivela capace di guidare i propri interlocutori a rendere conto di se stessi, ossia della relazione tra ciò che essi dicono e il modo in cui vivono, esortandoli alla cura dell’anima e alla pratica della giustizia e avviandoli così alla comprensione del bene della polis. In questo senso, con Socrate, la parresia, il principio cardinale della democrazia di Atene, viene a definirsi come una pratica di trasformazione di sé, in virtù della quale gli uomini possono dare una nuova forma a se stessi e agli altri secondo verità e giustizia, per vivere nel miglior modo possibile.
Attraverso l’esame del pensiero di Socrate e di altri protagonisti della cultura antica, Foucault rileva come la conoscenza della verità non si riduca, per i Greci, ad una mera operazione gnoseologica, poiché implica necessariamente un’etica – e una politica – della verità: la comprensione del vero, infatti, trasforma radicalmente l’esistenza, dando luogo ad un diverso modo di vedere il mondo e, ancor più, ad un diverso e più autentico modo di vivere la relazione con se stessi e con gli altri. Da qui la “scoperta”, da parte della cultura e della filosofia ellenica, non solo dell’importanza della ricerca della verità, ma anche del «dire la verità» per la formazione e per la realizzazione dell’uomo.
Alessandro Dignös
Indice del volume
Dire la verità
Introduzione di Remo Bodei
Nota del curatore dell’edizione inglese
I. Significato ed evoluzione della parola parresia
1. Il significato della parola
2. L’evoluzione della parola
II. La parresia nelle tragedie di Euripide
1. «Le fenicie»
2. «Ippolito»
3. «Le baccanti»
4. «Elettra»
5. «Ione»
6. «Oreste»
7. La problematizzazione della parresia in Euripide
III. La parresia e la crisi delle istituzioni democratiche
È passato un anno da quando Mario Vegetti ci ha lasciati. La Casa della Cultura lo ha voluto ricordare con un convegno, “Amicus Plato”, e ora con questo numero della rivista che raccoglie gli interventi di quella giornata di studi a lui dedicata. Possiamo dirlo senza timori di scadere nella retorica: Mario Vegetti ci manca. Perché non era solo un insigne ellenista: era un maestro. Basta scorrere i contributi raccolti in questo numero della rivista per capire cosa vuol dire essere stato un maestro. A lui i suoi allievi e una cerchia ampia di studiosi riconoscono il merito di avere aperto nuovi campi di ricerca: aveva collocato gli studi del mondo greco – ellenista nel campo più vasto dell’antichistica, aveva scavato le interazioni con le altre culture dell’antichità e aveva portato alla luce anche i lati oscuri di quella straordinaria vicenda storica. Le parole dei suoi ex colleghi sono dense di riconoscimenti. Eva Cantarella gli attribuisce il merito di averla stimolata a mettere a fuoco la condizione della donna nel mondo greco mentre Fulvio Papi, il collega – amico di una vita – gli ha voluto porgere un riconoscimento inconsueto: nel manuale di storia della filosofia, scritto assieme, le parti migliori e più innovative, ci ha detto Papi, erano quelle pensate e scritte da Vegetti. Il termine “maestro” evoca anche qualcos’altro: il rigore e l’efficacia del suo stile di lavoro. Un lavoro tenace, metodico, riservato, segnato dalla convinzione che ai risultati ci si arriva con il puntiglio e con la lunga fatica della ricerca, non con operazioni ad effetto amplificate da un po’ di applausi pubblici. Basti pensare al monumentale lavoro, costato anni di fatica, per la riedizione critica de La Repubblica di Platone: un’impresa collettiva decennale, da lui guidata, nella quale ha impegnato un ampio gruppo di studiosi.
Questo accanito lavoro filologico su La Repubblica ci introduce alla sua passione per Platone. Chi scrive ha nell’orecchio le sue memorabili lezioni sulle opere di Platone in Casa della Cultura: nel filosofo greco ammirava la tensione progettuale, l’ostinata volontà di non adattarsi all’immediata naturalità delle cose, il rischio di proporre ciò che poteva apparire impensabile. Platone era davvero il suo autore, l’amicus Plato per l’appunto. Il suo rapporto con l’utopia progettuale di Platone ci apre lo sguardo sull’opzione politica cui Vegetti è rimasto fedele tutta una vita: Mario si è sempre definito un comunista, sostenitore di una visione ideale e aperta di comunismo. In alcuni passaggi cruciali del secolo scorso si è anche impegnato pubblicamente a sostegno delle sue idee. Anche se l’impegno pubblico di Mario Vegetti si è manifestato essenzialmente attraverso lo sforzo tenace di valorizzare e di fare vivere la sua ricerca culturale anche al fuori del mondo accademico. Possiamo così comprendere la ragione profonda del legame tra Vegetti e la Casa della Cultura. In tanti possono testimoniare il suo attaccamento al centro culturale di via Borgogna, a quella che era solito definire la “sua” Casa della Cultura. In più occasioni si è esposto pubblicamente a sottolineare la funzione che era andata assumendo nel corso dei decenni: arrivò a scrivere che la Casa della Cultura era “un’isola benedettina di resistenza”. Vi era qui la sua convinzione profonda dell’importanza della battaglia delle idee: la Casa della Cultura era il luogo in cui l’intellettuale poteva incontrare i cittadini, misurarsi con l’opinione pubblica, mettere alla prova l’efficacia delle sue ricerche e delle sue proposte. Tra la Casa della Cultura e Mario Vegetti si è sviluppata una collaborazione decennale che è andata sempre più intensificandosi: negli ultimi anni avevamo preso l’abitudine di ragionare assieme sui nodi culturali più complessi e di costruire di comune accordo alcuni degli incontri più impegnativi, come in occasione del centenario della rivoluzione russa. Mario Vegetti è stato a lungo uno dei collaboratori più prestigiosi e autorevoli della Casa della Cultura. Ci ha lasciato una lezione di stile nella ricerca culturale e nell’impegno pubblico. Ha condiviso con noi la sua conoscenza e la sua passione civile. Ci ha onorato della sua amicizia. Si tratta di un patrimonio che non può andare perduto. La sua presenza in via Borgogna non può che continuare, come sempre.
Silvia Gastaldi
Silvia Gastaldi è professore ordinario di Storia della Filosofia antica nel Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Pavia. Le sue ricerche riguardano soprattutto la riflessione etico-politica greca del V e del IV secolo a. C. Ha pubblicato numerosi studi sulla Repubblica e sulle Leggi di Platone, sulle Etiche e sulla Politica di Aristotele. Tra le sue principali pubblicazioni si collocano i volumi: Aristotele e la politica delle passioni (Tirrenia Stampatori, Torino 1990); Storia del pensiero politico antico (Laterza, Roma-Bari 1998); Generi di vita e felicità in Aristotele (Bibliopolis, Napoli 2003); Aristotele. Retorica, Introduzione, traduzione e commento (Carocci, Roma 2014).
Designare con il termine “rivoluzione” tutto l’insieme di novità
– dai temi affrontati alla metodologia adottata – introdotte da Mario Vegetti
nell’ambito degli studi di antichistica non deve suonare come un’esagerazione
retorica. Fin dall’inizio della sua carriera scientifica, Mario ha percorso vie
nuove. Basti pensare ai suoi studi sulla medicina greca, condotti negli anni Sessanta,
quando questo ambito non era ancora del tutto riconosciuto come parte
integrante del pensiero filosofico antico, studi culminati con la pubblicazione
delle Opere di Ippocrate nel 1965 e delle Opere biologiche di
Aristotele nel 1971, curate, queste seconde, in collaborazione con Diego Lanza.
Se guardiamo alla bibliografia di Mario nel periodo compreso tra gli anni Sessanta
e Settanta, notiamo subito la prevalenza degli studi dedicati alla scienza
greca: se vogliamo individuare un punto di svolta, che lo conduce a occuparsi
del pensiero politico antico, dobbiamo assumere come data di riferimento il
1975, anno in cui viene pubblicato il saggio L’ideologia della città.
In questo mio
intervento, cercherò di mostrare in che cosa è consistita la novità introdotta
negli studi sulla città greca da questo lavoro, che ha dato avvio alla
fondazione di vere e proprie “nuove antichità”, come suona il titolo del
fascicolo monografico di Aut Aut curato da Mario nel 1981.
Partirei dai
presupposti teorici che stanno alla base della composizione dell’Ideologia
della città. Al primo posto collocherei la presa di distanza dal
classicismo. La visione di un mondo classico popolato da individui armoniosi e
perfetti come le statue che ci sono pervenute o, per usare le stesse parole di
Vegetti, sede di un «repertorio metastorico di paradigmi di perfezione, tanto
estetici quanto etico-politici e filosofici» (Intervista sul classico) è
durata molto a lungo. Lo stesso Mario ricordava sempre come alla metà degli
anni Cinquanta all’Università di Pavia, Remo Cantoni, uno dei suoi maestri, con
cui poi si laureò, leggesse, durante il suo corso, Paideia di Werner
Jaeger, «ultimo e più influente corifeo del classicismo», come lo definisce
sempre nell’Intervista sul classico.[1]
Il
distanziamento dal classicismo comporta come prima conseguenza un significativo
mutamento lessicale: la sostituzione del termine “classico” con “antico”.
Questa nuova dizione è priva del valore assiologico implicito nel termine “classico”
e produce una distanza rispetto a noi, proprio quella che il classicismo
intende invece colmare, valorizzando il cortocircuito tra passato e presente.
Parlare di “antico” non significa tuttavia intendere gli oggetti di cui si
parla come “remoti”: la lontananza nel tempo non è di ostacolo al nostro
tentativo di comprensione, anzi colloca gli oggetti che intendiamo studiare
nella corretta prospettiva rispetto a noi, al nostro presente.
Con quali modalità, dunque, ci si deve
accostare all’antico? Vegetti riconosce come modello positivo l’atteggiamento
archeologico di Michel Foucault, finalizzato – utilizzando le sue stesse parole
– al «reperimento critico dei modi nei quali il rapporto con la tradizione, o
con le tradizioni, dell’antico ha contribuito a forgiare la nostra modernità e
a determinare la nostra visione del mondo» (Intervista sul classico).
Nella bella intervista
rilasciata a Marco Solinas nel 2008 e pubblicata su Iride con il titolo
significativo di Lo strabismo dello storico (fra gli antichi e noi),
Vegetti dichiara di aver iniziato a leggere Foucault verso la metà degli anni Settanta
e di averne tratto, anzitutto, gli strumenti per uscire dall’alternativa tra
l’autonomia (e relativa astoricità) del pensiero teorico e la sua riduzione a “ideologia”
intesa in senso marxista, cioè come sovrastruttura intellettuale rispetto alla
struttura socio-economica.
Mi sembrano essere questi i
presupposti che stanno alla base della composizione del saggio L’ideologia
della città, redatto insieme all’amico Diego Lanza e pubblicato nel 1975 su
Quaderni di Storia. Si tratta di una versione ampia, cui farà seguito
una versione più breve, pubblicata nel volume omonimo, edito nel 1977 presso
Liguori e infine la ripubblicazione nel reading, curato da Vegetti, dal
titolo Marxismo e società antica, uscito per Feltrinelli sempre nel
1977.
Le pagine iniziali del saggio
nella sua “edizione maggiore” mostrano una seconda presa di distanza. Ora ci si
allontana da quella che F. M. Cornford aveva definito la marxist view della
Filosofia antica[2] e che aveva circolato in molte
pubblicazioni di ambiente anglosassone tra gli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento
proprio come reazione all’ancora imperante classicismo. I nomi che vengono
citati ne L’ideologia della città sono, tra gli altri, quelli di Thomson
e di Farrington.[3] A questi studiosi viene
imputato di non aver dato alcun rilievo alla specificità della società antica e
di avervi individuato invece la presenza e lo sviluppo di fenomeni quali, come
scrivono Lanza e Vegetti, «il mercantilismo, la produzione per il mercato,
l’emergere come classe di una borghesia precapitalistica». Insomma, concludono
gli autori, secondo questi studiosi «Il capitalismo appare già maturo tra il VI
e il V secolo a. C. ».
Se la marxist view viene criticata, non sono invece ignorati quelli che
Vegetti, sempre nell’intervista con Solinas, definisce «gli straordinari
strumenti di comprensione delle realtà politico-sociali che il marxismo offre»,
sebbene applicati senza la preoccupazione – estranea anche a Diego Lanza – di
mantenersi fedeli a una rigida ortodossia. Vegetti allude, a questo riguardo,
alle critiche che erano giunte proprio dagli intellettuali più ortodossi. In
questo senso mi sembra esemplare la recensione di Domenico Musti, esponente di
spicco dell’Istituto Gramsci, a Marxismo e società antica,[4] in cui le affermazioni di Vegetti sono messe a
confronto con passi dei testi marxiani per mostrarne la distanza, cioè la non
ortodossia.
Sotto il profilo
dell’utilizzazione degli strumenti di analisi marxisti, un contributo
particolarmente fecondo proviene dagli studiosi francesi che, negli anni Sessanta,
innestano su questi stessi strumenti un impianto strutturalistico. Il
riferimento è a Vernant e alla sua scuola, che, pur partendo dallo studio del Capitale
e dei Grundrisse marxiani, applicano alla società greca,
riconoscendone la specificità, il concetto weberiano di status piuttosto
che quello marxiano di classe, vedendo nella polis un centro di consumo
piuttosto che di produzione, in assenza di un’economia di mercato. In questo
ambito assumono una grande rilevanza per Lanza e Vegetti, anche gli studi di
Karl Polanyi e di M. I. Finley.[5]
Ma è il modo di rappresentare la
polis greca da parte degli esponenti della “scuola francese” che appare
a Lanza e a Vegetti carente proprio sotto il profilo dell’individuazione
dell’ideologia della città. Nelle loro opere, e soprattutto in quelle di
Vernant, essa si identifica con una coscienza collettiva estesa a tutto il
corpo sociale, che coincide a sua volta – sulla scorta degli studi di
psicologia storica condotti con Meyerson – con una “mentalità”, cioè con una
caratteristica globale del pensiero greco. In questo senso, la polis viene
a configurarsi sì come «il luogo primario di appartenenza identitaria dell’uomo
greco», come dice Vegetti nell’intervista a Solinas, ma rappresenta una
formazione sociale coesa, un modello statico.
Da qui, dunque, nasce un’altra
presa di distanza e l’elaborazione di quella “ideologia della città” cui fa
riferimento il titolo dell’articolo di Lanza e Vegetti. La loro indagine si
incentra sulla città per eccellenza, Atene, non solo perché è quella che ci
tramanda la documentazione più vasta, ma che, come scrivono gli autori, è lo
spazio in cui si costituisce la figura ideologica della città. In che cosa
consiste l’”ideologia della città”? Con questo termine Lanza e Vegetti
designano l’insieme di pratiche – dalle istituzioni politiche, alla produzione
culturale, ai processi formativi – finalizzati all’integrazione di tutti i
cittadini. La città deve pensarsi come una comunità, elemento fondamentale per
superare le scissioni e le contrapposizioni che da sempre la percorrono. La polis
non rappresenta davvero un modello statico, come lo era invece per la
corrente classicistica e in un certo modo anche per Vernant e la sua scuola:
l‘ideologia che si sviluppa e si alimenta al suo interno costruisce quello
spazio politico che tiene sotto controllo le tensioni e produce l’omogeneità
della comunità. Tra tutti gli aspetti che confluiscono a produrre l’ideologia
della città, una particolare rilevanza è assegnata alla produzione culturale, e
tra tutte al teatro, e in particolare alla tragedia, in cui il dialogo
presentato sulla scena riflette le dinamiche dialettiche presenti tra i cittadini,
oltre che i dilemmi etici e politici.
Con L’ideologia della città nascono,
come dicevo all’inizio, le “nuove antichità”, che attestano il nuovo tipo di
interesse per il «territorio dell’antico», come scrive Vegetti nell’Introduzione
al fascicolo di Aut Aut del 1981 i cui contenuti – una serie di
saggi di autori diversi (dagli stessi Vegetti e Lanza, a Vernant a Detienne, a
Burkert, agli allora colleghi antichisti pavesi, tra cui Ferruccio Franco
Repellini e Gian Arturo Ferrari, cui si univano le studiose medieviste Carla
Casagrande, Chiara Crisciani e Silvana Vecchio) incentrati sul tema Metafore
dell’immaginario, produzioni di saperi, figure del sacro, tanti aspetti
diversi di un’interrogazione sull’antico che non si aspetta di produrre risposte
certe, ma di sondare territori problematici, non ancora codificati.
Appare chiara a questo punto la
novità che gli studi di Mario Vegetti ha introdotto nell’ambito dell’antichistica
sotto il versante politico, una politicità che ha al suo centro la città e la
ridefinizione della sua ideologia, da cui scaturiscono nuove immagini, nuovi
modelli per pensare l’antico: questi studi hanno sempre costituito per noi suoi
allievi, e non solo per noi, una via tracciata, un percorso da proseguire per
comprendere anche la realtà dell’oggi.
Scritti di Mario
Vegetti citati
• L’ideologia
della città (in collaborazione con D. Lanza), ‘Quaderni di Storia’ 2, 1975,
pp. 1-37, successivamente ripubblicato in D. Lanza, M. Vegetti et al., L’ideologia
della città, Liguori, Napoli 1977, pp. 13-27 e in M. Vegetti (a cura di), Marxismo
e società antica, Feltrinelli, Milano 1977, pp. 259-288.
• Intervista
sul classico, in I. Dionigi
(a cura di), Di fronte ai classici, BUR, Milano 2002, pp. 265-278, ora
in M. Vegetti, Dialoghi con gli antichi, a cura di S. Gastaldi et al.,
Academia Verlag, Sankt Augustin 2007, pp. 305- 312.
• Nuove
antichità: Metafore dell’immaginario, produzione di saperi, figure del sacro, “Aut Aut” 184-185, 1981.
• Ippocrate, Opere
scelte, UTET, Torino 1965 (seconda edizione 1976).
• Aristotele, Opere
biologiche, in collaborazione con D. Lanza, UTET, Torino 1971 (seconda
edizione 1996).
• M. Solinas, Intervista a Mario
Vegetti, Lo strabismo dello storico (fra gli antichi e noi), “Iride” 21,
2008, pp. 529-566.
Note
[1] W.
Jaeger, Paideia: Die Formung des griechischen Menschen, 3 voll., Berlin
1934-1947 (trad. it. Paideia, La Formazione dell’uomo greco, La Nuova
Italia, Firenze 1936-1953).
[2] F.
M. Cornford, The Marxist View of Ancient Philosophy, in W. K. C. Guthrie
(ed.), The unwritten Philosophy and Other Essays, Cambridge University
Press, Cambridge 1950, pp. 117-137.
[3] Si tratta dei due studiosi di cui si parla diffusamente, specie
Farrington, nello studio di Cornford. Di G. D. Thomson si ricorda, in
particolare: Studies in Ancient Greek Society: The Prehistoric Aegean,
International Publishers, New York 1949. Anche il suo libro probabilmente più
famoso, e cioè Aeschylus and Athens, la cui prima edizione risale al
1911, pubblicato a Londra presso Lawrence and Winshart, presenta un’impostazione
marxista. B. Farrington è autore, tra l’altro, di Science and Politics in
the Ancient World, Allen and Unwin. London 1939 (trad. it. Feltrinelli,
Milano 1960).
[4] D. Musti, Marxismo, sociologia e mondo antico, “Studi Storici” 19, 1978, pp. 847-854.
[5] Di K. Polanyi è da ricordare anzitutto il saggio del 1957 Aristotle
discovers the Economy, in K. Polanyi, C. M. Arensberg, H. W. Pearson, Trade
and Market in the Early Empires, The Free Press, Glencoe Illinois 1957, pp.
64-94 (trad. it. Traffici e mercati negli antichi imperi, Torino,
Einaudi 1978); The livelihood of man, ed. by H. W. Pearson, Academic
Press, New York 1977 (trad. it. La sussistenza dell’uomo. Il ruolo
dell’economia nelle società antiche, Torino, Einaudi 1983). Tra le molte
opere di M. I. Finley, sono da menzionare The Ancient Economy,
University of California Press 1973 (trad. it. L’economia degli antichi e
dei moderni, Laterza, Roma-Bari 1977); Economy and Society in Ancient
Greece, Chatto & Windus 1981 (trad. it. Economia e società nel mondo
antico, Laterza, Roma-Bari 1984).
Eva Cantarella
Eva Cantarella compie i suoi studi presso il Liceo Classico Cesare Beccaria di Milano. Nel 1960 si laurea all’Università di Milano e completa la sua formazione presso Università straniere (Berkeley, Heidelberg). Allieva del giurista Giovanni Pugliese, ha svolto attività accademica presso le Università di Camerino, Parma e Pavia oltreché all’Università del Texas a Austin e a quella di New York, della quale è stata visiting professor. Ha pubblicato saggi sul diritto e su aspetti sociali del mondo greco e romano. Dal 1990 al 2010 è stata professore ordinario di istituzioni di diritto romano e di diritto greco antico all’Università statale di Milano. Tra i suoi ultimi libri: Come uccidere il padre. Genitori e figli da Roma a oggi, Milano, Feltrinelli, 2017; Gli amori degli altri. Tra cielo e terra, da Zeus a Cesare, Collana I fari, Milano, La nave di Teseo, 2018.
È bello essere qui
a ricordare Mario Vegetti, anche se sembra quasi impossibile non sia qui anche
fisicamente con noi. Quello che lui è stato ed è per la Casa delle
cultura e cosa è stata la Casa della cultura per lui è cosa che sappiamo tutti
così come sappiamo tutti quanto negli anni Mario ci ha dato. Ed è questo senso di gratitudine
nei suoi confronti quello che mi fa superare l’imbarazzo di essere qui a
ricordarlo con degli amici a differenza dei quali io non ho alcuna competenza
filosofica, avendo sempre studiato e insegnato una disciplina diversa – il che
peraltro non mi ha impedito, grazie a quel che Mario ha detto e scritto, di
apprendere da lui cose fondamentali nel mio campo di studi. E devo dire che
quello che mi fa superare l’imbarazzo è il desiderio di spiegare quello che gli
devo, e come e perché quello che ha detto e scritto sia stato fondamentale non
solo per me, ma a per tutti quelli che si sono occupati del mondo antico in
prospettiva diversa da quella filosofica. Mario infatti non era solo un
professore (un grande professore). Era un maestro. E i maestri sono
pochi, perché per esserlo non basta essere grandissimi studiosi: i maestri sono
quelli che aprono prospettive nuove alla ricerca anche al di fuori del proprio
settore: quello che Mario ha fatto grazie alla sua straordinaria capacità di
collegare il discorso filosofico alla realtà sociale, di mettere in luce da un
canto la sua derivazione da questa realtà e dall’altro gli effetti che produce
su di essa. E prima di darne un esempio parlando della sua influenza nel campo
della storia del diritto antico e nella storia delle donne, vorrei darne molto
brevemente un altro legato al suo influsso sulla filologia ricordando un
articolo di Mario dedicato all’«Io collerico» (nella specie quello di Achille)
nel bel libro curato da Silvia [Vegetti Finzi; ndr.] sulla Storia delle passioni. Per decenni, nella seconda metà del secolo
scorso, i filologi hanno accettato una teoria formulata da un grande filologo,
Bruno Snell, per la quale l’uomo omerico non percepiva ancora se stesso come
un’unità, ma come un insieme di parti fisiche e psichiche slegate. La ragione
di questa singolare ipotesi era la asserita mancanza di una terminologia non
solo per indicare l’anima, ma anche per indicare il corpo: psiche sarebbe stato solo ciò che animava il corpo, tenendolo in
vita, e soma sarebbe stato solo il
cadavere. Per indicare il corpo l’uomo omerico avrebbe usato termini che ne
indicavano le parti specifiche, come melea
(membra), chros (pelle) e via
dicendo. Vegetti ha mostrato che l’uomo omerico aveva un sé non solo fisico, ma
psichico unitario, costruito attorno a una passione, vale a dire l’ira. L’articolo di Mario ha cambiato la
prospettiva con cui la grande maggioranza dei filologi guardava al problema.
Ma veniamo al tema
sul quale vorrei più specificamente soffermarmi: la storia del diritto (nella
specie antico) e quella delle donne. Per ragioni legate all’organizzazione
dell’insegnamento universitario la storia del diritto non viene insegnata in
quelle che si chiamavano facoltà di lettere, ma in quelle di giurisprudenza,
nelle quali le regole del diritto antico – in particolare quello romano
(obbligatorio) e là dove veniva insegnato quello greco – venivano studiato in
sé e per se, indipendentemente da quelli che venivano chiamati “sociologismi”.
Venivano insegnate
vale a dire al di fuori di qualunque riferimento alla realtà storica nella
quale erano nate ed erano state applicate. Una specie di diritto in vitro, in
provetta, la cui funzione avrebbe
dovuto essere quella di insegnare le regole che sono alla base del diritto
privato non solo italiano ma di quasi tutti i diritti europei, eccezion fatta
per i sistemi di common law (quello
inglese e quindi nordamericano). Un diritto fuori della storia
Ebbene: leggere
Vegetti voleva dire vedere aprirsi percorsi, sentieri, strade lungo le quali
(in un’epoca in cui l’interdisciplinarità non era solo sospettata, era
malvista) i maestri di allora non amavano che i loro allievi si avventurassero.
E di questa apertura a nuove praterie hanno beneficiato non solo quelli che
allora erano studenti, ma anche quelli come me, che erano allora giovani
studiosi.
Mario, insomma, è
stato un maestro anche per me e per la mia (e sua) generazione perché quello
che lui pensava, diceva e scriveva indicava percorsi esterni al mondo separato
da rigide partizioni disciplinari, all’interno del quale sino a quel momento ci
eravamo mossi.
E per darvi un
esempio e una prova di quello che sto dicendo faccio un breve riferimento al
filone di studi al quale in quel momento mi dedicavo e al quale ho continuato a
dedicarmi con particolare interesse, vale a dire la storia della condizione
femminile.
E lo farò partendo
dall’influsso che ha avuto in questo campo un libro bellissimo e molto
importante intitolato Madre Materia,[1] dedicato appunto
alla condizione femminile, del quale avevo cominciato a occuparmi da alcuni
anni, e alla quale avevo dedicato da poco (per l’ esattezza, nel 1981) un
libretto nel quale, da storica del diritto, mettevo in evidenza le pesantissime
discriminazioni giuridiche di cui le donne greche e in particolare ateniesi
erano state vittime.
Madre Materia era uscito nel
1983, con una Presentazione di Mario, che iniziava con queste parole: «Nel campo degli studi sulla donna
nell’antichità non è più tempo dello scandalo e delle denunce. L’uno e le
altre, erano stati motivati, a dire il vero, da un’evidenza nota da sempre, ma
ricoperta e occultata dalla patina del classicismo: la radicale inferiorità
della donna, nelle società antiche, fondata dalla catena dei pregiudizi di una
mentalità che sfiora talvolta la ginofobia. Non appena scalfito il classicismo
con gli strumenti dell’antropologia sociale e della critica all’ideologia,
questa evidenza tornava a imporsi, e la figura della donna si aggiungeva, nella
fenomenologia dell’esclusione sociale, a quelle dello schiavo, del barbaro, per
altri versi del povero. Ma proprio l’impiego metodico di questi strumenti ha
imposto di sostituire l’emozione con il lavoro dell’analisi, con l’indagine
della funzione dei ruoli sessuali nei processi complessivi di riproduzione
sociale e nelle forme di cultura che li accompagnano».
Così scriveva
Vegetti, introducendo i tre saggi che componevano il volume, che affrontavano
il problema femminile «non
direttamente al livello della sua collocazione sociale, ma nell’ambito della
formazione di saperi forti, come quello aristotelico e la tradizione della
medicina ginecologica».
E qui si impone una
precisazione, che rende Madre Materia un libro che illustra meglio di
qualunque discorso un altro aspetto della sua natura di maestro: i saggi in
questione non erano firmati da lui, ma da tre sue giovani allieve. Io non so se
fosse stato lui a suggerire esplicitamente i temi, che certamente comunque non
aveva imposti (come, allora, era abitudine pressoché generale). I temi dei tre
saggi erano evidentemente nati dalle suggestioni, dagli input che le sue
lezioni e i suoi seminari davano a chi li seguiva. E quando i risultati del suo
insegnamento producevano i loro frutti, come quelli che compongono Madre
Materia, il maestro generosamente si ritraeva, attribuendo esclusivamente
agli allievi meriti e paternità (nella specie maternità!) dei risultati.
Credetemi, al termine della mia lunga carriera accademica, posso dirvi che non
è cosa abituale.
Ma veniamo più
specificamente ai contenuti. Il primo saggio, di Silvia Campese (Madre
materia: donna, casa, città nell’antropologia di Aristotele) ricostruisce
la funzione di riproduzione sociale affidata alle donne attraverso la lettura
della Politica e dell’Etica Nicomachea;il secondo saggio, diGiulia Sissa, intitolato Il corpo della donna:
lineamenti di una ginecologia filosofica (basandosi a sua volta su
Aristotele) ricostruisce – attraverso la Historia anumalium e il De
generazione – i paradigmi della riproduzione biologica; il terzo, di
Paola Manuli, dedicato a Donne mascoline, femmine sterili, vergini perpetue.
La ginecologia greca tra Ippocrate e Sorano, individuava i percorso
attraverso il quale la ginecologia antica studiava la patologia della
riproduzione identificando la sterilità come la causa e al tempo stesso come
effetto della «sindrome isterica».
Ed è al crocevia di
questi saperi forti, osserva Vegetti, che «si costituisce la figura epocale della madre materia – Madre perché la donna è pensabile (e accettabile)
solo come sessualità riproduttiva della famiglia e della città, come “strumento
animato”, quindi, delegato al prolungamento biologico del “padre cittadino”. Materia,
perché questo ruolo la vincola a una fecondità potenziale e quindi amorfa e
passiva, ma docile all’informazione maschile […]». Una forma di riconoscibilità
del femminile che «mette immediatamente in opera potenti dispositivi di
esclusione di qualsiasi forma di desiderio non riproduttivo, di presenza
sociale non strumentale: desideri e presenze che i saperi sulla donna sono in
grado di codificare come degenerazioni patologiche del corpo, della famiglia e
della città». Non credo ci sia bisogno di dire altro per mostrare
l’importanza di un libro come Madre Materia, che andava ben oltre la denuncia
dell’esclusione, alla quale in quegli anni si era ancora fermi: identificando i
paradigmi con i quali i saperi alti dei greci l’avevano giustificata
consentiva, tra l’altro, di constatare la lunghissima durata di questi nelle
storia europea. A dare alcuni esempi della quale, facendo un salto cronologico
molto ampio, possiamo vedere qualche esempio nella Germania dell’Ottocento, quando
Josef Görres (nato sul finire del secolo precedente), vedendo tradite le
speranze rivoluzionarie – ovviamente della Rivoluzione Francese – dedicandosi
in pieno clima romantico alla mitologia e alla cosmologia formula una teoria
secondo la quale la differenza sessuale sulla terra sarebbe stata il riflesso
della differenza sessuale che percorreva il cosmo, che identificava il maschile
con le nature spirituali, la luce e la libertà; il femminile con quelle
materiali, gravitazionali e con la necessità.
Né le cose cambiano
molto se da Görres passiamo, sempre in Germania nell’Ottocento, a un altro
celebre esempio: Jacob Grimm, uno dei famosi fratelli Grimm, che formula una
teoria della differenza sessuale in campo linguistico secondo la quale la forma
attiva del verbo è maschile, la forma passiva è femminile, e le vocali più
elementari sono femminili, mentre le consonanti, frutto più elaborato della
riflessione, sono maschili.
Gli esempi
potrebbero continuare: questi sono alcuni tra i moltissimi che aiutano a capire
l’importanza dell’insegnamento dato da Mario opponendosi a un classicismo che
degli antichi vedeva solo i grandissimi lasciti, ignorando gli aspetti meno
gloriosi e glorificati della loro cultura e gli importanti e non meno duraturi
effetti che anche questi hanno lasciato nella nostra storia, per arrivare a
volte sino al presente.
[1] Silvia
Campese – Paola Manuli – Giulia Sissa, Madre Materia. Sociologia e biologia
della donna greca, presentazione di Mario Vegetti, collana “Società
antiche” diretta da Mario Vegetti, Boringhieri, Torino 1983.
Franco Ferrari
Franco Ferrari (1964) è professore ordinario di Filosofia antica presso l’Università di Salerno. È stato allievo di Mario Vegetti a Pavia; con lui ha collaborato alla traduzione commentata della Repubblica di Platone. Humboldt-Stipendiat presso l’Università di Münster, ha collaborato al progetto «Der Platonismus in der Antike» diretto da Matthias Baltes (1997-2002). Attualmente è coordinatore del comitato editoriale della International Plato’s Society. I suoi interessi di ricerca si concentrano sulla filosofia di Platone e sul platonismo antico. Nella collana dei «Classici Greci e Latini» della Bur ha tradotto e commentato il Parmenide, il Teeteto e il Menone di Platone. A Platone ha recentemente dedicato un’esposizione di carattere generale: Introduzione a Platone (Il Mulino).
In apertura di una bella intervista biografica pubblicata
sulla rivista «Iride» nel 2008, Mario Vegetti spiegava che l’incontro con
Platone e in particolare con il «Platone politico» era avvenuto in lui
relativamente tardi. In effetti, sebbene di Platone Vegetti si fosse occupato
fin dalla seconda metà degli anni Sessanta, soprattutto nell’ambito delle sue
ricerche sul corpus ippocratico, il confronto serrato con la filosofia
politica platonica divenne ineludibile, come lo stesso studioso ha
riconosciuto, dopo la pubblicazione del volume L’etica degli antichi,
una sintesi magistrale della riflessione etico-morale sviluppata dagli autori
greci e latini. Qui Vegetti non si limitava a ricostruire, servendosi anche
degli strumenti offerti dalla filosofia analitica con la quale era nel
frattempo entrato in contatto, le argomentazioni fornite dai filosofi antichi a
favore di questa o di quella concezione etica, ma si proponeva di valutarne la
consistenza filosofica e l’eventuale spendibilità all’interno del dibattito
contemporaneo. Esattamente a questo livello si situavano le sue riserve nei
confronti di un approccio etico di tipo prevalentemente descrittivo, in
qualche modo implicito nel nesso stabilito da Aristotele (e in misura diversa
probabilmente anche dagli Stoici) tra «naturale», «normale» e «normativo» (si
veda anche Aristotele e la filosofia pratica).
Il pensiero etico e politico di Platone si presentava
agli occhi di Vegetti come un formidabile antidoto a un’attitudine di questo
genere, perché sembrava effettivamente rompere il legame tra natura e norma e
progettare un piano dei fini del tutto irriducibile tanto alla realtà
storico-politica, quanto alla normalità naturale. Ciò significa che,
contro la diffusa tendenza a vedere in Aristotele l’interlocutore antico
privilegiato per la riflessione etica (e politica), Vegetti avvertì l’esigenza
di rivolgersi a Platone, concepito come il modello di una «grande politica»,
vale a dire di una politica animata dall’ambizione di trasformare
demiurgicamente il mondo morale e sociale degli uomini. Scriveva in proposito
lo studioso: «quando parlo di grande politica intendo, in primo luogo, una
politica che abbia relazioni esplicite, fondative, con un’etica, e oltre essa
con un’antropologia: una politica cioè orientata da un qualche insieme di
valori, che a loro volta abbiano un rapporto con la natura umana e con la sua
(eventuale) perfettibilità» (Un paradigma in cielo, p. 174 sgg.).
Il confronto con il pensiero etico e politico di Platone
fu per Vegetti prima di tutto, sebbene non esclusivamente, un confronto con il
dialogo più celebre, complesso, problematico e spesso frainteso del grande
filosofo, ossia la Repubblica, alla quale egli ha consacrato almeno due
decenni di ricerche, destinate a trovare la loro sintesi nella spettacolare
traduzione commentata in sette volumi dell’opera, pubblicata nella prestigiosa
collana «Elenchos» dell’editore Bibliopolis tra il 1998 e il 2007. La realizzazione
di una simile impresa «collettiva» costituiva agli occhi di chi la
progettò una reazione all’individualismo competitivo che anima la nostra epoca
(anche nel mondo universitario), e insieme un omaggio alla consuetudine
collaborativa, ossia alla synousia, che doveva caratterizzare la vita dell’Accademia, la
scuola fondata da Platone. Per comprendere il significato dell’operazione
esegetica compiuta da Vegetti, è opportuno spendere due parole sullo stato
della ricezione del pensiero politico platonico e in particolare della Repubblica
nel corso del dopoguerra. Come Vegetti ha mostrato analiticamente nel suo
bellissimo libro Un paradigma in cielo, la fruizione della Repubblica
è stata vincolata a una serie di assunti esegetici finalizzati nella
sostanza a neutralizzare (o a disinnescare) il formidabile atto di accusa mosso
da Karl Popper nel celebre libro The Open Society and its Enemies,
scritto durante l’esilio in Nuova Zelanda e pubblicato nel 1944. Come è noto,
Popper considerava Platone il capostipite del filone totalitario,
organicista, collettivistico-tribale, antiliberale e antidemocratico del
pensiero occidentale, che avrebbe avuto in Hegel e Marx i suoi epigoni, e nel
nazismo (via Hegel) e nel bolscevismo stalinista (via Marx) le ultime e terribili
manifestazioni. Dal punto di vista filosofico Popper rimproverava a Platone, di
cui riconosceva comunque l’abissale profondità di pensiero, due assunzioni
teoriche, dalle quali sarebbe discesa l’impostazione totalitaria della sua
concezione politica e l’opzione in favore di una società «chiusa»: si tratta
dello storicismo regressivo, che àncora la perfezione a un modello
eterno e astorico, e dell’ingegneria sociale utopica, accompagnati
entrambi da una forte componente estetizzante. Vegetti ricostruisce in questi
termini la strategia che Popper ascrive a Platone: «c’è in primo luogo l’ordine
dei fini: la teoria delle idee è lo strumento teorico che consente di
delineare, e di fondare, il modello dello stato perfetto, per
definizione immutabile e invariante. Ciò posto, il problema dell’ingegnere
sociale utopico è quello di progettare i mezzi adeguati al conseguimento della
finalità così stabilita» (Un paradigma in cielo, p. 115). Tanto la
determinazione dell’orizzonte normativo, quanto l’individuazione dei fini atti
a realizzarlo risultano sottratti a ogni forma di dibattito e finiscono
inevitabilmente per esporsi all’arbitrio e alla violenza. Alle spalle di simili
critiche si legge la ragione di fondo dell’aspra polemica di Popper,
consistente nel rifiuto radicale di ogni pensiero utopistico e la sua opzione
in favore di una politica gradualistica, che rifugga da ogni tentazione
rivoluzionaria.
I tre provvedimenti intorno ai quali prende forma il
programma “utopico” delineato nella Repubblica attengono, come è noto,
a) all’uguaglianza dei generi rispetto ai compiti di governo, b) alla
soppressione, limitatamente al ceto dei governanti e a quello dei difensori,
della dimensione privata, sia sul piano affettivo, sia su quello patrimoniale,
ossia all’abolizione dell’oikos, luogo degli affetti e
dell’accumulazione di ricchezza, e c) all’assegnazione ai filosofi del governo
della città. La natura eversiva e per certi aspetti rivoluzionaria di simile
provvedimenti dovette essere avvertita dallo stesso Platone, che infatti li
assimila a vere e proprie «ondate» (kymata), che rischiano di esporre
alla derisione chi si avventuri a proporle, e fu certamente la ragione del
sarcasmo con cui il tradizionalista Aristofane si scagliò contro la kallipolis
immaginata nella Repubblica. Del resto, come ha mostrato in maniera
convincente Luciano Canfora, il tema dell’utopia costituì il principale,
sebbene non l’unico, motivo di frizione tra Platone e il grande commediografo. È
poi appena il caso di ricordare come l’abolizione della famiglia e della
proprietà, sia pure solamente per i ceti chiamati a funzioni direttive,
costituisca qualcosa di simile a uno scandalo sia per la coscienza naturaliter
cristiana dell’Occidente, sia per l’individualismo liberista sul quale si
fonda, in forma diretta o indiretta, la modernità.
Si comprende, dunque, come la circolazione di Platone nel
dibattito etico e politico del dopoguerra sia transitata attraverso un processo
di depotenziamento o di vera e propria neutralizzazione della portata eversiva
delle tesi esplicitamente affermate nella Repubblica. Si direbbe, come
Vegetti ha affermato numerose volte, che per molti decenni l’esegesi della
filosofia politica platonica sia ruotata intorno all’obiettivo di «difendere
Platone da Popper» (e forse da se stesso). Le strategie di difesa approntate a
questo scopo sono state diverse e articolate, e tuttavia non tutte si collocano
sullo stesso piano per profondità filosofica e solidità filologica. In questa
sede mi limito a segnalare le due più interessanti: a) la prima è tesa a
dimostrare, attraverso una lettura ironico-trasversale dei testi, che
Platone non considerò né desiderabili né realizzabili i provvedimenti esposti
nella Repubblica, i quali costituirebbero o il prodotto di un gioco
razionale presentato all’interno del genere letterario dell’utopia
(Gadamer), oppure la dimostrazione, – effettuata per mezzo dell’attribuzione a
Platone del metodo della dissimulazione, – dell’impossibilità
antropologica di un progetto che stabilisca l’unità di filosofia e politica
(Strauss e, con accenti diversi, Vogelin, anch’egli animato comunque da una
forte vis polemica nei confronti di Popper); b) la seconda,
particolarmente diffusa nell’area culturale anglosassone e la cui massima
esponente è Julia Annas, è orientata a negare al percorso teorico delineato
nella Repubblica ogni significato politico, dal momento che lo scopo del
dialogo sarebbe unicamente quello di argomentare sul piano etico-morale in
favore della tesi dell’autosufficienza della virtù per il conseguimento della eudaimonia.
Pur riconoscendo a entrambe queste strategie di difesa
una certa consistenza filosofica e una qualche legittimità storiografica,
Vegetti ne mette in luce, in maniera efficace, i presupposti e le finalità più
o meno esplicitati, che nel caso di Strauss e Vogelin consistono nel tentativo
di sottrarre Platone alla modernità per farne in qualche modo il capostipite
della filosofia classica, conservatrice, costitutivamente estranea a
ogni forma di utopismo, consapevole dei limiti strutturali della politica e
della sua sostanziale incapacità di realizzare sulla terra il «regno della
perfezione», per Gadamer nel tentativo di costruire una tradizione
cristiano-liberale capace di integrare anche Platone, mentre nel caso di Annas
e degli interpreti «moralisti» vanno individuati nell’obiettivo di fare di
Platone un pensatore estraneo alla politica, unicamente rivolto al
miglioramento etico dell’uomo e dunque perfettamente omogeneo al filone «etico»
che da Socrate giunge fino allo stoicismo.
Sia gli uni che gli altri tradiscono, secondo Vegetti, il
senso del pensiero platonico, ne neutralizzano la componente utopica e
progettuale, azzerando il ruolo che in esso esercita la forza
dell’immaginazione (mythologein), in grado di costruire un orizzonte di
finalità irriducibile all’esistente. Nello sforzo di rendere Platone omogeneo a
una presunta filosofia classica aliena dall’utopia o di farne un interlocutore
integrabile nel dibattito filosofico contemporaneo, entrambe queste linee
esegetiche depotenziano il significato di un pensiero la cui grandezza risiede
proprio nella sua irriducibilità al nostro modo di concepire la politica e
dunque in una certa forma di inattualità. Vegetti riconosce in Popper un
lettore attento e largamente affidabile di Platone, certamente più profondo di
tanti laudatores contemporanei. In particolare a Popper si deve il
merito, contro una tendenza diffusa da circa un secolo e risalente a Hegel, di
avere preso sul serio le «indicazioni programmatiche» esposte nella Repubblica
relative alla kallipolis e di averne messo in luce l’assoluta
irriducibilità a ogni forma di pensiero «liberal-democratico». Contro Gadamer,
Strauss, Vogelin e i loro epigoni, Vegetti può sostenere, appellandosi a una
serie di riflessioni metadiscorsive sviluppate da Platone nei libri V-VII della
Repubblica, che le tre «ondate» contenute nel V libro risultano per
l’autore sia desiderabili (ta beltista), sia in qualche misura possibili
(dynata), cioè realizzabili. In conclusione del VII libro Socrate arriva
ad affermare che la costituzione descritta «non è del tutto un pio desiderio,
ma cosa bensì difficile da realizzarsi, in qualche modo però possibile, e non
diversamente da come si è detto, una volta che i veri filosofi avranno assunto
il potere nella città» (540d).
Secondo Vegetti lo statuto del programma descritto nella Repubblica
è quello di un’utopia progettuale, del tutto irriducibile all’utopia
di evasione prospettata da Gadamer: «progettuale, perché la sua realizzazione è
desiderabile e possibile, o almeno non impossibile, benché difficile e
necessariamente imperfetta» (Un paradigma in cielo, p. 163). Del resto
Platone stesso sembra alludere alla natura paradigmatico-normativa della città
perfetta ricostruita dall’immaginazione filosofica quando, verso la fine del V
libro, invita a trovare una forma di governo che si approssimi in massimo grado
(hos engytata) a quella di cui ha parlato (473a-b). Nel linguaggio della
filosofia contemporanea si tratterebbe di una teoria normativa, che
stabilisce i fini e gli strumenti atti a realizzare una società giusta. Tralascio
di discutere le obiezioni che Vegetti muove all’interpretazione «etica» della Repubblica,
la quale può appellarsi, oltre che alla celebre analogia tra il microcosmo
dell’anima e il macrocosmo della città stabilita da Platone nel II libro, a
un’affermazione contenuta alla fine del IX libro (il celebre sintagma heauton
katoikizein, solitamente tradotto con «fondare una città giusta in se
stesso»), di cui tuttavia Vegetti propone un’interpretazione alternativa e
filologicamente meglio fondata, il cui esito consiste nel richiamo alla valenza
normativa che il modello eidetico, collocato en ourano, ossia nel cielo,
esercita per l’attività politica. Vegetti ha spesso assimilato la filosofia
politica di Platone a un programma illuministico, perché si fonda
sull’idea di un’alleanza tra sapere e potere, tra la ragione filosofica e il
governo della città. In realtà l’importanza di Platone, le ragioni che motivano
l’esigenza di fare i conti con la sua filosofia politica, si situano a un altro
livello, e in particolare dipendono dalla natura di un progetto che assume il
profilo della grande politica. Da questo punto di vista il richiamo a
Platone nel dibattito filosofico-politico odierno comporta, per Vegetti, prima
di tutto la consapevolezza di trovarsi di fronte a un pensiero irriducibile a
quello contemporaneo, ma che forse proprio per questa ragione consente di
mettere in discussione la presunta naturalità di quest’ultimo. Non si tratta di
difendere Platone dagli attacchi del liberal-democratico Popper, ma di valutare
senza pregiudizi i presupposti filosofici, politici e antropologici di
entrambi, anche con l’obiettivo di relativizzare ciò che nella modernità appare
assoluto, ossia l’individualismo proprietario.
Vorrei chiudere questo breve profilo del mio maestro
menzionando un libretto da lui preparato per una collana di «Falsi
d’autore». Si trattava di immaginare il ritrovamento di un manoscritto
contenente un libro perduto della Repubblica
di Platone (e la Lettera XIV).
Vegetti attribuisce questa sensazionale scoperta, avvenuta nel 1937 in un
convento dell’Armenia, a uno studioso sovietico dal non casuale nome di Josiph
Vissarionovich. Il protagonista di questo immaginario XI libro della Repubblica
è «uno straniero piuttosto tozzo e tarchiato, con una gran testa,
un’incolta barba grigia e lo sguardo penetrante, cui faceva da seguito una
piccola folla di manovali o di schiavi da poco liberati dalle loro catene».
Questo Marx che dialoga con Socrate e con Trasimaco, delineando i contorni di
una società certamente impensabile per Platone, una società senza sfruttati né
sfruttatori, senza ricchi né poveri, rappresenta l’estrema concessione di
Vegetti – nella forma di un ironico divertissement – alla passione
politica che lo ha sempre accompagnato, alla sua fiducia in un comunismo aperto
e libertario, tanto inattuale quanto ineludibile, almeno per una
riflessione che non si accontenti di registrare passivamente il presente, ma si
proponga di immaginare criticamente – forse platonicamente – il futuro.
# # NOTA
BIBLIOGRAFICA# # Una versione più ampia di questo contributo è in corso di
pubblicazione presso la rivista «Iride». I lavori di Mario Vegetti utilizzati
per la stesura di questa pagine e di cui nel testo si dà menzione in forma
abbreviata sono i seguenti: # L’etica degli antichi. Roma-Bari: Laterza
1989. # Aristotele e la filosofia pratica: qualche problema,
«Paradigmi», 11 (1993) pp. 237-248. # Platone e la medicina, Venezia: Il
Cardo 1995. Platone, La Repubblica, a cura di M. Vegetti, vol. I-VII,
Napoli: Bibliopolis 1998-2007. # Guida alla lettura della Repubblica di
Platone, Roma-Bari: Laterza 1999. # Quindici lezioni su Platone,
Torino: Einaudi 2003. # Platone, Repubblica, libro XI / Lettera XIV. Socrate
incontra Marx, lo Straniero di Treviri, Napoli: Guida 2004. # Lo
strabismo dello storico (fra gli antichi e noi). Intervista teorico-biografica,
a cura di M. Solinas, «Iride», 21 (2008) pp. 529-566. # “Un Paradigma in
cielo”. Platone politico da Aristotele al Novecento, Roma: Carocci 2009. # Il
potere della verità. Saggi platonici, Roma: Carocci 2018. # Tra gli altri
contributi menzionati o comunque utilizzati nel testo si segnalano: # J. Annas,
Platonic Ethics: Old and New, Ithaca-London: Cornell University Press
1999. # L. Canfora, La crisi dell’utopia. Aristofane contro Platone,
Roma- Bari: Laterza 2014. # F. Ferrari, Platone illuminista? A proposito di
un libro di Mario Vegetti, «Rivista di Storia della Filosofia», 65 (2010)
pp. 507-514. # H.G. Gadamer, Platone e il pensare in utopie, in L’anima
alle soglie del pensiero nella filosofia greca, Napoli: Bibliopolis 1988,
pp. 61-91. # K.R. Popper, La società aperta e i suoi nemici, vol. 1: Platone
totalitario, trad. it. Roma: Armando 1996. # L. Strauss, La città e
l’uomo. Saggi su Aristotele, Platone, Tucidide, edizione italia a cura di
C. Altini, Genova-Milano: Marietti 2010. # E. Vogelin, Ordine e storia. La
filosofia politica di Platone, trad. it. Bologna: Il Mulino 1986. # F.
Zuolo, Platone e l’efficacia. Realizzabilità della teoria normativa, Sankt
Augustin: Academia 2009.
Fulvia de Luise
Fulvia de Luise è professore Associato di Storia della Filosofia Antica presso il Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università di Trento. Ha conseguito la Laurea in Filosofia presso l’Università degli Studi di Napoli e il Diploma di Perfezionamento in Storia della Filosofia Antica presso l’Università degli Studi di Pavia con una tesi dal titolo «Scrittura del dialogo e comunicazione filosofica in Platone». Dal 1994 al 2007 ha partecipato al seminario di studio sulla Repubblica di Platone, diretto dal prof. Mario Vegetti presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università agli Studi di Pavia. Ha svolto un’intensa attività di ricerca sui modelli antropologici ideali nel pensiero antico e sul tema della felicità nel pensiero antico e moderno, pubblicando due monografie, in collaborazione con G. Farinetti (Felicità socratica, Hildesheim 1997; Storia della felicità. Gli Antichi e i moderni, Torino 2001). I suoi studi si sono rivolti inoltre all’interpretazione della scrittura platonica, con particolare riferimento, oltre che alla Repubblica, al Fedro e al Simposio, di cui ha curato edizioni commentate.
Restituire alla Repubblica
il suo carattere eminentemente politico è stato il movente principale del
progetto di ricerca che Mario Vegetti ha concepito nei primi anni Novanta.
L’esigenza di farlo aveva come sfondo la grande disputa sui paradigmi
interpretativi degli anni Settanta-Ottanta, in cui a un modello ermeneutico
centrato su ciò che nei dialoghi c’è scritto si era opposto un modello
orientato alla ricostruzione della parte non-scritta delle cosiddette
‘dottrine’ platoniche. C’era poi una diffusa tendenza a difendere il testo della
Repubblica da se stesso, cioè dalle sue tesi più urtanti per la
coscienza liberal-democratica, quelle denunciate come radici del totalitarismo
da Karl Popper (1944) e derubricate a provocazioni intrise di ironia da Leo
Strauss (1964); il che significava in molti casi, anche per alcuni interpreti
autorevoli, come Julia Annas (1997 e 1999) e Giovanni Ferrari (2003),
privilegiare i significati morali della ricerca platonica a scapito di quelli
politici: un vero rovesciamento dell’ordine seguito nel dialogo della Repubblica
per la ricostruzione politica della giustizia, prima nella città e poi
nell’anima. Mario Vegetti ha dedicato uno studio attento e continuo ai motivi
profondi per cui nella storia delle grandi interpretazioni del pensiero di
Platone, e soprattutto nel quadro culturale segnato dalle tragedie politiche
del Novecento, «la Repubblica è diventata impolitica».[1] Ed
è dalla comprensione storica e filosofica di queste ragioni che nasce
l’esigenza di rimuovere il loro impatto sulla lettura della Repubblica,
per restituire al dialogo il carattere progettuale che gli è proprio e che si
presenta al lettore come la scrittura di un’utopia politica. Il progetto di
commento integrale concepito da Mario Vegetti, e realizzato con l’edizione
commentata dei dieci libri della Repubblica in sette volumi (1998-2007),
comportava un impegno più che decennale, che doveva concludere il suo personale
percorso scientifico, ma realizzarsi nella forma di un’impresa collettiva: un
seminario permanente sull’interpretazione del monumentale testo platonico che
avrebbe dato vita a un commentario a più voci sul significato del testo. Io non
credo di aver capito subito le implicazioni dirompenti di questo stile di
lavoro, che da un lato si presentava con il tratto comunitario di una scuola,
ma dall’altro non poneva alcuna pregiudiziale o scelta di indirizzo
interpretativo. Come se la verità del testo dovesse emergere direttamente dalla
forza comunicativa della scrittura platonica, in ciascuna delle parti che
sarebbero state affidate ai partecipanti all’impresa.
2. Una lettura di grado zero vincolata solo alla
struttura semantica del testo
Ciò che in realtà era
presente fin dall’inizio, ma che solo progressivamente ho compreso nella sua reale portata di rivoluzione metodologica,
era l’idea di procedere a una rilettura radicale del testo, completamente
fedele alla sua struttura semantica, prendendo sul serio tutto ciò che il
dialogo effettivamente dice, senza omissioni e senza immissioni di concetti e
criteri elaborati a partire da altri luoghi platonici. Che questa fosse la sua
intenzione, Vegetti lo dice con estrema chiarezza, in quella che è forse la sua
ultima presa di posizione in materia di metodo e in difesa della «fedeltà ai
testi», cioè nell’introduzione alla sua ultima raccolta di scritti platonici,
che ha l’impegnativo titolo Il potere della verità (in stampa al momento
della sua morte): «Mi preme soprattutto sottolineare l’esigenza di non
integrare i testi, supplendo a quello che non dicono, e di non
correggere o ignorare quello che invece dicono esplicitamente; si tratterà
piuttosto, nel primo caso di interpretare le ragioni di silenzi e omissioni,
nel secondo di interpretare tesi magari inaccettabili per il lettore».[2]
Ancora più significativo e rivelatore anche delle ragioni extra-filologiche di
questa scelta è ciò che soggiunge subito dopo tra parentesi: «non è detto che
lo studioso di Platone debba condividere tutto ciò che Platone dice: questa
identificazione patologica è il principio e la ragione di tante forzature dei
testi, che mirano a far loro dire ciò che vorremmo dicessero per poter essere
d’accordo. Amicus Plato…».[3]
Che cosa significa ammettere la possibilità di non essere d’accordo con quanto
Platone dice? Significa stabilire un rapporto dialettico, un rapporto di
distanza e non di patologica vicinanza, col testo: chiudere la strada
all’appropriazione indebita con cui ci si mette sotto l’ombrello del principio
di autorità, e sviluppare invece un dialogo onesto e produttivo con ciò che
l’autore trasmette e significa attraverso il testo, entrando in un rapporto
vivo con le sue intenzioni strategiche, sul terreno da lui scelto, che per
Platone è quello caldo e potenzialmente conflittuale della politica. Di qui
l’attenzione estrema al modo di produrre significati della scrittura platonica:
stili linguistici e singole parole, personaggi e dinamiche teatrali, campi
metaforici e strutture argomentative diventavano specifici oggetti di indagine,
senza un ordine ‘filosofico’ di importanza che prefigurasse il rilievo dei risultati
a venire. Una sorta di katharsis, una depurazione da tutte le
incrostazioni ermeneutiche, precedeva idealmente l’apertura del lavoro
analitico, che avrebbe fatto emergere dal testo le sue figure di senso, senza
attribuirgliene nessuna in anticipo. Da vincolo generale funzionava il rispetto
dell’autonomia di ogni singolo libro della Repubblica: l’unità dialogica
cui poteva applicarsi con una certa sicurezza la regola di coerenza che Platone
aveva enunciato nel Fedro, dicendo che ogni discorso ben scritto deve
avere la forma di un «organismo animato (zoon)» (Fedro 264c). Ma
con ben altra cautela, e certo solo dopo lo scavo analitico nei singoli libri,
il modello del ‘corpo vivente’ avrebbe potuto essere applicato all’insieme
della Repubblica. Guidando la ricerca dei punti chiave nella rete
semantica del testo, Vegetti segnalava luoghi e aspetti meritevoli di
particolare attenzione, che si distribuivano tra i partecipanti all’opera
collettiva. Una volta scelto il terreno di indagine, ciascuno aveva libertà di
scavare a piacere in quella particolare zolla. Di anno in anno, sempre più
sorprendente, non prevedibile, quasi interamente privo dei filtri di una
coerenza preordinata o censoria, era il risultato complessivo dell’analisi, che
si prestava a diversi tipi di sintesi.
3. I capisaldi finali dello scavo di Vegetti. Tra κατέβην e κατοικίζειν
Da questa fedeltà alle strutture
semantiche del testo sono emersi quelli che, a lavoro finito, mi sono parsi i
capisaldi del lavoro di scavo che Vegetti ha condotto in prima persona, nel
quadro dell’opera collettiva. Lo troviamo non a caso attento a presidiare i
luoghi di inizio e di fine del discorso con cui Platone dà vita e visibilità al
paradigma di una città «perfettamente buona». Dell’importanza
di questi due punti per la comprensione del disegno e del movimento complessivo
della Repubblica vorrei ora accennare brevemente, per dire in che senso
essi mi si sono rivelati, attraverso l’analisi di Vegetti, dispositivi cruciali
per capire come funziona, a livello teorico e pratico, il paradigma politico
delineato nel dialogo. Letteralmente: per capire come si mette in moto un
paradigma costruito per essere normativo, cioè per dare
una disciplina all’azione. Si tratta in realtà di due parole, tra cui l’intero
lavoro di costruzione teorica si sviluppa. La prima è κατέβην, «scendevo», la prima parola della Repubblica, con cui il
personaggio Socrate enuncia l’azione che lo porterà ad immergersi nel mondo
umano che si raccoglie al Pireo, porto di Atene, ambiente misto di cui dovrà
assimilare fino in fondo gli umori e i conflitti. La seconda è κατοικίζειν, che significa ‘andare ad abitare’ o ‘colonizzare’, usata alla
fine del libro IX per indicare quale sia l’uso possibile del modello, appena
costruito «en logois» (cioè solo a parole e in teoria), di una città che
ora si rende visibile ben in alto al termine del percorso compiuto, come «un
paradigma in cielo». L’attenzione
analitica che Vegetti dedica a queste due parole, il modo in cui riesce a farne
le chiavi di volta di una lettura profondamente politica, teorica e pratica
allo stesso tempo, del testo platonico è qualcosa che non cessa di suscitare in
me la meraviglia: quel tipo particolare di meraviglia che l’interprete prova
quando un particolare rivela d’improvviso il senso dell’insieme; e più
specificamente la meraviglia di scoprire che il potere delle parole non resta
sulla carta, ma va a modificare il senso della realtà.
3.1. κατέβην
La scelta della parola κατέβην, come inizio del racconto di Socrate, non dice soltanto della sua
‘discesa’ al Pireo, dove, sorprendentemente, proprio nella casa di un facoltoso
straniero residente ad Atene (il meteco Cefalo), si svolgerà il dialogo sulla
giustizia nella città. La parola è immediatamente evocativa di un’altra, κατάβασις, la discesa agli inferi, ben presente
nella cultura arcaica come possibilità di accesso a un percorso di iniziazione,
di rivelazione e di possibile rinascita. Attivarne i significati simbolici –
sottolineava Vegetti[4]
– prepara il lettore ad attendersi significati altrettanto profondi e
rivelatori dal percorso, diversamente ‘katabatico’, cui Socrate dà inizio,
disponendo chi legge a comprendere il movimento di discesa e risalita che
caratterizzerà il ritmo del dialogo. La novità di questa discesa socratica, di
cui danno conto i primi tre libri della Repubblica, sarà scoprire che
l’inferno è la selva oscura dei discorsi della città reale: discorsi che hanno
la forza argomentativa del teorema di Trasimaco,[5]
il più agguerrito tra gli antagonisti di Socrate, il quale sostiene la
necessaria dipendenza della giustizia dagli interessi del potere politico (Repubblica
I 338c-339a); o che, appoggiandosi alla naturalità antropologica del
desiderio di sopraffazione, ne fanno una legge che si oppone al debole
artificio delle regole civili, degradando la giustizia a bene di terza scelta,
accettato controvoglia da chi ha l’intelligenza e la forza per prevalere (Repubblica
II 357a-358a). Discorsi disorientanti per il nobile Glaucone, che dichiara
di avere «le orecchie assordate» (Repubblica II 358c8) dal loro
ripetersi e perciò si rivolge a Socrate perché gli dimostri che non è così che
deve pensare. È il suo disagio a vivere immerso nella città reale, dove le
parole e i comportamenti umani offrono continue conferme di uno stato di cose
degradato, che dà il via alla ricerca socratica di un altro modo di pensare la polis,
un modo più aderente a ciò che essa dovrebbe essere per garantire la vera
funzionalità dell’ordine politico. Socrate dovrà regredire fino alle origini
della socialità per rintracciare i moventi arcaici del vivere civile e dare
inizio alla risalita, con l’esperimento teorico che disegna artificialmente una
città degna di questo nome: una polis unita, le cui norme paradossali
contrastano a tal punto quelle su cui si regge la città reale da costituire il
suo virtuale rovesciamento.
3.2. κατοικίζειν
κατοικίζειν è invece la parola con cui la costruzione teorica della kallipolis si
chiude, indicando una prospettiva d’azione che segna in un certo senso il
ritorno alla realtà. La ricostruzione che Vegetti fa del suo significato,[6]
gettando una luce inedita sulla strategia di fondo del dialogo, è forse
l’esempio più efficace di riuscita del suo programma di revisione (o
sovversione) ermeneutica. Il passo in cui la parola κατοικίζειν compare è
quello – sottolinea Vegetti – «su cui hanno da sempre insistito gli interpreti
che tendono a negare, o a ridimensionare, il carattere politico della Repubblica,
e ad accentuarne invece l’interesse per la moralità individuale e
interiorizzata».[7] La parola κατοικίζειν è il cuore della sua ambiguità. Socrate sta rispondendo a Glaucone, che
si domanda dove e come potrà mai fare politica chi, come lui, ha partecipato
alla costruzione teorica della kallipolis, ma pensa che
una città come «quella che sta nei discorsi» non esista «da nessuna parte sulla
terra» (Repubblica IX 492a10). La risposta di Socrate stabilisce uno
stretto rapporto tra visione della città ideale e tipo di azione che ne
consegue: «Ma forse – dissi io – è posta in cielo (en ourano) come un
modello (paradeigma), offerto a chi voglia vederlo (boulomeno horan),
e avendolo di mira (horonti), insediarvi se stesso (heauton
katoikizein). Ma non fa alcuna differenza se essa esista da qualche parte o
se esisterà in futuro: egli potrebbe agire solo in vista della politica di
questa città e di nessun’altra» (Repubblica 592b1-4). La traduzione di
Vegetti, puntigliosamente giustificata sul piano semantico e sintattico, legge
l’indicazione come un invito a trasferire se stessi nel paradigma, e ad agire
in funzione delle norme che esso racchiude, non a «rifondare sé stesso» o
addirittura a «fondare una città in se stesso» (secondo la traduzione
dell’autorevole Adam: «found a city in himself»), come se la cittadella
interiore dell’anima fosse l’unico luogo in cui il paradigma possa realizzarsi.
Nella lettura di Vegetti, le istruzioni per l’uso del paradigma, che Socrate
fornisce al suo interlocutore eccellente, segnalano piuttosto la necessità di
collocare se stessi altrove, ovvero in una prospettiva d’azione diversa da
quelle praticate nella città esistente. La rilevanza della questione, per
comprendere in che senso l’intenzione di Platone resti politica, è così
sottolineata nell’Introduzione a Il potere della verità: «Non si
tratta quindi di passaggio dall’esteriorità politica all’interiorità
dell’anima, ma di dislocazione delle finalità dell’azione politica (ove essa
sia possibile): dalla città storica, per la quale il filosofo non agirà
affatto, all’orizzonte della città utopica, alla cui creazione egli dedicherà
le sue energie» (Vegetti 2018, p. 13).
3.3. Tra le due parole: lo spazio
dell’utopia
È abbastanza evidente ciò che
quell’inizio e questa conclusione riverberano sull’intero spazio racchiuso tra
le due parole, lo spazio occupato nella Repubblica dalla scrittura
dell’utopia: possiamo leggervi il disegno di un paradigma ideale che nasce dal
disagio a vivere secondo le regole (o l’assenza di regole) della città reale e
si sviluppa nella ricerca dei tratti di desiderabilità di una città che
funzioni secondo giustizia; fino a farne un modello perfettamente visibile, che
non ha la funzione consolatoria di una fantasia della mente, ma quella di
stimolo ad agire e di ricerca delle condizioni di efficacia dell’azione
politica. Chiamare ‘utopia’ la kallipolis non è una forzatura rispetto
al testo, che più volte problematizza l’assenza di esempi simili sul piano
dell’esistente e la scarsa probabilità che si dia l’occasione per realizzare
nei fatti quel che si enuncia a parole. Ma l’idea di un uso immediatamente
attivo del paradeigma conferma il significato progettuale e il valore
normativo che Platone attribuisce alla costruzione teorica, vietando di
considerare il suo modello un «pio voto (ευχή)», un ‘castello in aria’, un rifugio per sognatori. La lettura di Vegetti induce a
pensare che la funzione assegnata da Platone alla scrittura dell’utopia sia
piuttosto quella di consentire al soggetto che soffre per il disordine politico
esistente di espatriare, ma in una dimensione praticabile, pensando un altro
ordine come reale e possibile. La teoria, rendendo visibile il «paradigma in
cielo», aiuta a configurarlo e, in mancanza delle condizioni per un’azione efficace, a persistere in quel «diniego del
consenso» alla città esistente, che – scrive Vegetti – «è in ogni caso già un
atto politico».[8]
4. Il valore etico-pratico del Platone
politico
Oltre il distacco dell’interprete, c’era
dunque una consonanza profonda che metteva Vegetti in relazione empatica con
Platone, al di là e oltre ogni punto specifico di disaccordo con lui: la
fiducia nel valore politico della costruzione teorica, che non si misura sulla
possibilità immediata di tradursi in pratica, ma sulla capacità di agire al
livello della “grande politica”, pagando il prezzo della lunga attesa di
momenti opportuni. «Un viaggio di mille anni», diceva Vegetti in un discorso
del 2000, prendendo ancora una volta in prestito una formula platonica, quella
con cui Platone evoca una prospettiva oltremondana alla fine del libro X della Repubblica:
«e così sia qui sia nel cammino di mille anni di cui abbiamo discusso staremo
bene (eu prattomen)» (621d1-3). Con quel discorso, pronunciato alla Casa
della Cultura (e poi raccolto in volume con altri saggi in Vegetti 2007), Mario
prendeva atto della fine di ogni improbabile filosofia della storia e della
rinnovata difficoltà di immaginare forme di azione sul corso del mondo. Ma
concludeva con una singolare risposta alla domanda di sapore kantiano “Che cosa
possiamo sperare?”, e cioè prospettando un paradossale «ritorno all’etica»
nella forma di una pratica dell’utopia: «Intendo con questo la riapertura di un
discorso sulla giustizia, sui valori, sui fini; la decisione di tornare a
pronunciare parole come libertà, uguaglianza, fraternità, di chiedersi che cosa
può essere oggi la virtù – dopo quelle antiche e quelle giacobine – e quale il
suo rapporto con la felicità» (Vegetti 2007, p. 318). Il ‘lungo viaggio’ del
riferimento platonico «porterà forse alla città abitata dal senso e dal
valore», ma avrà bisogno «che qualcuno decida di intraprenderlo, costrettovi
magari dalla desolazione del presente, e questa stessa decisione costituisce
il principio della riconfigurazione di una soggettività progettuale vincolata,
e destinata, a quel viaggio. Se ciò è possibile, allora […] qualche embrione di
quella comunità millenaria dello “star bene” può essere già presso di noi»
(Vegetti 2007, p. 322).
Bibliografia: Annas J. (1997), Politics and Ethics
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platonici, Carocci, Roma 2018.
[1] Vegetti [2010] 2018, p. 61. Sul tema cfr anche Vegetti 2000 a e b,
Vegetti 2005 e la più ampia trattazione storica in Vegetti 2009.
[5] Vegetti 1998b dimostra che hanno la forma di un vero e proprio
teorema le stringenti argomentazioni costruite da Trasimaco a sostegno delle
sue tesi sulla giustizia.
[6] Cfr. Vegetti 2005, in CR vol. VI, libri VIII-IX, con particolare
riferimento al par. 5, Katoikizein, pp. 156-161.
[8] Vegetti 2000, p. 141, ora in Vegetti 2018, p. 160.
Alberto Maffi
Nato a Trento nel 1949, già docente di Diritto greco antico e Storia dei diritti dell’antichità presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Trieste, dal 1994 al 2016 ha insegnato Storia del diritto romano dapprima nel secondo corso di laurea della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Milano, poi nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Milano-Bicocca, presso la quale ha in seguito insegnato Istituzioni di diritto romano e Diritto greco. Ha partecipato a tutti i convegni internazionali (Symposia) di Storia del diritto greco ed ellenistico dal 1974 al 2017. È condirettore della rivista di storia del diritto greco “DIKE” e membro del Comitato di direzione della “Révue d’Histoire du droit français et étranger”. È membro del Collegium Politicum. Ha tenuto corsi presso l’Ecole de Hautes Etudes di Parigi, la Sorbonne e presso l’Università di Shangai. È autore di: «Studi di epigrafia giuridica greca», Milano 1983; «L’iscrizione di Ligdamis,» Trieste 1988; «Ricerche sul postliminium», Milano 1992; «Il diritto di famiglia nel Codice di Gortina», Milano 1998.
L’acceso confronto fra Trasimaco e Socrate nel I libro della Repubblica ha destato in più di un’occasione l’interesse di Mario Vegetti.[1] Vorrei qui ripartire in particolare dall’importante commento che egli ha dedicato alla figura dell’inquietante sofista nel Commento al I libro da lui curato nel 1998. Vegetti ritiene che Trasimaco esponga due tesi distinte. La prima, contrassegnata dalla sigla Ta, riduce to dikaion[2]all’utile del più forte (338 c). Nella seconda, identificata con la sigla Tb, Trasimaco sostiene che dikaiosyne e dikaion sono essenzialmente “un vantaggio per altri” (allotrion agathon), ribadendo che si tratta dell’utile di chi è più forte e (quindi) comanda, mentre si traducono in un danno (blabe) per chi obbedisce e serve. Di conseguenza l’ingiustizia (adikia) è propria di chi comanda a uomini che sono realmente ingenui e giusti, tanto che essi realizzano ciò che risulta vantaggioso per colui che è più forte e, ponendosi al suo servizio, lo rendono felice, ciò che non si può dire di loro stessi (343 b ss.).
La
tesi Ta viene sviluppata da Trasimaco attraverso ulteriori passaggi. Innanzi
tutto occorre tenere presente che esistono tre regimi politici principali: la
tirannide, la democrazia e l’oligarchia (che Trasimaco chiama aristocrazia)
(338 d). In ognuno di tali regimi c’è un elemento dominante, definito appunto to
archon. È attraverso le leggi che ciascuno di questi regimi rende noto agli
archomenoi[3]che
cosa devono considerare giusto, e che coincide con l’utile dei governanti:
coloro che non si adeguano saranno puniti come persone che violano la legge e
commettono un illecito (338 e). Il giusto è dunque ciò che è vantaggioso per l’arche
costituita che ha il potere. Per questo il giusto è in ogni regime ciò che
avvantaggia chi esercita il potere.
Vegetti
sostiene che la tesi Tb non può derivare logicamente dalla tesi Ta,
perché in base a quest’ultima il potere è eticamente neutro, né giusto né ingiusto,
mentre in base a Tb chi comanda è ingiusto. Infatti, proprio perché è più
forte, il detentore del potere finirà col cedere alla pleonexia, quindi
all’ingiustizia. Secondo Vegetti (1998 p. 250), si passa così dal livello
politico alla dimensione morale. E qui Trasimaco, ricorrendo ad argomentazioni
retoriche di stampo tipicamente sofistico, tenterà di rovesciare la valutazione
negativa, che attiene per definizione all’ingiustizia, in una valutazione
positiva.
In
un articolo relativamente recente Franco Trabattoni ha criticato
l’interpretazione di Vegetti in particolare per quanto riguarda la Ta.
Il punto di partenza è dato da Resp. 338 e: θέμεναι δὲ ἀπέφηναν τοῦτο δίκαιον
τοῖς ἀρχομένοις εἶναι, τὸ σφίσι συμφέρον, καὶ τὸν τούτου ἐκβαίνοντα κολάζουσιν ὡς παρανομοῦντά τε καὶ ἀδικοῦντα.
Le
traduzioni di questo brano sono relativamente concordi: le leggi, una volta
promulgate, hanno stabilito nei diversi regimi che è dikaion ciò che è
vantaggioso per i governanti; perciò puniscono chi non vi si attiene in quanto
infrange la legge e commette ingiustizia.[4]
Secondo Trabattoni la legge non determina la natura del giusto e dell’ingiusto,
come vorrebbe Vegetti, ma si incarica di rendere noto il principio secondo cui
il giusto è l’utile di chi comanda. Inoltre la legge esercita un ruolo
coercitivo, costringendo coloro che sono comandati a realizzare la “giustizia”
che essa ha rivelato loro, ossia l’utile dei governanti. Per qualificare la
legislazione nella definizione Ta non si può quindi parlare di
“Rechtspositivismus”, come fa invece Vegetti, perché i governanti non sono
liberi di definire come giusta qualunque cosa piaccia loro definire come tale.
La giustizia non è altro, e non può essere altro, che l’utile, cioè il
benessere, dei governanti. L’unico elemento variabile consiste dunque nel
numero dei beneficiari del comportamento “giusto” dei governati, numero che
varia appunto a seconda del tipo di regime. Se l’ho ben compresa, la critica di
Trabattoni su questo punto non mi sembra convincente. Intanto per rendere noto
che il giusto è l’utile di chi comanda non c’è bisogno di leggi: basta che i
governanti, essendo i più forti, dispongano di adeguati strumenti coercitivi
per assicurare l’osservanza dei loro ordini. In secondo luogo le leggi non sono
generalmente formulate in modo da rendere esplicito che le disposizioni in esse
contenute mirano ad assicurare l’utile dei governanti. Infine l’utile, o, se si
preferisce, il benessere dei governanti non corrispondono a realtà uniformi e
costanti: il benessere degli oligarchi è certo qualitativamente e
quantitativamente diverso da quello che perseguono i regimi democratici.
Quanto
alla tesi Tb, Trabattoni giunge alla conclusione che, se la giustizia è
definita come “il bene altrui”, gli unici che praticano la giustizia sono
appunto i governati, mentre i governanti, che realizzano il bene proprio,
praticano l’ingiustizia. Questa affermazione apodittica (che corrisponde in
effetti a quanto Trasimaco dichiara in 343 b-d) non risolve però l’incongruenza
fra Ta e Tb rilevata da Vegetti. Mi pare che ciò sia confermato
dal fatto che la discussione relativa a Ta, così come Socrate la
imposta, riguarda dapprima la nozione di utile (339 b-e), poi il significato da
attribuire a più forte (341b – 342e), non l’eventuale ingiustizia dei
governanti. Occorre tuttavia considerare che Trasimaco stesso, senza esservi
stato provocato da Socrate, introduce il riferimento all’ingiustizia dei
governanti in 343 c. Viene quindi fatto di pensare che anche in Ta fosse
per lui implicito che il conseguimento dell’utile del più forte realizza
comunque un’ingiustizia. Si tratta di un dato che a mio parere indebolisce la
tesi di Vegetti secondo cui vi sarebbe un’incompatibilità sostanziale fra Ta
e Tb. Ma nemmeno la riduzione ad una coerente unità delle
argomentazioni di Trasimaco, propugnata da Trabattoni, convince del tutto. A
mio parere, infatti, dal discorso di Trasimaco emerge una duplice considerazione
della giustizia. Non parlerei però di due definizioni di giustizia, quanto
piuttosto di due ambiti di applicazione della giustizia. Distinguerei cioè una
giustizia “politica”, che attiene all’archein, più precisamente alla
distribuzione del potere all’interno della cittadinanza, da una giustizia
“civile”,[5] che
attiene ai rapporti fra privati e ai rapporti fra privati e polis. La prima tesi di Trasimaco (Ta)
si riferisce alla giustizia “politica”, mentre la seconda tesi (Tb),
come mostra la lunga e accesa tirata di Trasimaco in 343 b – 344 c, si
riferisce alla giustizia “civile”. Le due definizioni si sovrappongono soltanto
nella figura del tiranno, che incarna il massimo di ingiustizia “politica” e di
ingiustizia “civile” (ten teleotaten adikian: 344a).
Provo
ora a motivare la distinzione tra le due forme di giustizia/ingiustizia.
Nell’illustrare la sua prima tesi, Trasimaco insiste sul fatto che ogni regime
politico emana una legislazione coerente con le caratteristiche che lo
contraddistinguono (338 d-e). Ma Socrate, nel replicare, non si sofferma su
questo aspetto squisitamente politico di Ta. Come ho anticipato, gli
argomenti che Socrate mette in campo per contrastare il suo interlocutore fanno
dapprima un generico riferimento ad archontes e archomenoi, dato
che a Socrate interessa infatti mettere in rilievo la contraddizione logica
derivante dall’ammissione di Trasimaco che gli archontes possono
sbagliare se e quando prescrivano ciò che non è loro utile (339 d). In una
seconda fase Socrate ricorre al paragone con il medico e il capitano della nave
per dimostrare che anche il governante persegue l’utile dei governati (342 c).
Ciò conduce quasi inevitabilmente a identificare gli archontes con i
governanti in senso stretto, ossia con la ristretta élite che ricopre le
magistrature supreme in qualsiasi tipo di regime. Tuttavia, se teniamo presente
che Trasimaco ha incluso anche l’oligarchia e la democrazia fra i regimi che
attuano una giustizia “politica”, dovrebbe risultare chiaro che, tanto nei regimi
oligarchici quanto, a maggior ragione, nei regimi democratici, gli archontes
non si identificano soltanto con i magistrati bensì includono l’intera
componente della cittadinanza che detiene il potere.[6]
Quanto alla giustizia “civile”, gli esempi con cui Trasimaco illustra Tb sono
riferiti appunto, da un lato, ai rapporti obbligatori di natura privata,[7] e,
dall’altro, ai rapporti con la città (en tois pros ten polin: 343 d): in
entrambi i casi si tratta quindi di situazioni e di comportamenti che prescindono
dalla natura del regime politico in cui si verificano.
Nell’esposizione
di Platone i due ambiti di applicazione della giustizia/ingiustizia, che
ritengo si possano identificare nel discorso di Trasimaco, tendono però a
confondersi e a sovrapporsi, perché, così come era accaduto per Ta,
anche con riferimento a Tb le argomentazioni di Socrate non entrano nel
merito dei contenuti esposti da Trasimaco. La Politica di Aristotele
consente forse di mettere meglio a fuoco sia le posizioni sostenute da Trasimaco
sia la critica che di esse svolge Platone. Infatti, benché Aristotele non citi
mai Trasimaco, ritengo che alcuni tratti distintivi della sua indagine sulle
costituzioni si possano considerare direttamente ispirati dal dibattito della Repubblica
fra Socrate e Trasimaco.[8]
Prima di tutto va osservato che per Aristotele ogni regime politico emana una
legislazione adeguata alle caratteristiche e allo scopo che lo
contraddistinguono. Non solo, ma Aristotele sottolinea che la solidità del
regime, riferendosi in particolare a oligarchia e democrazia, dipende
soprattutto dalla partecipazione attiva e consapevole alla cosa pubblica dei
cittadini di pieno diritto. Di qui la distinzione fra il buon cittadino, che
pensa e agisce in modo consono al regime in cui vive, e l’aner agathos che
conforma il suo agire ai dettami della giustizia intesa come virtù perfetta.[9]
Ora, per quanto riguarda le legislazioni, in uno dei suoi ultimi lavori[10]
Vegetti ha sottolineato che, per Aristotele, tutte le legislazioni vigenti nei
regimi attualmente esistenti devono essere considerate ingiuste (Arist. Pol.
1282 b 8-13) in quanto non perseguono il bene comune. Ciò implica che
favoriscano l’elemento dominante in perfetta corrispondenza con la prima tesi (Ta) di Trasimaco: dunque chi vuol essere
“buon cittadino” non può evitare di praticare l’ingiustizia “politica” nei
confronti di quella componente, libera e formalmente inclusa nella
cittadinanza, della popolazione che è esclusa, o si autoesclude, dalla gestione
del potere. Aristotele scioglie così l’ambiguità insita nelle nozioni di “più
forte” e di “chi comanda” che si riscontra nella discussione di Ta fra Socrate e Trasimaco. A mio parere
nel confronto fra Socrate e Trasimaco c’è anche un altro elemento che trova
riscontro nella Politica aristotelica.
A partire da 351c inizia una sezione della confutazione socratica in cui
Socrate ritorna alla dimensione politica chiedendo a Trasimaco: “Ti pare che
una città o un esercito o dei briganti o ladri […] che si propongano in comune
qualche impresa ingiusta, possano combinare qualcosa se si fanno ingiustizia
gli uni con gli altri?” (trad. Gabrieli). La risposta è negativa, perché, se
così fosse, ne nascerebbero odio, scontri e in definitiva la stasis, la
guerra civile (351 d). Di conseguenza ottiene (implicitamente) l’adesione di
Trasimaco all’affermazione che, quando gli ingiusti hanno intrapreso un’azione
comune, non possono aver praticato un’ingiustizia assoluta, ma hanno dovuto
trattenersi e accondiscendere reciprocamente a una certa dose di giustizia. Con
riferimento alla città, ciò si deve intendere riferito non solo ai rapporti fra
coloro che esercitano il potere, ma anche nei confronti di coloro che ne sono
esclusi, dato che, se così non fosse, non si potrebbe parlare di un’iniziativa
di una città. Aristotele riprenderà questo spunto platonico trasformandolo
nella proposta di accorgimenti di ingegneria costituzionale per evitare che un
regime (come sappiamo, di per sé ingiusto) accentui i suoi caratteri distintivi
fino a provocare una rottura insanabile al suo interno con conseguente rovina
del regime stesso (Pol. 1298b con particolare riferimento agli organi
deliberativi, su cui v. Maffi 2016).
Per
quanto riguarda la pratica della giustizia “civile”, questa discende dalla scelta
personale di ciascuno, la quale dipenderà a sua volta soprattutto dall’educazione
ricevuta.[11]
Normalmente, a proposito della Politica aristotelica, si contrappone la dimensione
politica del buon cittadino (buono – spoudaios – in quanto coerente nel
pensiero e nel comportamento con il regime di cui è parte attiva) alla
dimensione etica dell’uomo buono (aner
agathos). Ed è effettivamente riconducendo la discussione al piano etico
che Socrate controbatte Tb, ossia la seconda esternazione di Trasimaco (343b –
344c). Socrate contrappone infatti la giustizia intesa come virtù (arete)
all’ingiustizia intesa come vizio (kakia) (348c). Ma Trasimaco non
intende seguirlo per questa via: per giustizia intende euetheia (dabbenaggine),
e per ingiustizia intende euboulia (la capacità di prevedere e decidere
con intelligenza); ovvero, per esprimersi in italica Umgangssprache, contrappone i fessi ai furbi, arrivando ad
apprezzare in questa prospettiva, sia pure con un certo imbarazzo, anche i
tagliaborse, in quanto si dimostrino abbastanza furbi da non farsi scoprire
(348 c-d). Questo costringerà Socrate a “dimostrare” che l’uomo ingiusto è
anche ignorante (349e ss.). L’uomo buono aristotelico non è dunque soltanto
colui che pratica la virtù, ma anche colui che si astiene dal compiere azioni
malvagie secondo quanto già enunciato da Aristotele nell’Etica Nicomachea (EN
1129b 14-25).[12]
Quindi l’uomo “buono” si potrà trovare anche nei regimi deviati nei limiti in
cui il sistema educativo non baderà soltanto alla formazione di una mentalità
conforme al regime vigente (Pol.
1310a 12 ss.). Tuttavia la coincidenza tra le due figure sarà garantita solo
nella polis ideale teorizzata nei libri VII-VIII della Politica.
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M. Vegetti 20182, I fondamenti del sapere politico. Aristotele contro Platone?, in “Teoria Politica” N.S. >/ Annali VIII, 2018, pp. 23-34.
[1] Mi
riferisco in particolare a Vegetti 1998 e 2018¹.
[2] Occorre
ricordare che l’aggettivo sostantivato può indicare tanto ciò che è giusto
quanto ciò che è conforme al diritto vigente.
[3] In
italiano è abituale tradurre archomenoi con sudditi – v. lo stesso
Vegetti, Commento, p. 240. Ora, è vero che in relazione ai governanti
più forti, coloro che sono tenuti a obbedire ai loro ordini sono definiti
inferiori o più deboli; ma, tenendo conto che fra i regimi presi in
considerazione da Trasimaco c’è anche la democrazia, caratterizzata per
definizione dall’alternanza dei cittadini nelle magistrature, mi pare meglio
tradurre “i governati”.
[4] Ho
volutamente evitato di tradurre dikaion, perché a mio parere qui
significa insieme giuridicamente vincolante e, di conseguenza, giusto: la
coesistenza dei due significati nel medesimo termine (v. n. 2) è confermata
dalla presenza dei due participi paranomounta e adikounta.
Aggiungo, ma è un punto che andrebbe naturalmente approfondito, che
verosimilmente Socrate non si riferisce solo al dettato di legge, ma anche alle
decisioni degli organi deliberativi e alle ordinanze dei magistrati: in questo
senso mi sembra deponga l’uso dei verbi prostatto e keleuo.
[5] Per
quanto riguarda la giustizia “politica” adopero questa qualifica in senso
diverso da Vegetti 2016, p. 192. Per quanto riguarda la giustizia “civile” non
mi riferisco ovviamente alla “giustizia civile” in senso tecnico, dato che,
valutando dal dal nostro punto di vista, Trasimaco si riferisce soprattutto
alla giustizia penale. Occorre tuttavia considerare che nella lista di
delinquenti, che troviamo in 344 b, compaiono anche gli aposteretai. A
mio parere questo termine è da mettere in relazione con il verbo aposterein,
che negli oratori designa l’inadempimento contrattuale.
[6] Ce
lo conferma il fatto che in particolare i magistrati di un regime democratico
non si possono certo definire “più forti” del resto dei cittadini, se non
nell’ambito delle competenze coercitive che la legge conferisce loro.
[7]Tois
pros allelous symbolaiois (343
d) viene in genere riferito nelle traduzioni a rapporti contrattuali. Ma symbolaion
va qui considerato un sinonimo di quei synallagmata che in EN 1131
includono le obbligazioni derivanti sia da atto lecito che da atto illecito.
[8] Sugli
echi del discorso di Trasimaco in Aristotele si veda De Luise 2015, pp. 52 ss.
[11] Si
vedano Vegetti 2016 cap. XII, e Gastaldi 2017.
[12] Vegetti 2018², p. 30-31, scorge una contraddizione fra il canone di giustizia come virtù, rappresentato dal nomos in EN 1129b 14-25, e l’attribuzione a tutti i regimi costituzionali esistenti di una legislazione ingiusta. Mi sembra, però, che proprio il confronto con le due prese di posizione di Trasimaco nella Repubblica (Ta e Tb) consenta di comprendere che le leggi qualificate “ingiuste” nella Politica non riguardano il comportamento quotidiano del cittadino nei suoi rapporti con i concittadini e con la città, ma riguardano le strutture costituzionali (ho tentato di dimostrare quest’opinione in Maffi 2018).
Fulvio Papi
Filosofo, politico, scrittore e giornalista italiano. È stato direttore del quotidiano del Partito socialista italiano Avanti!. Studia a Milano, a Stresa sul Lago Maggiore negli anni della seconda guerra mondiale, poi di nuovo all’Università di Milano fino alla laurea nel 1953. Politicamente attivo nella corrente lombardiana del PSI, segue un percorso che lo vedrà varcare le porte del Parlamento ed assumere la vice-direzione dell’Avanti!. Nel 1963, sospettando un aumento del tenore affaristico nella politica – così come lui stesso dichiara in un’intervista del 1989 – abbandona bruscamente tutto e si dedica all’insegnamento universitario che lascerà solo nel 2000. È insignito nello stesso anno del titolo di Professore Emerito dall’Università di Pavia e dell’Ambrogino d’oro. Nello stesso anno 2000 fonda inoltre la rivista di filosofia Oltrecorrente, che tuttora dirige. Con Mario Vegetti, Franco Alessio e Renato Fabietti, ha curato inoltre, per l’editore Zanichelli, il manuale di filosofia per i licei, in tre volumi, Filosofie e società.
E
sempre molto difficile trovare per un intellettuale di primo piano una
definizione che sia, almeno approssimativamente, adeguata. E questo accade pure
nel caso del mio carissimo amico perduto Mario Vegetti, ellenista di fama,
filosofo per una fine educazione intellettuale. Mario Vegetti avrebbe potuto
essere compreso alla luce dell’inattualità. Significato che non serve per
nostalgie di altre epoche costruite con una immaginazione perita, ma che vuole
indicare solo lo stile di uno studioso della cultura greca che ha saputo
ereditare le virtù fondamentali della modernità, abbandonando il superfluo, il
manierato, l’esibizionismo, il catastrofico, lo spettacolare, per valorizzare –
al contrario – il lavoro tenace e amato, la coerenza morale della propria vita,
il necessario riserbo critico della ricerca, i risultati storici controllati
con un metodo in via continua di perfezionamento: una figura pubblica costruita
su questo sfondo. Né va trascurata la sua sensibilità etica per le sorti collettive
e sociali che furono di un comunismo privo di compromessi, sino a una razionale
saggezza che era il modo per rispondere alle trasformazioni del mondo che
invitano a complesse dimensioni analitiche della conoscenza e a una figura
completamente trasformata della soggettività nella sua capacità potenziale.
Naturalmente
ci sono eccezioni, e anche pregi e ricerche che hanno trovato il loro spazio,
ma il mondo culturale della contemporaneità, nei suoi effetti più rilevanti,
sembra divaricato tra un uno specialissimo puntiglioso fine a se stesso – che
quindi studia i fenomeni della cultura come fossero raccolte di minerali – e,
al contrario, un costume dominante che desidera proseguire solo l’effetto del
consenso, il battimani pubblico con i vantaggi che ottiene l’abilità dello
spettacolo. “Taglia e incolla”, ho letto in una importante rivista. Le culture
hanno sempre avuto i loro luoghi dominanti, i poteri conformisti, le loro
pratiche condivise. Ci vuol poco a immaginare che cosa accade in uno spazio dominato
dal mercato e dalla comunicazione di superficie. Si diffonde una innocente
corruzione.
Mario
appartiene, all’opposto, a quelle virtù della modernità che sono il rigore nel
proprio lavoro, il desiderio che esso sia comparato a un “meglio possibile”, a
un amore e a una dedizione a questi compiti, a una presenza sociale laddove
questo stile veniva apprezzato per i suoi risultati, e l’autore era un
personaggio pubblico stimato per quanto aveva saputo dare di se stesso.
Sembrano banalità, ma – al contrario – segnano uno spazio positivo che ha
salvato se stesso dalle tragedie, dai conflitti, le violenze, le imposture, i
ludi del Novecento e della sua crisi. Sapere conservare questo spazio nel mondo
attuale richiede una scelta di sé che diviene una spontanea e quasi
inconsapevole virtù. Mario era fatto proprio così, e la sua frequentazione era
un’offerta di senso che doveva avere qualcosa di simile…
Il
soggiorno al mare era la forma di riposo amata nel suo semplice privilegio,
come per Banfi, Cantoni, Paci, Fornari, Sereni, Fortini e (si parva…) io
stesso. Mario era un poco più moderno e voleva vivere il mare con una
condivisione più intensa. Si era comperato una barca che non ho mai visto, ma
che mi è stata presentata all’Università in un modo sconcertante. Mario mi
disse: «D’ora in poi chiamami ammiraglio».
La
sua filosofia nasceva certamente in un ambito razionalista. Non l’ho mai
sentito discutere il mondo greco “alla Nietzsche” e secondo i suoi non
entusiasmanti epigoni toccati dall’onda verbale di Heidegger. La sua tesi su
Tucidide voleva mostrare, tra l’altro, il processo di razionalizzazione della
narrativa storica greca. Questa misura razionalistica non lo lasciò mai,
comunque fu il modo sapiente attraverso cui Mario ampliò e perfezionò con
successo il suo stesso comprendere storico attraverso i nuovi strumenti che
nascevano nella cultura contemporanea: la complessa riflessione sul linguaggio,
il patrimonio semiologico, una sociologia capace di ascoltare il timbro vivente
dei suoi oggetti, una trasformazione della ricerca storica molto meno
“categorizzante” e sempre più prossima alle forme, alle istituzioni, alle
consuetudini, agli stili della vita quotidiana, alla distribuzione sociale dei
poteri, alla diffusione delle credenze. Era da questo panorama complesso che
prendeva esistenza e forma la parola filosofica.
Ho
sempre pensato quanto fosse difficile lavorare storicamente su un testo facendo
centro su tutte queste prospettive. Ne derivava un tessuto obiettivo e vivente,
quel tessuto che, in luoghi diversi, mantiene sempre la sua figura di senso ed
evita quelle interpretazioni che fanno solo una storia delle idee e non della
soggettività vivente che rende possibile trasferire il discorso in uno spazio
ideale, anch’esso vittima inevitabile del tempo, anche se, attraverso il tempo
stesso, poteva far giungere la sua voce, simile in questo alla trasformazione
dei miti.
È
molto facile, sulla scorta di indiscutibili classici (Hegel, Husserl, se non
sbaglio Russell)
sostenere che Platone segna la nascita della filosofia, ma più arduo compito è
indagare come nasce, attraverso
quali processi, quali domande, quali personaggi, attraverso quali saperi –
dalla matematica alla medicina – quali eredità, quali fini, quali conseguenze
“scolastiche”, quali appropriazioni o dispute politiche. Nel complesso una
pluralità di “sentieri” da percorrere e da coordinare. E questo era il pregio
dello straordinario libro di Mario di saggi platonici al termine della cui
lettura veniva spontaneo pensare che la filosofia fosse la modalità
intellettuale che sapeva discorrere su una pluralità di esperienze di una
cultura ampia, complessa, anche professionalizzata secondo un proposito di
verità – non la verità, ma al fine della verità.
Eppure,
come un’abitudine un poco perversa ma difficilmente ignorabile, anche quella
sera alla Casa della Cultura, quando
si discuteva il libro di Mario, risorse la domanda: ma quale è la filosofia di
Platone? Come se esistesse il rapporto tra un oggetto e una mente con un suo
nome. Quando toccò a me rispondere feci il nome di Natorp quale interprete più
attendibile. Mario mi rispose con un sorriso che voleva dire: «che altro ci si
poteva aspettare da te che in fondo non hai mai abbandonato il neo-kantismo di
Banfi». Certamente parlavo più della filosofia contemporanea che di Platone.
La
lettura della Repubblica nell’edizione critica di Mario con la sua
scuola, era, detta in breve, una lezione sui “come” si debbano leggere le opere
di filosofia, ciascuna nella sua differenza. E quindi la Repubblica come
un testo dove appaiono dottrine, personaggi, stilemi letterari, momenti
narrativi, professioni, pregiudizi, potenze e tant’altro. Per non pochi è un
avvertimento contro l’effimera felicità della generalizzazione.
Sul demos – spregevole per Platone – non c’è
molto da discutere, ma sulla impresa costruttiva della polis, ordinata
secondo una costituzione che impedisce il conflitti interni, c’è sempre il
solido e motivato giudizio dell’utopia. Ebbene, Mario ci portava a leggere con
attenzione per comprendere che Platone voleva dire che “per ora” il suo
progetto non era attuabile, ma forse un tempo… Devo dire che se il “forse” è
molto problematico: non provo una grande simpatia per autori come Popper (Mill
è un’altra cosa) che oppongono la libertà individuale delle democrazie allo
statalismo del filosofo greco. Mario non amava la democrazia liberale. E
anch’io, visto dove è finita la democrazia alla prova di un capitalismo
mondiale e della formazione di élite politiche impresentabili, ne apprezzo solo
il fatto che il privato si può difendere sia dal mercato che dalla
comunicazione. Fino a quando? A che prezzo? Qui si apre una voragine che Mario
aveva valutato positivamente in un mio breve e lontano studio. Preferisco
concludere dicendo che “il Vegetti” con la sua edizione della Repubblica ci
ha regalato una dei più preziosi gioielli della nostra biblioteca.
Mario
era comunista, com’era probabilmente suo destino poiché proveniva da una
famiglia nella quale il padre, negli anni Venti, fu uno dei primi militanti del
nuovo partito della sinistra, il fratello un valoroso partigiano, la sorella
(che Franco Fergnani mi presentò nel ‘50-‘51) godeva già di un prestigio
personale nel partito. A me, all’origine del nostro sempre felice rapporto, il
suo stile militante richiamava più il radicalismo bordighiano dei primi anni
Venti, piuttosto che la riflessione gramsciana che apprendevamo dalla prima e
scorretta (come sappiamo tutti) edizione di Einaudi. Ma di questi problemi in
realtà non ne abbiamo parlato mai. Forse la politica quotidiana copriva il
tessuto della vita. Mario sapeva della mia appartenenza socialista, anche se
non è mai stato attento alla sconfitta che nel ‘64 avevamo subito noi del
gruppo dei “riformisti rivoluzionari”, come qualcuno poi ci chiamò. Fummo
sconfitti da una potente coalizione (politici, potere industriale, apparati
dello Stato), ma certamente ne esageravo le proporzioni, e sono certo che già
da allora il PCI non vi diede gran peso nella sua visione storica.
Il
comunismo di Mario era una fede rigorosa, militante e identitaria, e ogni tanto
mi regalava qualche battuta ironica, ma priva di qualsiasi animosità. In realtà
della condizione storica della nostra sinistra non parlavamo mai. Il perché
forse porterebbe lontano; vale di più dire che tra di noi c’era un silenzio
sotterraneo che comunque sottintendeva un “insieme”. Così avvenne al tempo
della contestazione studentesca, anche se Mario era molto più esposto, con una
positiva partecipazione politica che l’aveva allontanato dalla posizione del
PCI per assumere le posizioni più rigorosamente marxiste dei “radiati” del
Manifesto.
Fu
una linea e una elaborazione politica che segnò una considerazione della
“verità” marxista per molti anni. A me ora quell’esperienza fa venire in mente
lo stile del primo «Ordine nuovo», quello torinese del 1919: una rinascita.
Nella contestazione fummo insieme soprattutto per mantenere la conflittualità
nell’interno dell’Università senza interventi autoritari o polizieschi, contro
qualche imbecille che avrebbe desiderato applicando le “leggi vigenti” come se
non si trattasse di una complesso fenomeno sociale, ma di un episodio di comune
delinquenza. Tra noi c’era qualche differenza strategica, Mario più radicale,
io molto più prudente. Il fatto era che “il Vegetti” ci metteva l’animo di un
comunista rivolto alla speranza, io quella di un riformista sconfitto che
rifletteva sulle ragioni della disfatta. Altri tempi, altre passioni.
Quale qualità d’anni passò da allora ad adesso (quasi mezzo secolo!) in qualche modo è noto. Mario però la sua partita con il senso della vita la vinse del tutto. Ampliando la sua ricerca, con lo stile che ha cercato di ricordare, divenne un maestro della cultura ellenistica che varcava le nostre frontiere: era il suo modo di mantenere la sua intransigente virtù dell’inattuale. Non ho mai sentito un suo discorso che varcasse quella soglia: “plebeo” era un aggettivo suo che segnava un altro confine, dove trionfavano gli eccessi ludici, le falsificazioni culturali i narcisismi sfrenati, gli individualismi ottusi. Personalmente era l’interlocutore cui forse tenevo di più, proprio perché sapevo che avrebbe condiviso il mio fare filosofico, anche se molto meno i soggetti della “crisi” con i quali dialogavo. Sarà così. Ma per il tempo che resta Mario è rimasto con me, con noi. «Non essere noioso, Fulvio».
Michelangelo Bovero
Michelangelo Bovero (1949) è Professore ordinario di Filosofia politica all’Università di Torino. Nel suo itinerario scientifico ha coniugato lo studio dei classici antichi e moderni con l’analisi delle teorie e dei problemi politici contemporanei, dedicandosi in particolare ai temi della democrazia e dei diritti fondamentali. È direttore della rivista internazionale «Teoria politica» e della «Scuola per la buona politica» di Torino. È membro del Comitato scientifico della rivista «Ragion pratica». Dal 1981 ha guidato numerosi gruppi e programmi di ricerca nazionali e internazionali nel campo della teoria politica. Tiene periodicamente conferenze, seminari e cicli di lezioni presso numerose Università e Istituzioni culturali in Europa e in America. È autore di oltre 300 pubblicazioni scientifiche.
Ho conosciuto Mario Vegetti
piuttosto tardi: una ventina d’anni fa, nel 1997. Ci eravamo già incrociati più
volte anni prima, in occasione di alcuni seminari in Fondazione Feltrinelli,
alla metà degli anni Settanta. Ma il vero e proprio incontro avvenne a Torino,
nell’ambito di un’iniziativa organizzata dall’Unione culturale Franco
Antonicelli – istituzione “cugina”, o forse gemella, della Casa
della cultura milanese. Si trattava di un ciclo di incontri originale e un
po’ stravagante, intitolato «Vino, poesia e virtù».
Ho ritrovato la locandina, anch’essa piuttosto originale. Per
illustrare l’iniziativa, gli organizzatori prendevano spunto da un breve
“poemetto in prosa” – così lo definivano – di Charles Baudelaire, intitolato Ubriacatevi.
Ecco il testo riprodotto sulla locandina:
«Bisogna sempre
essere ebbri. Ecco tutto: è l’unica questione. Per non sentire l’orribile
fardello del tempo che spezza le vostre spalle e vi piega verso terra, dovete
ubriacarvi senza tregua. Di che? Di vino, di poesia, di virtù, a vostro
piacimento. Ma ubriacatevi. E se talvolta, sui gradini di un palazzo, sull’erba
verde di un fossato, nella cupa solitudine della vostra camera, vi risvegliate,
essendo già l’ebbrezza scomparsa o diminuita, chiedete al vento, all’onda, alla
stella, all’uccello, all’orologio, a tutto ciò che fugge, a tutto ciò che geme,
a tutto ciò che rotola, a tutto ciò che canta, a tutto ciò che parla, chiedete
che ora è; e il vento, l’onda, la stella, l’uccello, l’orologio vi risponderanno:
“È l’ora di ubriacarsi!”. Per non essere schiavi martirizzati del tempo,
ubriacatevi senza posa! Di vino, di poesia o di virtù, a vostro piacimento».
A ragionare – sobriamente
– di virtù, anzi, della regina delle virtù, la giustizia, fummo invitati, in
coppia, Mario Vegetti ed io (ma ho sempre avuto il sospetto che chi aveva avuto
l’idea di invitare me a questo ciclo avesse pensato non alla mia identità
filosofica, bensì a quella etilica). Ci mettemmo d’accordo: Mario avrebbe
parlato di Platone, l’amicus Plato, in particolare sarebbe partito dalla
ricostruzione del discorso di Trasimaco nel primo libro della Repubblica;
io avrei parlato di Aristotele, del quinto libro dell’Etica Nicomachea.
C’era un folto pubblico, richiamato dalla presenza di Vegetti. Molti, credo, si
aspettavano un confronto tra l’antico e il moderno, anzi il contemporaneo: tra
l’antichista, amico di Platone, e il filosofo politico che, in quanto tale, si
dava per scontato (allora) fosse amico di Rawls, sintonizzato con la cosiddetta
“filosofia della giustizia” rawlsiana e post-rawlsiana. E invece no, chi aveva
queste aspettative rimase deluso. Come diceva Bobbio – e io ripetevo spesso, in
tutte le occasioni – «non siamo nati ieri». La filosofia politica non è nata
nel 1971, anno di uscita della Theory of Justice di John Rawls. Se si
vuole un dialogo fecondo e pertinente, è opportuno mettere a confronto Platone
con Aristotele, che rispondono alla provocazione di Trasimaco in due modi
differenti.
Fu così che in
quell’incontro del 1997, Vegetti si dedicò a chiarire le due tesi-definizioni
di giustizia (meglio: di “giusto”, to dikaion) sostenute da Trasimaco
nel contraddittorio con Socrate: la prima, che dikaion-“giusto” sia to
tou kreittonos sympheron, “l’utile del più forte”; la seconda, che sia allotrion
agathon, “bene altrui”. Mise in luce la debolezza delle prime risposte di
Socrate, ma sottolineò l’efficacia dell’ultima, secondo cui anche una banda di
malfattori ha bisogno al proprio interno di giustizia, la quale pertanto non si
risolve semplicemente nell’utile del più forte; e fece infine osservare che
stranamente questo argomento non viene più ripreso in modo esplicito nello
sviluppo del dialogo.
Per parte mia,
proposi un’interpretazione del quinto della Nicomachea secondo cui
Aristotele non respinge le tesi di Trasimaco come tali, anzi le accoglie
entrambe, valorizzando soprattutto la seconda, ma nega la necessità delle
implicazioni che Trasimaco ne trae: per Aristotele non è vero che l’utile della
kathestekuia arche, del potere costituito, implichi necessariamente il
danno dei subordinati, degli archomenoi; e non è vero che il bene
altrui, in cui si risolve la giustizia, implichi necessariamente il male del
giusto, di chi agisce secondo giustizia. Ne seguì una vivace discussione.
Durante la quale, incorsi in una excusatio non petita. Rivolgendomi al
pubblico, dissi: «Tenete sempre presente e abbiate ben chiaro che l’antichista
“vero” è Mario Vegetti. Nella lettura dei classici antichi io sono solo un
dilettante, un amateur, che dunque rischia spesso di dire sciocchezze
per carenza di paideia adeguata; ma che ha tuttavia imparato dal suo
maestro, Norberto Bobbio, a ragionare di politica, a “pensare la politica”,
partendo dalla riflessione sul pensiero dei classici, antichi e moderni».
La mia
frequentazione di Mario Vegetti, il dialogo con Vegetti nei vent’anni
successivi è stato per me un formidabile aiuto a pensare la politica. Una volta
glielo dissi, gli dissi proprio così: tu mi fai sempre pensare. Cerco di
spiegare ciò che intendo. Nell’analisi, nell’interpretazione e nel commento dei
classici, dell’amicus Plato e degli altri grandi (o meno grandi)
scrittori antichi, Mario Vegetti è sempre rigorosissimo, ligio a canoni
puntigliosi di acribia storica e filologica. Non indulge mai a facili
attualizzazioni del discorso degli antichi. Tuttavia, il modo in cui li fa
rivivere, ricostruendo e restituendo il senso dei loro testi, mette di fronte
al lettore (e all’ascoltatore) veri e propri paradigmi di pensiero,
argomenti e argomentazioni che appaiono subito esemplari: quasi modi della
ragione, che contengono in nuce la possibilità di ripresentarsi
sotto altre forme in altri mondi possibili, oltre al mondo reale nel quale sono
nati.
Qualche tempo dopo
quel nostro primo incontro-dialogo, invitai Vegetti a tenere una lezione nel
mio corso di Filosofia politica, dedicato quell’anno ai problemi della
democrazia. Mario presentò, anzi fece rivivere la critica platonica della
democrazia nell’VIII libro della Repubblica. Senza alcun cenno di
attualizzazione. Non ce n’era bisogno, per rendersi conto della fecondità
dell’analisi di Platone, dell’efficacia dei suoi quadri concettuali – per
l’appunto – paradigmatici.
In un’occasione
successiva ci ritrovammo invitati, un’altra volta in coppia, al “festival
Filosofia” di Modena, intitolato in quell’edizione al tema della “comunità”.
Vegetti offrì una ricostruzione del rapporto nella teoria platonica tra l’anima
individuale e il collettivo politico, la città, e tra i tipi antropologici di
cittadini e le forme di politeia. Prendendo la parola dopo di lui, io
presentai una ridefinizione del concetto di democrazia, delle sue condizioni in
senso logico, ossia le condizioni di libertà ed eguaglianza alle quali ha senso
riconoscere un regime come democratico, e delle sue condizioni in senso
clinico, cioè delle degenerazioni attuali della democrazia (eravamo nel 2008).
La simmetria tra le due relazioni – non voluta, non cercata, non prestabilita –
risultò a tutti evidente e fu feconda per una discussione unitaria.
Nei giorni
successivi, mi misi a pensare alla relazione che avrei dovuto presentare di lì
a poco alla “Feria del libro” di Guadalajara (dove poi, mi piace qui
ricordarlo, incontrai inopinatamente Eva Cantarella). Rilessi gli appunti che
avevo preso alla lezione modenese di Vegetti. Il paradigma della simmetria tra
l’anima e la città mi suggerì e mi stimolò a costruire una fenomenologia delle
specie di cittadino nella democrazia degenerata. Decisi di intitolare la mia
relazione – era uscito da non molto il film di Almodovar — La mala educación
del ciudadano. Ne Il futuro della democrazia Bobbio aveva indicato
nel «cittadino non educato» l’esito della sesta promessa non mantenuta della
democrazia, e ne aveva identificate due specie, il cittadino apatico e il
cittadino cliente. Le figure del «cittadino maleducato» dei nostri tempi sono
peggiori e più numerose, anzi continuano a crescere e a peggiorare. La prima
delle sei o sette che provai a delineare dieci anni fa, dopo aver recuperato e
rimeditato quegli appunti modenesi, aveva un netto sapore platonico: il
cittadino sfrontato e protervo, che si compiace di chiamare libertà la
trasgressione delle regole della convivenza civile. Raccontai a Mario che
l’idea mi era venuta proprio ripensando alla sua lezione modenese. Ecco quel
che intendo per “pensare la politica con Mario Vegetti”.
Negli ultimi sette
o otto anni, gli incontri con Vegetti si sono moltiplicati, diventando anzi una
consuetudine di frequentazione, grazie a un’iniziativa che abbiamo promosso
insieme Fulvia de Luise ed io: una serie di seminari alternati, a Trento e a
Torino, che abbiamo concepito come un confronto e un dialogo tra studiosi del
pensiero antico, prevalentemente di scuola vegettiana, e filosofi politici,
prevalentemente di scuola bobbiana, preoccupati con i problemi del presente e
orientati ad affrontarli anche attraverso la lezione dei classici.
L’ultimo di questi
incontri avvenne a Torino, nel maggio del 2017. Fu dedicato ai principi e
fondamenti del sapere politico in Aristotele; fu pensato anche come
un’occasione per promuovere l’edizione Bertelli-Moggi della Politica,
tuttora in corso di completamento. Le relazioni sono state pubblicate nella
prima sezione del volume VIII, 2018 della nostra rivista torinese, Teoria
politica. Mario Vegetti non ha potuto vederlo. Permettetemi di concludere
riprendendo una pagina del mio editoriale a questo volume: La prima sezione,
intitolata Aristotele. I fondamenti della politica, trae origine dal
seminario svoltosi a Torino nei giorni 11 e 12 maggio del 2017, nel quale
alcuni studiosi della cultura classica hanno aperto un confronto con filosofi
non specialisti del mondo antico intorno alla natura della politica, del
potere, della costituzione, della cittadinanza, della democrazia, a partire dal
pensiero di Aristotele e in particolare dal libro III della Politica. Il
confronto fu avviato da Mario Vegetti, con un’analisi di amplissimo orizzonte e
lucida profondità sulla concezione aristotelica dei fondamenti del sapere
politico, nella sua tensione con la concezione platonica. Mesi avanti, Vegetti
aveva accolto l’invito ad aprire il seminario con qualche preoccupazione ma
senza esitazioni: la proposta del tema lo aveva convinto. Durante l’incontro,
in un momento conviviale, mi disse sottovoce che era molto contento di essere
giunto all’appuntamento torinese con la nostra piccola comunità di dialogo.
Animò il dibattito dopo ogni relazione. Fece commenti e osservazioni puntuali
ad Alberto Maffi, impegnato a dipanare le intricate argomentazioni di Aristotele
su politeia, politeuma e legislazione; a Silvia Gastaldi, che
affrontava il tema del kyrion, centrale nel libro III; a Lucio Bertelli,
che si dedicava a ricostruire il complesso pensiero aristotelico sulla
democrazia; a Fulvia de Luise, che riesaminava, con tesi da lui giudicate
«innovative», il controverso problema del rapporto tra uomo buono e buon
cittadino; alle dotte divagazioni di Giuseppe Farinetti su virtù, felicità e
politica; alla teoria «funzionale» della cittadinanza formulata da Patricia
Mindus ripartendo dal pensiero di Aristotele; a José Luis Martí, che
ricostruiva la fortuna moderna della tesi aristotelica secondo cui i molti
giudicano e decidono meglio dei pochi o di uno solo; alle proposte avanzate da
Bovero di ritraduzione e ridefinizione dei termini fondamentali del logos aristotelico
che condividono la radice poli-. Quando giunse il momento di trasformare
le relazioni negli articoli che ora compongono questa sezione del volume,
Alberto Maffi ebbe il merito aggiuntivo di sollecitare gli altri studiosi, in
particolare gli specialisti di Aristotele, ad un confronto epistolare sulle
rispettive tesi interpretative, sui problemi incontrati, sui dubbi persistenti.
In questo dialogo aneu phonés, ripreso e rinnovato dopo l’incontro
torinese, sono certo che ciascuno ha riascoltato l’eco silenziosa della voce di
Vegetti, è tornato a discutere con lui. Ma non solo questi studiosi, tutti i
partecipanti al seminario ed ora i lettori di questo volume potranno continuare
a fruire del suo insegnamento attraverso il testo che Vegetti ha inviato a Teoria
politica nell’autunno scorso, dopo una prima revisione della sua relazione.
Mario Vegetti verrà ancora a trovarci spesso nei nostri pensieri, rimarrà tra
le voci e le luci più chiare del nostro mondo interiore. Caro Mario, a te
dedichiamo questi nostri modesti lavori.
Valentina Pazé
Valentina Pazé è Professore associato di Filosofia politica all’Università di Torino, dove è titolare dei corsi di Filosofia politica e Teorie dei diritti umani. Tra i suoi interessi di ricerca ci sono le teorie dei diritti e della democrazia, antiche e moderne, il contrattualismo, il populismo. Tra le sue pubblicazioni: Il concetto di comunità nella filosofia politica contemporanea (Laterza 2002), Comunitarismo (Laterza 2004), In nome del popolo. Il problema democratico (Laterza 2011), Cittadini senza politica. Politica senza cittadini (EGA 2016).
1. Ringrazio gli organizzatori per avermi invitato a prendere la parola in una
giornata così speciale, e confesso di sentirmi un po’ a disagio di fronte ai
relatori che mi affiancano, tutti illustri antichisti, nonché facenti parte del
cerchio stretto degli amici e allievi di Mario Vegetti. Se mi trovo qui,
insieme a Michelangelo Bovero, è tuttavia perché anche noi, filosofi politici
cresciuti alla scuola di Bobbio, ci sentiamo un po’ allievi di Mario Vegetti, e
suoi compagni di strada. Le occasioni di incontro e di confronto tra la “scuola
di Torino” di filosofia politica e la “scuola di Pavia” di filosofia antica, in
questi anni, sono state frequenti. L’ultima è un memorabile seminario su Aristotele.
I fondamenti della politica, organizzato a Torino dalla rivista “Teoria
politica”, che si è aperto per l’appunto con una relazione di Vegetti (Vegetti
2018). Ma bisogna ancora ricordare, per lo meno, i tre incontri organizzati a
Trento da Fulvia de Luise sui paradigmi del pensiero politico (2011), le figure
del potere nel mondo antico (2014), i criteri di legittimazione politica
(2015), oltre al seminario internazionale Nomothetes, kybernetes, dikastes.
Tre figure del potere, svoltosi a Torino nel novembre 2013, i cui atti sono
stati pubblicati sulle pagine di “Teoria politica”.
Scendendo su un
terreno più personale, ricordo con emozione il mio primo incontro de visu con
Mario Vegetti, che risale al 2005, quando tenne una lezione sull’VIII libro
della Repubblica all’interno del corso di Filosofia politica di Michelangelo
Bovero. Una lezione, come sempre, di esemplare chiarezza e acume, che mi spinse
a correre in libreria a prenotare i volumi del commento Bibliopolis che ancora
mi mancavano, da quel momento divenuti punto di riferimento ineludibile nel mio
rapporto con la Repubblica. Inutile aggiungere che anche la riflessione
che sto per proporvi – sul tema della schiavitù in Platone – si è ampiamente
nutrita della frequentazione dei testi di Mario Vegetti.
2. “Esiste la schiavitù nella Repubblica di Platone?”La domanda non è nuova. Se la poneva Gregory Vlastos in un articolo pubblicato nel 1968, che per decenni ha fatto testo sul tema (Vlastos 1968). La risposta di Vlastos era positiva. Al di là di alcuni indizi testuali che farebbero pensare alla presenza di schiavi nelle strade della kallipolis, a indurre a questa conclusione era una considerazione di carattere generale. Se Platone avesse inteso sfidare un’istituzione radicata nel suo tempo come la schiavitù, ed espellerla dalla sua città giusta, avrebbe argomentato in modo esplicito contro di essa. L’abolizione della schiavitù sarebbe stata una novità non meno “inaudita” e scandalosa dell’accesso delle donne a ruoli di comando, o dell’abolizione della famiglia. Ma non c’è alcuna critica esplicita della schiavitù da parte del Socrate platonico, che si limita a deplorare l’eventualità che i greci riducano in schiavitù altri greci, anziché i barbari (469b). Su questo tema, Platone sembra essere in linea con la tradizione largamente maggioritaria tra gli utopisti antichi, più disposti ad abolire proprietà privata e matrimonio che a mettere in discussione la schiavitù (Bertelli 1985). Il suo silenzio nella Repubblica andrebbe interpretato come accettazione di una pratica talmente scontata da rendere quasi superfluo nominarla. 2. “Esiste la schiavitù nella Repubblica di Platone?” La domanda non è nuova. Se la poneva Gregory Vlastos in un articolo pubblicato nel 1968, che per decenni ha fatto testo sul tema (Vlastos 1968). La risposta di Vlastos era positiva. Al di là di alcuni indizi testuali che farebbero pensare alla presenza di schiavi nelle strade della kallipolis, a indurre a questa conclusione era una considerazione di carattere generale. Se Platone avesse inteso sfidare un’istituzione radicata nel suo tempo come la schiavitù, ed espellerla dalla sua città giusta, avrebbe argomentato in modo esplicito contro di essa. L’abolizione della schiavitù sarebbe stata una novità non meno “inaudita” e scandalosa dell’accesso delle donne a ruoli di comando, o dell’abolizione della famiglia. Ma non c’è alcuna critica esplicita della schiavitù da parte del Socrate platonico, che si limita a deplorare l’eventualità che i greci riducano in schiavitù altri greci, anziché i barbari (469b). Su questo tema, Platone sembra essere in linea con la tradizione largamente maggioritaria tra gli utopisti antichi, più disposti ad abolire proprietà privata e matrimonio che a mettere in discussione la schiavitù (Bertelli 1985). Il suo silenzio nella Repubblica andrebbe interpretato come accettazione di una pratica talmente scontata da rendere quasi superfluo nominarla.
È vero, tuttavia, che questo silenzio potrebbe essere
inteso anche in altro modo. Potrebbe essere considerato un sintomo della
marginalità della schiavitù nell’architettura della kallipolis, della
sua “inutilità”. In effetti, il lettore fa fatica ad accorgersi della presenza
di schiavi nella città giusta disegnata da Platone: tutto sembra funzionare
bene anche senza di loro. Da questa prospettiva, la questione della presenza o
meno della schiavitù nella kallipolis risulta non scontata, e degna di
qualche approfondimento. Provo qui a ricapitolare i termini della questione,
formulando quattro ipotesi. La prima ipotesi è che gli schiavi, nella Repubblica,
coincidano con i membri del terzo ceto, dediti ai lavori manuali e al commercio.
A rendere non del tutto peregrina questa soluzione c’è, nel nono libro della Repubblica,
il ricorso al termine douleia per descrivere lo stato di soggezione dei
lavoratori manuali.[1]
Si potrebbe tuttavia pensare a un uso metaforico della parola, cui Platone
ricorre per alludere a una condizione di subordinazione politica dei “peggiori”
nei confronti dei “migliori”. A una sorta di “servitù volontaria”, resa
accettabile dalla “nobile menzogna”, oltre che da una certa dose di coercizione.
Di certo, la condizione dei membri del terzo ceto appare lontana da quella
dello schiavo dell’Atene del V-IV secolo, di cui il padrone poteva disporre a
suo piacimento. Inoltre, a parte il fatto che Platone dice espressamente che i
produttori sono pagati per il loro lavoro (433d), non si vede chi potrebbero essere
i loro padroni, dal momento che famiglia e proprietà privata sono state abolite
per i phylakes, che si sono così liberati della fastidiosa incombenza di
occuparsi di “donne e domestici”.[2]
Si potrebbe, al più, descrivere la condizione dei produttori come quella di
“schiavi pubblici”, figura non ignota al tempo. Ma altri elementi non tornano.
Lo schiavo storico era, per definizione, un “senza famiglia” (Finley 1985 :
97), mentre i membri del terzo ceto sono, nella Repubblica, gli unici a
mantenere i legami familiari. Insomma, per quanto in posizione subordinata, i
produttori sembrano essere a tutti gli effetti parte della polis. Uomini
liberi, i cui figli, in linea di principio, se dotati di qualità eminenti,
potrebbero addirittura venire cooptati in uno dei primi due gruppi. La seconda
ipotesi, più convincente, è quella formulata a suo tempo da Vlastos: i membri
del terzo ceto non sono schiavi, ma sono proprietari di schiavi. Sono anzi gli
unici a poterne possedere data l’interdizione che colpisce il ceto dirigente.
Anche questa ipotesi incontra tuttavia qualche difficoltà. Quella più
significativa ha a che fare con la giustificazione della schiavitù fornita da
Platone nel Liside. Una giustificazione “paternalista”, che assimila lo
schiavo a un bambino, non dotato in modo sufficiente di razionalità, e dunque
bisognoso di essere guidato dal logos del padrone (Vegetti 2017 :
28-29). Ora, il problema è che nella kallipolis i membri del terzo ceto
si caratterizzano, a loro volta, per la carenza dell’elemento razionale – il logistikon
– che risulta subordinato, nella loro anima, alla parte desiderante. La
loro sottomissione ai primi due ceti, nel IX della Repubblica, viene
giustificata proprio con lo stesso argomento che nel Liside è usato per
la schiavitù. I produttori appaiono dunque palesemente inadatti a
possedere-guidare schiavi, ai quali sembrano somigliare parecchio, quanto a
struttura psichica. Gli unici in grado, teoricamente, di possedere schiavi
sarebbero i phylakes. Ma ciò è a loro esplicitamente precluso (Calvert
1987 : 369). La constatazione dell’inquietante somiglianza, sul piano
psicologico, tra schiavi e produttori, può indurci a fare un decisivo passo
avanti verso l’ipotesi che la schiavitù non trovi posto nella kallipolis. Questa
tesi è stata brillantemente sostenuta da Brian Calvert, che osserva come gli
schiavi nella città giusta platonica risultino sostanzialmente “inutili”,
essendo il lavoro manuale affidato a cittadini liberi in cambio di un salario.
I (peraltro rari) riferimenti agli schiavi che compaiono nel testo sarebbero
interpretabili, se non proprio come sviste, come esempi tratti dalla vita
quotidiana degli ascoltatori del dialogo, utili a chiarire particolari snodi del
discorso, e non come illustrazioni del funzionamento della città giusta.[3] Un ulteriore argomento che Calvert porta a sostegno
della tesi “abolizionista” rinvia all’omologia tra la città e l’anima.
Supponendo che, al di sotto dei produttori, vi siano gli schiavi, dovremmo
aspettarci che la teoria dell’anima platonica, da tripartita, diventi
quadripartita, per fare spazio all’elemento psichico proprio degli schiavi. Ma così non
è. Come abbiamo visto, l’anima dello schiavo sembra non differire,
qualitativamente, da quella dei componenti del terzo ceto. Esiste infine una quarta e ultima possibilità: che
l’abolizione dell’oikos riguardi, in prospettiva, l’intera città, come
suggerisce l’interpretazione retrospettiva della Repubblica proposta da
Platone nel Timeo e nelle Leggi. In questo caso, potremmo
concludere con certezza che anche la schiavitù è stata cancellata
dall’orizzonte della città giusta, insieme alla proprietà privata. Sono
tuttavia molte – e ben note – le difficoltà di una simile interpretazione della
Repubblica, su cui ha basato la sua critica Aristotele (Calabi 2000,
Vegetti 2000).
3. Senza alcuna pretesa di dire
qualcosa di definitivo, provo ad avanzare tre osservazioni a margine di questa
rassegna di posizioni. La prima: se anche si propende per la tesi
dell’implicita abolizione della schiavitù nella kallipolis, ciò non fa
di Platone un pensatore egualitario, o addirittura mosso da sentimenti
umanitari. Semmai, la previsione di un ceto di cittadini-produttori formalmente
liberi, ma con una psicologia molto simile a quella degli schiavi, incapaci di
farsi guidare dal principio razionale e bisognosi di essere etero-diretti,
testimonia dell’irriducibile pessimismo antropologico di Platone, su cui è più
volte tornato Vegetti, e della sua avversione profonda nei confronti
dell’ideologia democratica.
Secondo Finley, il sistema schiavistico inizia a
svilupparsi ad Atene ai tempi delle riforme di Solone, che aboliscono la
schiavitù per debiti e altre forme non schiavistiche di lavoro involontario
(Finley 1985 : 112 e sg.). Il ricorso massiccio al lavoro degli schiavi – e la
“caccia” ai barbari da ridurre in schiavitù – si rende necessario per
rimpiazzare la forza lavoro dei cittadini ateniesi di condizioni più basse, non
più disponibili a lavorare alle dipendenze altrui. «Uomo libero – scrive Finley
– era [ormai considerato] chi non viveva sotto la costrizione di un altro, né
era impegnato a lavorare a beneficio di un altro; chi viveva preferibilmente
sul pezzo di terra avito, con gli altari e le tombe degli antenati. La
creazione di questo tipo di uomo libero in un mondo tecnologicamente arretrato,
preindustriale, portò alla creazione di una società schiavistica. Non c’era
alcuna realistica alternativa» (Finley 1985 : 118). La conquista della libertà
e dell’eguaglianza politica da parte degli strati più umili della società
ateniese, secondo questa interpretazione, va di pari passo con lo sviluppo del
modo di produzione schiavistico. Potremmo allora intravedere nella kallipolis
di Platone un modello che guarda all’indietro, a un’epoca pre-democratica,
quando di schiavi non c’era bisogno perché il lavoro necessario era svolto da
una massa di cittadini poveri, in condizioni semi-servili. Una seconda
considerazione verte sul nesso tra ragione e storia nella filosofia platonica.
Mario Vegetti in più occasioni ha contrapposto la “naturalizzazione normativa
della normalità” di Aristotele all’«artificialismo ricostruttivo» di Platone
(Vegetti 2000). In Aristotele la “normalità” – la regolarità dei comportamenti,
osservabile sul piano sociologico – diventa criterio per identificare ciò che è
“naturale”, e dunque anche “normativo”: «normale è ciò che le cose sono o
dovrebbero essere per realizzare la propria natura essenziale» (Vegetti,
Ademollo 2016 : 209). Di qui la celebre giustificazione della schiavitù per
natura, che procede non senza qualche intoppo, dovendo fare i conti con
anomalie come quella dello schiavo che non ha un “corpo da schiavo”, come ci si
aspetterebbe.
Il riferimento alla natura, in Platone, gioca un ruolo
diverso, assumendo in molti casi un significato rivoluzionario, di critica del
costume vigente. Lo si coglie nelle pagine dedicate all’illustrazione delle
novità più scandalose del progetto illustrato nella Repubblica:
l’equiparazione delle donne agli uomini quanto a capacità di comando (la “prima
ondata”), e l’abolizione della famiglia (la “seconda ondata”). Il superamento
della discriminazione fondata sul genere, in particolare, doveva apparire del
tutto contro natura ai contemporanei di Platone. Ma il Socrate platonico, partendo dall’esempio delle femmine dei cani,
insinua il dubbio che siano “le istituzioni attuali” ad essere “contro natura”,
e a dover essere radicalmente ripensate (456c). Nel caso della proposta ancora
più destabilizzante dell’abolizione della famiglia e della messa in comune
delle donne e dei figli, il riferimento alla natura viene abbandonato. A
convincere i partecipanti al dialogo della necessità e desiderabilità di una
simile innovazione sembra essere sufficiente la dimostrazione razionale della
sua utilità per la città.
Certo, con
riferimento alla schiavitù, Platone non sfida il senso comune del suo tempo.
Vegetti osserva che egli attribuisce la stessa inferiorità di banausoi e
cheirotecnai «a motivi psicologici, e non sociali, scambiando l’effetto
con la causa (un errore che non aveva commesso a proposito del sesso femminile,
la cui inferiorità psicologica era stata attribuita a un’educazione sbagliata)».[4] Se Platone non mette esplicitamente in
dubbio la naturalità della schiavitù, non è tuttavia per scarso coraggio: il
coraggio non gli era mancato nel proporre le due prime “ondate” che avrebbero
dovuto condurre alla costruzione della kallipolis. Il che mi conduce ad
una terza, e ultima, considerazione. Mi chiedo se non sia proprio questa
attitudine rivoluzionaria, e visionaria, di Platone ad avere sedotto Mario
Vegetti e ad avere fatto sì che abbia stretto con lui quell’“amicizia” profonda
e duratura che è ben percepibile dai suoi scritti.
Riferendosi
alla critica aristotelica del comunismo platonico, Vegetti osserva che
Aristotele si mostra «forse più ‘idealista’ e probabilmente anche più
ideologico di Platone, che non aveva sicuramente dato prova di atopia nel
riconoscere nel conflitto tra ricchi e poveri l’origine della stasis nella
città, e nel pensare che se questo conflitto non fosse stato risolto alla
radice ben poco ci si sarebbe potuti attendere dai costumi, dalle leggi e
dalla filosofia» (Vegetti 1998: 158).[5] In questa capacità di andare “alla
radice” dei problemi mi sembra consista una delle principali lezioni del
Platone di Mario Vegetti. Un pensatore che non ha mai esplicitamente criticato
la schiavitù, e forse non ha neanche inteso metterla in discussione, ma ne ha
reso il superamento pensabile, offrendoci gli strumenti per andare oltre
la normalità e le convenzioni del suo – e del nostro – tempo.[6]
Bibliografia
Bertelli, L.
(1985). Schiavi in utopia, “Studi storici”, 26, n. 4, pp. 889-901.
Calabi, F.
(2000). Aristotele discute la Repubblica in La Repubblica,
traduzione e commento a cura di M. Vegetti, vol. IV, Libro V, Bibliopolis,
Napoli, pp. 421-38.
Calvert, B.
(1987). Slavery in Plato’s Republic, “The Classical Quarterly”, vol. 37,
n. 2.
Finley, M.
(1981). Schiavitù antica e ideologie moderne, tr. it. Laterza,
Roma-Bari.
Pievatolo, M.C.
(2008). La via verso l’alto: autonomia dell’anima e politica nella
Repubblica di Platone, in La filosofia politica di Platone, a cura
di G.M. Chiodi e R. Gatti, FrancoAngeli, Milano, pp. 173-84.
Vegetti, M.
(1989). L’etica degli antichi, Laterza, Roma-Bari.
Vegetti, M.
(1998). Ricchezza/ povertà e l’unità della polis, in Platone, La
Repubblica, vol. III, libro IV, traduzione e commento a cura di M. Vegetti,
Bibliopolis, Napoli.
Vegetti, M.
(2000). La critica aristotelica alla Repubblica nel secondo libro della Politica,
il Timeo e le Leggi, in La Repubblica, traduzione e
commento a cura di M. Vegetti, vol. IV, Libro V, Bibliopolis, Napoli, pp.
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Vegetti, M.
(2000a). Normale, naturale, normativo in Aristotele, “Quaderni di
storia”, 52, pp. 73-84.
Vegetti, M.
(2017). Chi comanda nella città? I Greci e il potere, Carocci, Roma
2017.
Vegetti, M.
(2018). I fondamenti del potere politico. Aristotele contro Platone?,
“Teoria politica” n.s., Annali, vol. VII, pp. 23-34.
Vegetti, M.,
Ademollo, F. (2016). Incontro con Aristotele. Quindici lezioni, Einaudi,
Torino.
Vlastos, G. (1968). Does Slavery
Exist in Plato’s Republic?, “Classical Philology”, vol. 63, n. 4,
pp. 291-295.
[1] Lo osservava Vegetti in Vegetti, 1989
: 123-24.
[2] «Quanto ai minori mali di cui si
saranno sbarazzati, esito persino a parlarne perché sono cose sconvenienti:
adulare i ricchi, loro poveri, e le penose difficoltà che si incontrano
nell’allevamento dei figli e nei tentativi di guadagnare per dare ai domestici
il cibo necessario, ora contraendo prestiti, ora rifiutando di pagare i debiti,
ricorrendo a ogni espediente per cercare di procurarsi del denaro da consegnare
a donne e domestici con l’incarico di amministrarli […]» (La Repubblica, 465c).
[3] Si pensi al passo, su cui molto insiste
Vlastos, in cui Socrate sostiene l’importanza che «ogni singolo individuo
svolga il compito che gli è proprio» e fa, tra gli altri, l’esempio dello
schiavo (433d).
[4] Platone, La Repubblica, a cura di
M. Vegetti, Bur, Milano 2006, p. 1084, nota.
[6] Si potrebbe aggiungere – come mi
suggerisce Fulvia De Luise, che ringrazio – che un ulteriore indizio
dell’apertura di Platone ad “altri mondi possibili” è l’esistenza di un certo
schiavo che, nel Menone, riesce a rispondere correttamente a un quesito
geometrico… A sostegno della tesi che Platone, pur non criticando la
schiavitù, ci offra le premesse per farlo, cfr. anche Pievatolo, 2008: 182-84.
Federico Zuolo
Federico Zuolo è ricercatore in Filosofia politica presso l’Università di Genova. Ha lavorato precedentemente presso le università di Pavia e Trento ed è stato borsista della fondazione von Humboldt nelle università di Berlino e Amburgo. Ha pubblicato una monografia su Platone (Platone e l’efficacia. Realizzabilità della teoria normativa), una nuova edizione dello Ierone di Senofonte (Carocci 2012) e un’introduzione all’etica animale (Etica e animali. Come è giusto trattarli e perché, il Mulino 2018).
Abbiamo bisogno dei
classici tanto quanto non abbiamo bisogno della retorica sull’utilità dei
classici. A fasi alterne si alza un dibattito auto-referenziale e ripetitivo
tra coloro che vorrebbero fare a meno dei classici (e del liceo classico!) e i
difensori d’ufficio che ne sostengono la necessità educativa e culturale.
Eppure, a pensarci bene la questione sembra mal posta. Secondo una delle
definizioni standard, “classico” è ciò che non passa mai di moda ed è sempre a
noi contemporaneo. Questa definizione, coperta dal felice gioco di parole,
nasconde una profonda verità e un’inquietante ambiguità. La verità è che il
vero classico può dire qualcosa nonostante il passare delle epoche perché nella
complessità della tessitura del suo discorso si nascondono molteplici chiavi di
lettura aperte a diverse epoche. L’ambiguità invece è che questa apertura
polisemica possa risiedere in una sottodeterminazione concettuale. Se di
sottodeterminazione si trattasse, forse rischieremmo di sopravvalutare il
messaggio del classico in questione, che sembra avere molte cose da dirci
perché siamo noi a mettergliele in bocca.
Senza addentrarci
ulteriormente in questa diatriba senza fine, vorrei qui riportare alcune
considerazioni su ciò che io ho imparato da Mario Vegetti riguardo all’uso dei
classici. Senza concedere ulteriore spazio a un dibattito, pur importante, che
rischia però di guardare al classico come un’entità monumentale ed eterna, come
se fosse un busto marmoreo, cercherò di interrogare questi problemi a partire
da una coppia di nozioni apparentemente sempre in tensione – radicalità e
attualità – che però nel magistero di Mario Vegetti ho sempre percepito
come fruttuosamente unite. A di là delle apparenze o del gusto fine a se stesso
del paradosso, certi autori classici possono essere radicali e inattuali ma
proprio per questo dirci qualcosa di significativo e non finire per ripetere un
ruolo museale. O per lo meno questo è quello che cercherò di sostenere in
questo breve pezzo.
Prima di iniziare è
necessario esplicitare una breve premessa metodologica. Quando ci si propone di
discutere termini così ovvi e quotidiani come attualità e radicalità si corrono
due rischi. Da un lato, si rischia di muoversi sul filo della noia del
discutere l’ovvio. Dall’altro, si può dare l’impressione di essere troppo
presuntuosi, se si cerca di mettere in discussione il senso consolidato e
stratificato dei termini, come se la semplice analisi concettuale e storica fatta
a tavolino potesse realmente ribaltare il significato di una costruzione
collettiva di lunga data. A costo di rischiare la noia dell’ovvio o la
presunzione dell’arroganza penso si possa parlare dei termini in questione in
maniera non banale ma nemmeno presuntuosamente rivoluzionaria. Infatti, la
presunta ovvietà nasconde un atteggiamento irriflesso che a sua volta richiede
analisi.
Il
paradigma radicale
Per radicalità si
intende solitamente un qualcosa che pare in aperto contrasto con gli standard
etici, sociali o estetici di una certa epoca. E questa diversità non implica
solo la differenza rispetto agli impliciti normativi di un’epoca, ma anche lo
scontro e la pretesa di cambiamento che essa propone. Radicale è quella
proposta etica o politica che richiede un cambiamento complessivo di pratiche
sociali e assunti valoriali che sono incardinati in un’epoca. In tal senso e in
prima istanza ciò che è radicale sembra mettere in discussione l’attualità in
quanto insieme di pratiche, assunti e istituzioni correntemente date per ovvie
o esplicitamente sostenute. La radicalità cerca di svelare gli impliciti e di
riaprire la questione dell’ovvietà di ciò che esiste,
che persiste grazie all’inerzia pigra della consuetudine.
Nell’ambito etico e
politico l’atteggiamento radicale si inaugura, così come per molte altre cose,
con Platone e in particolare con le celeberrime tesi della Repubblica.
Nel voler rifondare la polis partendo zero, dopo una tabula rasa, e nel
volerne ricostruire le fondamenta più essenziali (proprietà, famiglia e accesso
al potere) la kallipolis platonica è sicuramente radicale e pertanto
sembra anche perennemente inattuale, tanto rispetto agli standard della sua
epoca, quanto rispetto ai nostri standard poiché ciò che ha cercato di mettere
in discussione è diventato un carattere in un qualche senso permanente delle
nostre società. Eppure, nonostante l’evidenza di questa tesi si può dubitare
della necessaria contrapposizione tra radicalità e attualità. Per capire in che
senso questa opposizione non ha necessariamente luogo, dobbiamo però fare un détour
attraverso il significato di attualità. È quest’ultima nozione, infatti, ad
essere più ambigua e sottoposta alla coperta offuscante di ciò che è ovvio ma
non discusso. Tutti diamo per scontato cosa voglia dire essere attuali, più di
quanto pensiamo riguardo al concetto di radicalità, ma specificare cosa voglia
dire attualità e in particolare attualità di un classico solleva molte
questioni.
Tre
tipi di attualità
Venendo ora al
concetto di attualità, possiamo delineare tre tipi di attualità del passato o
del classico. La prima è l’attualità di prossimità, la seconda è l’attualità
del portavoce e la terza è l’attualità come rilevanza. In tutti e tre i casi
ciò che viene considerato attuale è ciò in cui a partire dal nostro punto di
vista ritroviamo qualcosa del passato che ci sembra familiare o appartenente al
nostro mondo.
In un primo e ovvio
senso l’attualità si può caratterizzare come una sorta di prossimità o similarità
funzionale. Si possono fare molteplici esempi di similarità di un fenomeno
o di una tesi classica. Ad esempio, si può dire che il dibattito tra Platone e
i sofisti è molto attuale poiché mostra i problemi della professionalizzazione
della comunicazione (oggi diremmo di marketing) e dell’importanza della comunicazione
per ottenere il potere. Oppure si pensi al dialogo tra Ierone e Simonide nello Ierone
di Senofonte quando si dice che il governo tirannico non può che basarsi
sulle persone ingiuste, dissolute e servili perché sono gli unici di cui si può
servire il tiranno dato che sono gli unici ad apprezzare un governo ingiusto
(Senofonte 2012, V, 1-3).
Ma oltre a questi
aspetti poco controversi, la grande ambiguità del concetto di attualità ruota
attorno alla presunta esigenza di attualizzare un classico. Una delle
cose che più mi ha segnato della visione ermeneutica vegettiana è la rottura di
un malinteso riguardo alle attualizzazioni. Si potrebbe dire in termini molto
semplici che non è vero che per essere interessante o per essere sentito vicino
a noi un classico deve essere attualizzato (per lo meno attualizzato nel primo
senso di attualizzazione). Ciò che è interessante non è necessariamente
l’attualizzazione della prossimità e somiglianza, e non è necessariamente
qualcosa di vicino a noi.
Una paura
inconfessata di non riuscire a destare interesse è dietro al secondo modo di
intendere il senso dell’attualizzazione. Chiamo questa forma di attualità l’attualità
del portavoce, laddove l’attualità consiste nel cercare di far dire a un
classico una tesi sostantiva attualmente in voga. Chiaramente anche l’attualità
di prossimità in parte sfrutta questa mossa esegetica. Ma l’attualità del
portavoce più che una dinamica di avvicinamento (come la prima forma di
attualizzazione) implica una forma di sostituzione o di espressione per
interposta persona, e per questo la chiamo del portavoce. Infatti, in questa
forma di attualizzazione si scopre che un certo classico aveva già sostenuto
una tesi – solitamente normativa – e solitamente questa tesi è anche quella
preferita dall’interprete di turno. Quindi più che avvicinare il classico alla
contemporaneità si tratta di riscoprire quanto tale classico può ancora parlare
in nostra vece nel presente e sostenere la nostra tesi preferita. In tal senso
si dice che il classico “anticipa”, “prefigura”, fenomeni o esigenze care al
presente. A differenza della prima forma di attualizzazione qui non si tratta
di mostrare che il classico può parlare a noi, bensì si tratta di
mostrare che il classico può parlare per noi tra noi contemporanei.
Anche in questo
caso si possono fare vari esempi. Mi limito solo a due mosse molto note:
l’utilizzo di Aristotele da parte di Martha Nussbaum e di Spinoza da parte di
Toni Negri. Come è noto Nussbaum ha cercato di ritrovare in Aristotele le basi
di un’attività statale di tipo social-democratico (Nussbaum 1988; 1990; 1992)
che intende fornire a tutte le persone le opportunità per sviluppare le
capacità di base. Aristotele negli intenti di Nussbaum fornisce una teoria del
bene e della natura umana che si contrappone a un certo relativismo o
non-fondazionalismo del liberalismo contemporaneo. Tale teoria sostantiva e
spessa del bene è alla base dell’approccio delle capacità come teoria riguardo
a ciò che si deve distribuire in uno stato impegnato a sostenere la libertà e
l’eguaglianza. In alternativa, si pensi, con un altro tipo di anacronismo,
l’attualizzazione di interpretare Spinoza come un rivoluzionario (Negri 1981).
Secondo Negri Spinoza è il pensatore che anticipa un certo approccio
rivoluzionario perché è capace di pensare la moltitudine come generatrice
autonoma di potenza e attività politica, superando in tal modo le mediazioni
liberali e borghesi che si frappongono tra gli individui e l’agire politico.
A cavallo tra la
storia della filosofia antica e la filosofia politica ho a volte guardato con
interesse a queste proposte. Ma Vegetti mi ha mostrato la fallacia di questo
modo di fare attualizzazioni. Nell’attualizzazione del portavoce si nasconde un
problema culturale insidioso che non ha soltanto a che fare con la necessità di
essere corretti da un punto di vista esegetico. Ovviamente i testi classici
garantiscono una certa libertà ermeneutica grazia alla loro polisemia e
all’evolvere dei problemi con cui vengono interrogati. Ma un conto è
interpretare un testo in maniera aggiornata, o cercare porre questioni nuove,
un altro è far dire a un testo una tesi sostantiva (tipicamente normativa) a
lui aliena. Nel sostenere che un certo autore ha anticipato la socialdemocrazia
o la rivoluzione si rende un pessimo servizio alla socialdemocrazia, alla
rivoluzione e al classico stesso. E questo non è tanto (e soltanto) perché
abbiamo un dovere di correttezza ermeneutica, quanto perché si dà l’impressione
che si debba scavare nel passato e far dire a un classico una certa cosa
affinché tale tesi sia sufficientemente robusta. Nel fare questo si rischia di
dare l’impressione che la questione contemporanea sia debole senza l’aiuto del
classico, e che il classico abbia bisogno di essere attualizzato in questo
senso per essere in un qualche modo interessante. Allo stesso tempo si prende a
prestito l’autorevolezza del classico ma se ne diminuisce la distanza, come se
fosse impegnato realmente nella diatriba contemporanea in questione.
Se le categorie che
ho proposto sinora sono valide, possiamo discutere il terzo tipo di
attualizzazione in cui forse Mario Vegetti avrebbe potuto parzialmente
riconoscersi. Nell’interrogare il classico in maniera opportuna si apre uno
spettro di possibili interpretazioni (più o meno ampio a seconda dei casi). Nel
farlo si devono ovviamente usare le categorie più adeguate che sono state
elaborate nel corso della storia, comprese quelle più recenti. Ma non
necessariamente devono essere le più recenti per rendere il pensatore più
attuale. Benché secondo Vegetti l’attività di analisi storica ed esegetica non
abbia bisogno di giustificare il proprio senso rispetto all’attualità
(soprattutto se intesa nei primi due sensi), ciò non vuol dire che debba essere
intesa come avulsa dal presente. Ma questo senso di attualità non consiste né
in un mostrare la vicinanza (attualità come prossimità), né in un far
dire al classico tesi del presente (attualità del portavoce). Bensì
consiste in qualcosa di più sottile che ha a che fare con la questione della radicalità
e che investe i presupposti delle nostre pratiche sociali. Per questo l’ho
definita attualità della rilevanza.
Forse risuona qui
l’eco di ciò che Bernard Williams (2009) chiamava “il senso del passato”. La
ricostruzione genealogica a cui si dedica Bernard Williams serve a
riappropriarsi di una storia complessa e ramificata ma anche a mostrare la
distanza tra noi e una certa epoca storica. La distanza è un esercizio di
riflessione indiretta sull’attualità. E superando in qualche modo Williams
possiamo aggiungere che è per questo motivo che l’estremamente inattuale può
risultare in un certo senso attuale. Ma non perché attualizzabile o fattibile.
Bensì perché presente nella sua distanza.
Nel terzo tipo di
attualità che stiamo prendendo in considerazione, l’attualità non è una
categoria di somiglianza o di prossimità, e l’attualità non è nemmeno il
tentativo di mettere in bocca al classico cose che forse non ha detto. In
questo terzo senso l’attualità è una categoria di interesse. E un’idea può
essere interessante, e di conseguenza attuale, anche se si tratta di un’idea
molto distante da quelle in voga, anzi proprio perché lo è può trattarsi di
un’idea attuale.
Attualità
del radicale
Ad esempio, il
radicalismo politico platonico, tanto nascosto da molti interpreti
spiritualisti e liberali, è attuale perché mette in discussione un assunto di
molte (ma non tutte) le teorie attualmente più in voga. Ad esempio, il primato
genealogico e assiologico dell’individuo sulla collettività. Oppure
l’impossibilità di cambiare le basi strutturali della società (ad esempio
riguardo alla famiglia). È qui opportuno ricordare il volume di Vegetti, Un
paradigma in cielo. Platone politico da Aristotele al novecento (Vegetti
2009). Nella millenaria storia delle interpretazioni politiche di Platone, e
qui ci riferiamo soprattutto alle tesi scandalose e rivoluzionarie della Repubblica,
si hanno varie fasi. Dapprima si riconosce che la Repubblica ha un
contenuto dal carattere fortemente politico, ma si considera la sua
realizzazione impossibile e indesiderabile (Aristotele e successori). Poi dal
neoplatonismo in poi si inizia a interpretare la questione in termini
maggiormente moralizzati: pur senza negare la dimensione politica, si dà priorità
all’ordine dell’anima invece che a quello della città. L’autorità intellettuale
platonica deve in qualche modo essere protetta dalla pericolosità delle sue
tesi. Lo scandalo del radicalismo politico va nascosto e quindi emerge l’idea
di una Repubblica come dialogo che si occupa prevalentemente, anche se
non esclusivamente, della giustizia nell’anima. Non possiamo qui ripercorrere
tutte le vicende di una questione complessa e millenaria. Ci basti ricordare
che nel secondo dopoguerra, dopo che Popper attaccò Platone quale maestro dei
totalitarismi, in molti hanno cercato di sminuire la politicità della Repubblica.
In estrema sintesi gli interpreti hanno cercato di conciliare Platone con il
pensiero liberaldemocratico, o hanno sostenuto che Platone ironicamente voleva
dire l’opposto di quanto detto esplicitamente (Leo Strauss) o hanno ricondotto
l’intento fondamentale della Repubblica al miglioramento etico
dell’individuo, indipendentemente dalle prospettive politiche. Di fronte a
questo tipo di negazione non si può non pensare che si tratti di una forma di
rimozione semicosciente, in senso psicanalitico, ovvero la rimozione di un
conflitto tra un qualcosa che si deve onorare (il pensiero platonico) e gli
assunti morali in cui si vive. Ma il mostrare la radicalità e contrarietà di un
pensatore rispetto agli assunti morali e sociali del presente non dovrebbe
squalificarne l’interesse. Non dovrebbe se si prende sul serio il terzo tipo di
attualità e se non ci si fa abbindolare dalle sirene dei primi due tipi di attualità.
Alla luce di queste
considerazioni si può pensare all’attualità del Platone della Repubblica con le categorie
della rilevanza e dell’interesse. Senza usare giochi di parole del tipo
l’attualità dell’inattuale, ci può essere attualità-interesse in un pensatore
molto diverso e radicale rispetto all’attuale. Il presunto paradosso può essere
spiegato se ripartiamo da Platone. Come detto, la radicalità si esprime nel
mettere in discussione gli assunti fondamentali non solo della società a lui
coeva ma anche delle nostre società. Le famose tre ondate, volutamente
scandalose e sempre inattuali, attaccano i capisaldi della proprietà
(individuale e famigliare), dell’educazione dei figli (famigliare) e della
regola per esercitare l’autorità legittima (che non si basa sulla conoscenza).
Ma nel mettere in discussione le regole fondamentali della proprietà, della
crescita dei figli e dell’autorità politica il radicalismo platonico ne mostra
gli assunti costitutivi e raramente discussi.
Mario Vegetti si
trova a discutere di questi temi in termini leggermente diversi in un dibattito
impostato dall’idea di Carlo Augusto Viano di un “modello chiuso” di
interpretazione della storia della filosofia antica. Secondo questo modello la
filosofia antica non deve avere rapporti diretti né con la contemporaneità (e
quindi deve risultare inattuale) ma non dobbiamo nemmeno pensarla come
pienamente coerente e integrata con la società e la vita dell’epoca coeva.
Piuttosto dobbiamo vederla come a sua volta marginale e in opposizione con l’ethos
imperante di una certa epoca. Questa tesi serviva a Viano per opporsi sia
al classicismo secondo il quale i modelli classici possono essere direttamente
applicati poiché eternamente validi in ogni epoca, sia a interpretazioni più
storicistiche che non cercano di riappropriarsi direttamente della filosofia
classica ma la pensano comunque perfettamente integrata con lo spirito
dell’epoca. Vegetti rimarca i limiti di questa idea chiusa dell’interpretazione
della storia della filosofia antica poiché rischia di limitare il senso e
l’utilità dello studio dei classici filosofici. E propone una via d’uscita che
consiste in un diverso modello di approccio ai classici.
Forse è possibile
evitare il rischio della irrilevanza senza perdere questo vantaggio. Si
tratterebbe di capovolgere la prospettiva: cioè di usare gli antichi, e la loro
filosofia, come un punto di vista esterno e straniante su di noi. Un
punto di vista cioè che proprio in virtù della sua distanza e della sua
differenza ci consenta di vedere in modo più chiaro e radicale presupposti
inconsapevoli, pregiudizi radicati, idées reçues accettate
acriticamente, che intessono il nostro modo di pensare. (Vegetti, 2009b, pp.
344)
Questa prospettiva
critica è offerta dai classici, o per lo meno da certi classici e da un certo
modo di studiare i classici, perché i classici permettono di intrecciare
distanza e rilevanza. Sono rilevanti, come detto, perché pongono questioni
interessanti di messa in discussione dei nostri assunti. Ma hanno anche il vantaggio
di essere distanti, ovvero di poter effettuare l’esercizio critico offrendo il
contraltare di modelli teorici e storici non immediatamente spendibili
nell’agone politico e culturale contemporaneo. Questa distanza, lungi
dall’essere uno svantaggio, come potrebbero pensare i due primi tipi di
attualizzazione che abbiamo visto (di prossimità e del portavoce),
è in realtà una risorsa intellettuale formidabile perché garantisce al classico
l’autorevolezza del non immischiarsi nel limite delle polemiche e allo stesso
tempo ne mantiene l’interesse intatto.
Per fare qualche
esempio, magari banale. Siamo sicuri che la critica platonica all’egualitarismo
e alla democrazia non ci offra ancora un punto di vista critico sull’ideologia
liberal-democratica e sui rischi di un pensiero unico considerato
dogmaticamente incontrovertibile? E d’altra parte: il pessimismo antropologico
di Platone, come del resto molti hanno già osservato, non contribuisce a
spiegare l’illusione di perfettibilità che ha portato al fallimento vari
tentativi di ingegneria sociale collettivista? Oppure, e per finire:
comprendere la struttura della teoria aristotelica secondo la quale ciò che è
normale è naturale, e ciò che è naturale è normativo, non può renderci più
chiari dispositivi di pensiero tuttora attivi in molti settori? (Vegetti,
2009b, pp. 344-5)
Attualità
di Aristotele?
Dopo il paradosso
dell’attualità (di rilevanza) di Platone, siamo giunti quindi alla
questione dell’attualità di Aristotele. Da un lato, Aristotele sembrerebbe un pensatore
eminentemente attuale, soprattutto se intendiamo l’attualità nei primi due
sensi (di prossimità e del portavoce). Molti (in ambito
anglosassone e tedesco) hanno ripreso Aristotele come pensatore attuale per una
gran serie di motivi. Giusto per menzionarne alcuni e senza pretesa di
completezza, si ricordi la teoria aristotelica della politia che sembra
prefigurare la positività di un governo non ristretto all’aristocrazia dei
migliori. Oppure si pensi l’importanza del ragionamento dialettico nella dimensione
pratica poiché rende conto di diverse forme di sapere che non sono
riconducibili all’unico modello deduttivo o nomologico delle scienze naturali.
E, infine, si consideri la saggezza pratica in quanto una componente essenziale
della capacità dell’agire umano. Queste famose idee aristoteliche sembrano (e
probabilmente sono) attuali perché almeno in parte individuano caratteri
fondamentali delle interazioni umane. Ma la loro attualità come prossimità è
forse sovrastimata. Infatti, nel presentarsi come tesi ovviamente universali –
come quasi tutte le tesi propriamente filosofiche – riescono particolarmente
bene a nascondere la loro determinatezza storica. Infatti, le tesi
summenzionate hanno ovviamente dei presupposti ineludibili per poter darsi socialmente
e per avere un senso determinato. Questi presupposti sono banalmente
l’esistenza della polis, un certo ethos condiviso, le istituzioni sociali
antiche che permettono la libertà dal lavoro (la schiavitù e l’esclusione della
donna dalla politica).
Le tesi di cui
sopra sono ambigue nella misura in cui oscillano tra l’avere un contenuto
normativo e il porsi come verità generali non connotate normativamente. Ad
esempio, la saggezza pratica ha bisogno di presupposti particolari per
esercitarsi e non è necessariamente data. Però è una tesi parzialmente
indipendente dalle condizioni in cui è sorta, quindi è facilmente digeribile e
riproponibile in epoche diverse. Ovviamente non potrà avere lo stesso
significato ma non sembra così aliena dalla nostra condizione. In sostanza si
tratta di tesi molto meno cariche normativamente di quelle platoniche, o perché
si pongono come “neutrali” o perché essendo maggiormente conservatrici sono più
in linea con la nostra realtà. Quindi da un certo punto di vista sono tesi più
“attuali”. Sono più attuali nel senso della prossimità perché si pongono su una
linea di continuità con pratiche a noi presenti. E sono anche più attuali
perché nella loro presunta atemporalità possono essere rivestite in un senso
molto prossimo alle esigenze contemporanee, ovvero possono più facilmente di
altre tesi essere prese in prestito e utilizzate come portavoce e sfondo di
posizioni normative più chiaramente determinate.
Però la cosa in
Aristotele non è ovviamente così semplice dato che l’apparente trasversalità
delle tesi aristoteliche si combina con il bisogno che ci sia una sorta di
incarnazione del normativo nel reale. E qui riprendo la famosa e insuperata
analisi di Vegetti sul naturale-normale e normativo in Aristotele (Vegetti
2000b). In estrema sintesi, secondo Aristotele ciò che definisce lo standard di
bontà e giustizia sociale è la norma diffusa e accettata socialmente che si
esprime nel cittadino virtuoso (spoudaios). In tal senso la quintessenza
di una norma socialmente diffusa diventa anche ciò che è propriamente naturale,
poiché costituisce la realizzazione teleologica più piena di ciò che è per
natura umano (la vita politica). Quindi ciò che è considerato giusto
convenzionalmente, diviene anche giusto naturalmente poiché si esprime attraverso
la sua forma più propria. Di conseguenza ciò che è naturale è anche
normativamente buono poiché realizza al meglio la forma essenziale di una cosa.
Sebbene si presenti come una tesi sulla naturalità di un certo tipo di attività
e di virtù, questa naturalità nasconde la convenzionalità che vi è alla base e
veicola la distinzione di una norma.
Per questo motivo
potremmo dire che nonostante l’apparente maggiore vicinanza di Aristotele alle
nostre società, la sua attualità è forse solo apparente e per altro aumentata
dal maggiore conservatorismo sociale della prospettiva aristotelica che ci fa
sembrare più vicino a noi ciò che forse è ancora più lontano. Vi è una tensione
ben nascosta al centro della teleologia aristotelica. O ogni tipo di norma socialmente
accettata diventa normativa in generale e quindi naturale, ma così si finisce
per essere relativisti (cosa che ad Aristotele e agli aristotelici non sarebbe
andata a genio) e quindi ridursi a sostenere una mera accettazione del
presente; oppure ci sono solo alcuni tipi di norme sociali, e non altre, che
possono essere definite naturali, ma allora ciò che è normativo è definito
indipendentemente dall’incarnazione sociale.
Chiaramente la tesi
aristotelica è più vicina a questa seconda opzione, ma l’insistenza
aristotelica nel perseguire un approccio descrittivo e naturalistico lo obbliga
a far dipendere la normatività di una cosa dalla sua diffusione empirica.
Dopo aver visto il
rapporto tra Aristotele e i primi due sensi di attualità, ci possiamo ora chiedere
se si caratterizza anche come attuale nel terzo senso. È il pensiero
aristotelico attuale in quanto rilevante per il nostro sguardo contemporaneo?
In un certo senso lo è ovviamente, nella misura in cui è anche attuale negli
altri due sensi. Però non necessariamente è rilevante se ci interessa una
prospettiva critica o uno sguardo diverso sui nostri presupposti sociali.
Di altro tipo è
l’(in)attualità Platonica che attraverso il radicalismo mette in discussione
presupposti sociali più radicati. L’impossibile presenza platonica può avere
una capacità di guida non scontata nel discutere i limiti di possibilità vere o
presunte e nel pensare ciò che si può fare ed esigere. Non voglio qui dire che
Aristotele sia meno attuale di Platone, tesi solo volutamente paradossale.
Voglio solo dire che non è ovvio cosa sia più rilevante. Non è scontato
cosa sia più rilevante e interessante: una fondazione apparentemente
meta-empirica e neutrale di alcune pratiche sociali o uno svelamento della loro
convenzionalità? Cosa è più rilevante intellettualmente: l’apparente continuità
aristotelica o la rottura platonica? Senza poter fornire una risposta
conclusiva mi limito a suggerire che anche l’estremamente inattuale e radicale,
benché lontano e probabilmente impossibile, può essere estremamente attuale
poiché ci mostra i presupposti e i limiti in cui vivono le società presenti.
Estendere
il possibile tra radicalità e attualità
Sinora ci siamo
intrattenuti sul significato delle nozioni di attualità e radicalità rispetto
alle esigenze di senso e interpretazione di se stessi da un punto di vista
sociale. Ovvero ci siamo chiesti che significato hanno le proposte politiche,
ad esempio, di Platone, o le tesi di Aristotele. Non abbiamo ancora toccato la
questione collegata ma differente che concerne la possibilità degli ideali
politici in questione. A costo di risultare un po’ troppo semplificatorio, si
può dire che la dimensione del possibile è una nozione modale fondamentale che
difficilmente può essere definita senza ricorrere circolarmente a se stessa.
Per i nostri scopi sia sufficiente concentrarsi su ciò che possiamo chiamare
come il politicamente e socialmente possibile. Per definirlo non è necessario
scomodare la non-impossibilità metafisica come requisito minimo. Chiaramente
ciò che è possibile ha come limite definitorio il perimetro dell’impossibile e
include una serie di mondi possibili che partono dal mondo attuale. L’attuale è
ovviamente possibile, ma sono anche possibili tuti quegli stati alternativi di
cose che sono più o meno “vicini” al possibile. Da un lato, il possibile è una nozione
binaria che si oppone all’impossibile. Definire uno stato di cose,
soprattutto in ambito politico e sociale, come impossibile è una critica
fondamentale. Si pensi, ad esempio, alla critica aristotelica nella Politica
alla Repubblica platonica, come indesiderabile e impossibile poiché
contravviene agli aspetti fondamentali della natura e socialità umana. Ma in
realtà definire qualcosa come impossibile è solitamente un’esagerazione retorica
per sostenere che si tratta di un cambiamento molto difficile e oneroso.
Platone stesso era ben conscio del fatto che la kallipolis fosse
difficile ma non impossibile (Vegetti 2000a). Piuttosto, ci si può chiedere se
attuare certi cambiamenti sociali (ad esempio quelli proposti da Platone) sia
strettamente impossibile, o non piuttosto molto difficile da realizzare e da
mantenere. Per comprendere questi aspetti dobbiamo introdurre altre due
categorie per caratterizzare meglio il senso della possibilità sociale e
politica. In primo luogo, si deve intendere la possibilità anche come una dimensione
scalare, ovvero come una proprietà avente gradi diversi di soddisfazione.
In tal senso ci si riferisce alla nozione di fattibilità politica e sociale.
Uno stato di cose può essere più o meno fattibile, e più o meno possibile
socialmente, nella misura in cui si realizza in un mon do possibile più o meno
distante dal mondo attuale.
In secondo luogo,
si deve distinguere tra due dimensioni della fattibilità: l’accesso e la
stabilità. Accedere a uno stato di cose, ovvero mettere in pratica la
realizzazione di un mondo possibile (accesso) pone una serie di
problemi, che sono
ben diversi dal quelli che riguardano il mantenimento nel tempo di questo stato
di cose (stabilità) (Gilabert and Lawford-Smith 2012). Infatti, potrebbe
essere molto difficile e oneroso realizzare un certo stato di cose politico e
sociale per via delle resistenze tradizionali o dei gruppi di potere che vi si
oppongono. Altra questione è capire con quali risorse interne al nuovo stato di
cose realizzato si possa mantenere stabilmente la situazione.
Se questo tipo
di mappa concettuale è minimamente convincente possiamo tornare alle questioni
da cui eravamo partiti. La dimensione dell’attualità è ovviamente l’orizzonte
ineludibile da cui partire. Ma non è necessariamente l’orizzonte di senso e
normatività entro cui rimanere. L’attualità stessa è una nozione spessa poiché
può esprimere molte esigenze che mettono in crisi la solidità di ciò che diamo
per attualmente scontato. A partire da questi bisogni si può ricorrere al
radicale per mostrare stati di cose alternativi. In tal senso, il radicale è
sia una messa in discussione dell’ovvietà dell’attuale, sia un modo di
prospettare alternative, mondi possibili, che si discostano dalle vicinanze
dell’attuale. Quanto siano effettivamente accessibili e stabili è una questione
che possiamo momentaneamente mettere da parte. Quindi ciò che il senso comune
sociale definisce come radicale non è soltanto il contraltare negativo
dell’attuale, il suo lato bello ma impossibile. Ne definisce anche infatti le
aspirazioni e il campo di sperimentazione della possibilità. Quindi mettere in
campo opzioni radicali estende il dominio della possibilità e non la fa
appiattire esclusivamente sui mondi possibili molto vicini al mondo attuale.
In tal senso,
l’esercizio di radicalità svolge diverse funzioni rispetto alla persistenza
dell’attuale. Ne mette in discussione i presupposti ovvi e non discussi. Mostra
un’alternativa possibile. Estende il dominio della possibilità oltre ciò che è
immediatamente visibile. Potremmo quindi dire che l’attualità è almeno in
parte legata all’esercizio di radicalità, non soltanto come suo negativo ma
anche come termine di riferimento dell’estensione della possibilità che è
necessaria per esprimere il perimetro dell’attualità. I due termini, invece, si
distanziano nei primi due sensi di attualità (di prossimità e del
portavoce).
Conclusione
Nell’interrogare
il significato di attualità e radicalità riguardo all’uso dei classici si è
visto che queste nozioni si comportano come una coppia dialettica inscindibile.
Possono essere definite l’una indipendentemente dall’altra ma nel loro uso
sociale si mettono in gioco reciprocamente. In questa coppia i classici
svolgono una funzione molto importante perché danno linfa alla continuità e
persistenza dell’attuale (i primi due significati di attualità) o all’opposto
ne mettono in discussione la consistenza tramite la funzione radicale del
classico. Il radicale non mette in crisi soltanto le fondamenta apparentemente
ovvie dell’attualità ma configura anche un insieme di possibilità alternative
più o meno distanti dall’attuale. In tal senso si può intendere l’attualità del
classico: come un dispiegarsi di possibilità alternative che non sono
interessanti solo se prossime alla nostra attualità. Nell’essere interessanti
ci toccano in qualche modo pur rimanendo distanti e nel mostrare l’interesse
del distante non ci fanno appiattire su ciò che abbiamo già.
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Princeton University Press).
Il testo è già stato pubblicato anche sul sito della Società di Psicoanalisi Crritica (29-03-2018) con questa nota di accompagnamento: “Pubblichiamo di seguito un ricordo di Mario Vegetti, notissimo studioso e docente di Storia della Filosofia antica e intellettuale rigoroso, amico personale di alcuni di noi e della Società di Psicoanalisi Critica”.
Ricordano l’amico e il protagonista della Casa della Cultura: Ferruccio Capelli, Mauro Bonazzi, Fulvio Papi, Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri, Salvatore Veca
Mario Vegetti, Il coltello e lo stilo. Animali, schiavi, barbari e donnealle origini della razionalità scientifica.
ISBN 978-88-7588-228-0, 2018, pp. 192, formato 140×210 mm., Euro 20 – Collana “Il giogo” [82]. In copertina: Affresco raffigurante gli Istrumenta sciptoria. In quarta: bassorilievo del tempio di Esculapio di Atene.
Il coltello e lo stilo fu pubblicato nella primavera del 1979. Fin dalla sua comparsa, suscitò un vivace interesse, non solo, e non tanto, fra gli specialisti di antichistica, quanto presso un pubblico composito di lettori che frequentavano i territori che allora si chiamavano “cultura critica”: epistemologia, antropologia, psicoanalisi, ed eventualmente movimenti come quello femminista e animalista. Ne uscirono naturalmente diverse interpretazioni del senso e degli intenti del libro (dalla critica irrazionalistica ai fondamenti “violenti” della scienza, a una rivisitazione moderata di Foucault). Nell’introduzione all’edizione del 1996, riprodotta in questo volume, ho tentato di delineare le coordinate culturali entro le quali Il coltello e lo stilo era stato concepito, e di indicare un punto di vista d’autore sulla collocazione del libro. Ha fatto però bene l’editore a ristampare qui la prima edizione, quella del 1979. Da un lato, questo restituisce ai primi lettori la possibilità di un rinnovato incontro con il testo; dall’altro, e soprattutto, consente a nuovi lettori l’accesso alla forma originale del libro ormai da gran tempo esaurita. Non è immotivato pensare che questa ristampa possa apparire a qualcuno come una riscoperta, e ridestare almeno in parte l’interesse e la discussione così vivaci tanti anni or sono. Se così fosse, potremmo augurare “bentornato” al Coltello e lo stilo, e renderne il merito che gli spetta al generoso editore, Carmine Fiorillo di “Petite Plaisance”.
Mario Vegetti
Febbraio 2018
Mario Vegetti, Tra Edipo e Euclide. Forme del sapere antico.
ISBN 978-88-7588-227-3, 2018, pp. 208, formato 140×210 mm., Euro 20 – Collana “Il giogo” [84]. In copertina: Frammento di cratere a calice a figure rosse [scena dell’Edipo Re di Sofocle] (330-320 a.C.) e Papiro de Oxirrinco [frammento degli Elementi di Euclide].
Edipo e Euclide rappresentano simbolicamente i due limiti estremi della razionalità greca. Il primo – nell’interpretazione che offre dell’Edipo re sofocleo il primo dei saggi qui raccolti – impersona una forma di razionalità indagatrice, che procede per indizi e per segni, e ha di mira la “scoperta”: una scoperta legata sempre alla circostanza particolare, al kairòs, all’individuo. Una razionalità, dunque, nella quale si riflettono l’indagine diagnostica e prognostica sia della medicina ippocratica sia della storiografia tucididea (che si presenta esplicitamente come una ricerca diagnostica sulla crisi di Atene).
All’estremo opposto si colloca la forma della razionalità che può andare sotto il nome di Euclide. La sua geometria costituiva già per gli antichi, e costituisce tuttora, un modello di pensiero astrattivo e dimostrativo, il luogo elettivo di un’idea forte della verità come acquisizione universalmente valida, incontrovertibile e immutabile. Come mostra l’ultimo dei saggi raccolti nel volume, la razionalità euclidea è l’asse teorico su cui si impernia gran parte della scienza ellenistica (sia pure con qualche eccezione).
Fu Galeno a tentare una sintesi di questi due stili di razionalità nel suo progetto di ricostruzione epistemologica della medicina, come indicano i due saggi che qui gli sono dedicati. Da un lato, egli continuava a ritenere che la medicina dovesse essere una techne di stile ippocratico, capace di diagnosticare e pronosticare le vicende individuali della malattia grazie a un’indagine semiologica di modello “edipico”. Dall’altro però era convinto che la medicina dovesse dotarsi di un robusto impianto teorico di tipo universalizzante e dimostrativo, alla maniera delle scienze forti di modello “euclideo”, sfidando le tensioni che questa doppia esigenza epistemologica veniva producendo nel suo pensiero.
Anche per il rigoroso razionalismo stoico conciliare la teoria di un’anima costituita dal solo logos con l’evidenza dell’insorgere nel soggetto umano di pulsioni irrazionali come le passioni costituiva un serio problema. Il capitolo IV del libro mostra come una delle spiegazioni stoiche abbia individuato nel condizionamento sociale ed educativo subito fin dalla primissima infanzia la matrice delle deviazioni passionali: la natura mette al mondo neonati buoni, ma i successivi processi di allevamento e di socializzazione lo predispongono a cedere all’irrazionalità delle passioni.
I saperi antichi vengono naturalmente forgiati da forme di razionalità intermedie od oblique rispetto agli estremi che ne abbiamo indicati. C’è il potente ricorso a modelli metaforici che rendono possibile e persuasivo il discorso scientifico intorno a fenomeni difficilmente accessibili o comprensibili. Così la metafora della politica agevola per i medici la comprensione dei processi somatici interni (cap. II), e quella derivata da un’esperienza tanto diffusa nella società romana come lo spettacolo circense orienta la costruzione del sapere di Plinio intorno al mondo animale (cap. V). La scimmia, infine, con il suo corpo troppo simile a quello umano, mette suo malgrado in contatto due mondi così lontani come quello leggero del gioco e dello spettacolo, da un lato, e dall’altro quello dell’anatomia e della vivisezione, con la sua razionalità scientifica “dura” (cap. III).
Nell’ambito dei miei studi, queste ricerche svolgono un ruolo di transizione. Da lato, continuano e sviluppano temi trattati ne Il coltello e lo stilo (1979), dall’altro anticipano quelli sull’etica antica e sulla medicina ellenistica e galenica, che avrebbero occupato i decenni successivi. Il comune orientamento metodologico di questo campo di studi è definito nel testo sulla Questione dei metodi, con il quale si apre il volume; i saggi raccolti possono venire letti come esempi e verifiche delle indicazioni che vi vengono discusse.
In questo doppio carattere, di lavori di ricerca e di esercizi di metodo, credo possa consistere il perdurante interesse dei saggi raccolti, e per questo mi è giunta benvenuta l’idea di riproporli al lettore per i tipi di Petite Plaisance.
Mario Vegetti
Dicembre 2017
Mario Vegetti, Scritti sulla medicina ippocratica.
ISBN 978-88-7588-225-9, 2018, pp. 416, formato 140×210 mm., Euro 30 – Collana “Il giogo” [86]. In copertina: Rilievo dal santuario di Anfiarao a Oropo, 400-350 a.C., Atene, Museo Archeologico Nazionale.
Ho esitato ad accettare la proposta dell’editore Carmine Fiorillo e dell’amico collega Luca Grecchi di raccogliere in volume i miei scritti sulla medicina ippocratica. Per la gran parte, infatti, essi risalgono a quasi cinquant’anni or sono, ed era evidentemente fuori questione tentarne un aggiornamento, che avrebbe equivalso a riscrivere larga parte della ricerca ippocratica del Novecento: in effetti, questi scritti avevano un carattere pioneristico, e non solo in Italia. Erano allora rari gli studi d’insieme sulla medicina greca di epoca classica, le edizioni commentate di singoli testi ippocratici, e naturalmente non si parlava ancora di Colloqui ippocratici internazionali, la cui serie iniziò nel 1972 dando luogo ad incontri via via più affollati di studiosi e di specialisti. Ma è stata poi proprio la precocità di questa stagione di studi, nell’ambito della vicenda mia personale e in quello della ricerca ippocratica in Italia, a convincermi infine ad accettare la proposta. Si respirava in quegli scritti un’aria di scoperta: l’emozione per l’incontro con un episodio fondativo alle origini della tradizione medica e del pensiero scientifico in Occidente, l’entusiasmo per l’esplorazione del più vasto continente di sapere scientifico che la cultura greca ci abbia lasciato prima di Aristotele e della geometria euclidea. Si trattava per giunta di una techne razionale – fra le prime a varcare la soglia della scrittura durante il V secolo a.C. – che offriva il modello di un sapere capace di coniugare conoscenza ed efficacia. Essa si collocava più sul versante semiotico, individualizzante della scienza che su quello dimostrativo-astrattivo, e costituiva quindi un suggestivo modello intellettuale per le scienze dell’uomo allora in corso di formazione, dalla storia alla politica, come mostrò precocemente Jaeger e come del resto aveva già intuito Platone. Nei saggi qui raccolti venivano seguiti due approcci principali nell’accostarsi a questo ricco ambito del sapere antico, entrambi del resto consoni all’atmosfera intellettuale degli anni Sessanta del secolo scorso. Il primo, e di gran lunga prevalente, era l’interesse per il metodo, concepito come il terreno di incontro cognitivo fra ragione ed esperienza, configurate così come i due poli del processo della conoscenza. Si trattava di un approccio orientato da una epistemologia di ispirazione kantiana, com’è facile vedere, ma che risultava adatto a mettere in luce la nascente sensibilità metodologica in cui consisteva uno dei tratti di originalità teorica del pensiero medico nel V secolo. Esso sembrava infatti proporre, in forme più o meno esplicite, una funzione della ragione come strumento di comprensione e di organizzazione significativa del materiale di esperienza, e dell’esperienza stessa come territorio disponibile al controllo cognitivo e anche operativo della ragione, che da esso comunque non poteva prescindere. Con questa idea di “metodo”, la medicina ippocratica sembrava trovare una sua via – la via propria di una techne – tra le due opposte “sostanzializzazioni”, della ragione e dell’esperienza. La prima veniva concepita dagli Eleati non in rapporto ma in opposizione all’esperienza, e costituiva dunque non solo uno strumento della verità, ma il suo unico contenuto. L’esperienza dei processi naturali veniva per contro concepita dagli Ionici come autoesplicativa, perché bastava la scelta di uno o più elementi della natura per spiegarne tutto il resto, senza l’impegno a costruire un discorso capace di darsi regole e giustificazioni metodiche eterogenee rispetto al mondo naturale. Il secondo approccio, più vicino questo a un’ispirazione marxista, comportava invece un’attenzione, allora non molto diffusa, all’ambiente sociale che aveva favorito lo sviluppo della medicina e del suo peculiare profilo intellettuale. Si trattava della polis democratica, teatro della crescita delle technai profane e secolarizzate, legate all’ambiente sociale dell’agorà, e della parallela crisi dei saperi tradizionali di matrice sacerdotale: il luogo culturale, dunque, dove il medico laico di affiliazione ippocratica poteva sfidare i sacerdoti guaritori dei templi di Apollo e di Asclepio, i purificatori, i maghi e gli indovini della tradizione. Sul piano filosofico, questo stesso ambiente della medicina era condiviso da un filosofo come Anassagora, il che contribuisce a spiegarne la particolare rilevanza per l’ippocratismo, come si insiste a più riprese nei lavori qui raccolti. A tanta distanza di anni, e dopo così rilevanti sviluppi nella ricerca, i loro limiti emergono con chiarezza: in parte possono venir considerati inevitabili visto l’entusiasmo pioneristico che li animava, in parte possono esser fatti risalire alle concezioni diffuse nella cultura del tempo, oltre che a inclinazioni proprie dell’autore. Quanto a queste ultime, credo si possa definire alquanto eccessiva l’enfasi posta sul rapporto, in positivo e in negativo, tra filosofia e medicina. È indubbio che le grandi correnti filosofiche abbiano influito, o tentato di influire, sulla formazione della concettualità medica: dopo tutto, è in Antica medicina che si trova la più antica citazione (polemica) di Empedocle e della sua “filosofia”; ed è altamente probabile che il nascente pensiero “ippocratico” possa aver rivolto la sua attenzione al magistero anassagoreo. D’altra parte, è ben nota la profonda impressione che la medicina destò in tutto l’arco del pensiero di Platone, sia nel suo versante metodico (come testimoniano il Fedro e il Carmide), sia nella sua esemplarità etico-politica, a più riprese sottolineata dal Gorgia alla Repubblica, dal Politico alle Leggi. Ma è prudente non immaginare un’intensa circolazione di libri e dottrine fra due aree così intellettualmente e anche professionalmente e socialmente lontane come la filosofia e la medicina delle origini, e fra ambiti geografici distanti come la Magna Grecia e la costa ionica dell’Asia minore. La stessa pur rilevante elaborazione metodologica prodotta dai medici del V secolo non avrà probabilmente avuto quella piena consapevolezza teorica e filosofica che tendevo ad attribuirle, quasi si trattasse non di Ippocrate ma – seicento anni più tardi – di Galeno. Tipico del tempo in cui prese forma la mia ricerca è invece un certo eccessivo ottimismo nella possibilità di risolvere la “questione ippocratica”, identificando le opere autenticamente attribuibili alla figura storica di Ippocrate, e persino tentando di leggerne l’evoluzione interna. Ero allora convinto che il “vero” Ippocrate fosse riconoscibile nelle opere tradotte nelle prime due sezioni del mio Ippocrate del 1964, che Ludovico Geymonat volle accogliere nella sua storica collana di “Classici della scienza”: L’antica medicina, Le arie le acque i luoghi, Il prognostico, Il regime nelle malattie acute, Male sacro, Le epidemie (libri I e III), Le ferite nella testa, Fratture e articolazioni; e che, di conseguenza, queste opere contenessero una dottrina medica coerente e unitaria. Continuo a pensare che, se ha senso cercare un nucleo “ippocratico” del Corpus, esso andrà più o meno cercato nel perimetro indicato, e che sia tanto difficile escluderne Antica medicina quanto includervi Il regime, come molti studiosi hanno sostenuto. Ma già nell’Introduzione del 1973 alla seconda edizione dell’Ippocrate manifestavo una giusta cautela sulla possibilità di raggiungere conclusioni definitive in proposito, e anche un certo scetticismo sull’utilità della modalità filologico-attribuzionistica della ricerca ippocratica, che rischiava di mettere in secondo piano la cosa più importante, cioè la comprensione storico-critica di opere e gruppi di opere, quale che ne fosse la presunzione di “autenticità” ippocratica. Più interessante mi sembra segnalare ora un abbaglio, o un equivoco, in cui incorrevano sia la mia ricerca sia gran parte della storiografia dell’epoca. Ne era motivo il pregiudizio classicistico, che assegnava un maggior valore culturale e sociale alle forme politiche e intellettuali appunto dell’età detta “classica” (V e IV secolo a.C.), e conseguentemente considerava epoche di decadenza quelle posteriori, a partire dall’ellenismo (un pregiudizio tenace che risaliva a Hegel ed è resistito fino a pochi decenni orsono). Aleggiava dunque la convinzione che la grande età della medicina greca fosse appunto quella ippocratica, e che la medicina posteriore, per quanto tecnicamente evoluta – dagli anatomisti alessandrini a Galeno – avesse perduto la carica innovativa e l’apertura intellettuale dei fondatori. Parallelo a quello epistemico, c’era il pregiudizio storico secondo il quale la grande età della storia greca era stata quella “periclea”, insomma l’età della polis matura, e che la successiva storia dei regni ellenistici fosse a sua volta una storia di decadenza politico-sociale. Non c’è bisogno di dire che gli sviluppi della ricerca, e la critica del classicismo, hanno fatto giustizia di entrambi questi pregiudizi. La medicina ellenistica e imperiale è stata riconosciuta come uno straordinario edificio di sapere teorico e di competenza tecnica, dai vasti orizzonti intellettuali e dal forte prestigio sociale (nella mia storia personale, questa svolta ha avuto luogo nel 1978, con l’avvio degli studi su Galeno, anch’essi stimolati da Ludovico Geymonat). Quanto al mondo dei regni ellenistici, ne sono stati generalmente riconosciuti i meriti nella promozione della cultura letteraria e scientifica, i successi tecnologici ed economici, lo spirito di tolleranza nei riguardi delle religioni e delle culture che facevano parte dei loro domini. Veniva certo meno l’intensa partecipazione dei cittadini alla vita politica comune, che era stata propria della polis; ma veniva anche meno la chiusura etnica e sociale di questa comunità di “autoctoni” di fronte agli stranieri, cui essa non riconosceva alcun diritto. È almeno discutibile che le scienze e le tecniche abbiano trovato nella polis un ambiente più favorevole al loro sviluppo rispetto ai regni ellenistici: la fondazione del Museo e della Biblioteca di Alessandria, oltre che di simili istituzioni nelle altre capitali ellenistiche, sembra dare decisamente un’indicazione contraria, anche se certo in questi casi si tratta di mecenatismo regio e non di deliberazione democratica. Una rilettura di questi testi, ricollocati così nelle coordinate culturali in cui videro la luce, ritengo possa mantenere un suo valore e una sua utilità per tutti i lettori interessati a comprendere lo sviluppo storico e le strutture intellettuali della medicina greca di epoca ippocratica – cioè dell’episodio fondativo dell’intera tradizione medica occidentale. Gli scritti sono presentati in ordine cronologico, ad eccezione delle due introduzioni del 1964 e del 1973, che sono poste al termine del volume per il loro carattere di trattazione complessiva. Non sono stati inclusi in questa raccolta scritti già comparsi nei volumi La medicina in Platone, Il Cardo, Venezia 1995, e Tra Edipo e Euclide. Forme del sapere antico, Il Saggiatore, Milano 1983. Non posso concludere questa premessa senza rivolgere il mio più caloroso ringraziamento all’editore Carmine Fiorillo, per lo straordinario impegno profuso nell’allestimento di questo volume.
Il volume raccoglie i principali scritti su Galeno e sul Galenismo composti da Mario Vegetti in circa un cinquantennio di attività. La selezione dei saggi qui pubblicati è stata realizzata dall’Autore negli ultimi mesi della sua vita. A causa della sua morte, avvenuta il giorno 11 marzo 2018, l’Autore non ha potuto rivedere le bozze.
Questo libro, cui l’Autore teneva tanto, ci consente di mantenere vivo il ricordo anche di questa parte della sua opera; ecco dunque il motivo per cui siamo lieti, insieme alla sua famiglia, di offrire ai lettori, soprattutto a quelli più giovani, la presente raccolta. Per la quale, innanzitutto, dobbiamo ringraziare Mario.
Sommario
Nota preliminare di Luca Grecchi
Introduzione a Galeno
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Tradizione e verità. Forme della storiografia filosofico-scientifica nel De placitis Hippocratis et Platonis di Galeno
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I nervi dell’anima
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Enciclopedia ed antienciclopedia: Galeno e Sesto Empirico
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Galeno e la rifondazione della medicina
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L’épistémologie d’Érasistrate et la technologie hellénistique
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La psicopatologia delle passioni nella medicina antica
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Historiographical strategies in Galen’s physiology (De usu partium, De naturalibus facultatibus)
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De caelo in terram. Il Timeo in Galeno (De placitis Hippocratis et Platonis, Quod animi mores corporis temperamenta sequuntur)
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Il confronto degli antichi e dei moderni in Galeno
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Galeno
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Corpo e anima in Galeno
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Corpo, temperamenti e personalità in Galeno
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Galeno, il “divinissimo” Platone e i platonici
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Fra Platone e Galeno: curare il corpo attraverso l’anima, o l’anima attraverso il corpo?
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I nuovi testi di Galeno: tra epistemologia e storia della cultura
Paola Manuli – Mario Vegetti, Cuore, sangue e cervello. Biologia e antropologia nel pensiero antico. In Appendice: Galeno e l’antropologia platonica.
ISBN 978-88-7588-028-6, 2009, pp. 288, formato 140×210 mm., Euro 25. Collana “Il giogo” [22]. In copertina: Asclepio cura un malato, rilievo in marmo, V secolo a.C.
Prefazione alla nuova edizione
Questo libro è esaurito da molti anni, e non è stato possibile ristamparlo perché la casa editrice Episteme, che l’aveva pubblicato nel 1977, ha nel frattempo cessato la sua attività. Mi è spesso accaduto di ascoltare il rammarico di studiosi che ne lamentavano l’irreperibilità, considerandolo ancora un utile strumento di lavoro. Quando l’editore CARMINE FIORILLO mi ha espresso la sua generosa disponibilità ad una riedizione del volume, ho tuttavia provato qualche incertezza. Provvedere a un aggiornamento risultava impossibile per due ragioni. La prima era la dolorosa e prematura scomparsa di PAOLA MANULI, autrice della parte sostanziale del lavoro (a me era spettato soltanto, oltre al progetto complessivo, la stesura dell’introduzione). La seconda consisteva nell’immensa mole di lavori scientifici comparsi nei trent’anni intercorsi dalla pubblicazione del libro: per limitarmi a qualche esempio, ricorderò solo gli atti dei numerosi colloqui ippocratici e galenici, le opere collettive sulla biologia di ARISTOTELE edite da GOTTHELF, LENNOX, PELLEGRIN e KULLMANN, il libro della DUMINIL sul sangue e il cuore nel Corpus Hippocraticum (1983), il volume della ANRW su GALENO (II 37.2, 1994), gli studi di G.E.R. LLOYD; e citerò da ultimo tre recentissime e importanti ricerche in lingua italiana, quella di D. QUARANTOTTO sul finalismo nella scienza aristotelica (2005), quella di R. LO PRESTI sull’encefalocentrismo ippocratico (2008), e quella di T. MANZONI sul cervello in ARISTOTELE (2007). Una rilettura del libro mi ha tuttavia convinto che nonostante tutto esso conservi ancora motivi di attualità tali da renderne opportuna e motivata una riedizione. Vorrei indicarli schematicamente in quattro punti.
1. L’opera non si limita ad una ricostruzione degli atteggiamenti del pensiero scientifico antico in merito al problema di individuare la parte egemonica del complesso psico-somatico. C’è inoltre uno sforzo intelligente e sistematico di integrare questi atteggiamenti all’interno di una serie di veri e propri paradigmi epistemologici, che mette in chiaro come le opzioni intorno a questo problema si inseriscano in un quadro complesso di posizioni gnoseologiche e di scelte filosofiche, come risultino solidali rispetto a tutta una costellazione di conoscenze scientifiche, di pratiche tecniche e anche di pregiudizi ideologici, che in ultima istanza risultano riferibili a concezioni rivali circa il rapporto fra uomo e natura. In questo senso, il libro presenta ancora a mio avviso un rilevante interesse di ordine metodico, come saggio di un’interpretazione della scienza antica che non si limita a un repertorio di “progressi” e di “errori”, ma si sforza di comprendere l’insieme delle ragioni che motivano (non certo meccanicamente) sviluppi, regressi, aporie, innovazioni e contraddizioni.
2. Il libro presenta inoltre una sostanziale novità storiografica, che non mi risulta sia stata superata dalla letteratura critica più recente, e di cui anzi forse non sono ancora state pienamente sviluppate tutte le potenzialità euristiche. Si tratta della distinzione (nel campo degli avversari dell’encefalocentrismo) fra un paradigma cardiocentrico, ben noto grazie ad ARISTOTELE, e un paradigma emocentrico, che spesso, ma erroneamente, viene identificato con il cardiocentrismo. PAOLA MANULI non solo ha identificato con chiarezza questo secondo paradigma, che risale a EMPEDOCLE, ma soprattutto ne ha seguito la persistenza, spesso meno evidente ma non per questo meno efficace, dal Timeo platonico allo stesso ARISTOTELE e persino in GALENO, dove residui emocentrici appaiono tanto insuperati quanto latori ci contraddizioni e difficoltà di ricomposizione sistematica. Si tratta a mio avviso di un contributo tuttora prezioso per una comprensione non frettolosa e schematica dell’intera storia del pensiero biologico antico.
3. Il commento al peri kardies, nonostante che le opinioni sulla cronologia tendano oggi ad una datazione più bassa, resta di grande utilità per precisione di analisi e ricchezza di informazioni critiche, che offrono un quadro problematico ancora indispensabile all’interpretazione di quest’opera per molti aspetti enigmatica.
4. L’appendice su GALENO, infine, costituisce un pionieristico repertorio critico dei problemi relativi all’anatomo-fisiologia, alla psicologia e all’antropologia galeniche – problemi che sono tuttora al centro delle ricerche in questo settore – nonché una indagine penetrante intorno alle strategie con le quali GALENO affronta la tradizione da cui dipende, operando a volte un sapiente montaggio delle sue actoritates (in primo luogo IPPOCRATE, PLATONE, ARISTOTELE), a volte invece contrapponendole per finalità polemiche (come ad esempio IPPOCRATE e PLATONE contro ARISTOTELE e gli stoici sul tema del cardiocentrismo).
Mi sono sembrate, queste ed altre, buone ragioni per accettare volentieri e con gratitudine la proposta dell’editore di ripubblicare Cuore sangue e cervello, che viene in questa nuova veste corredato da un indice delle opere e degli autori citati. Spero che l’opera risulti utile e ben accetta agli studiosi; per quanto mi riguarda, considero questa nuova edizione anche come una rinnovata testimonianza del ricordo di PAOLA MANULI, la cui persona e il cui lavoro sono tuttora ben presenti nella memoria della comunità scientifica.
ISBN 88-7588-014-X, 2007, pp. 160, formato 140×210 mm., Euro 15 – Collana “Il giogo” [18]. In copertina: Kouros, IV secolo a. C. Atene, Museo Archeologico Nazionale.
Prefazione
1. Non avrei mai pensato di raccogliere questi scritti, se non fosse stato per la cortese e generosa insistenza dell’amico Luca Grecchi e dell’editore Carmine Fiorillo. A loro va dunque, nel bene e nel male, la responsabilità dell’esistenza di questo piccolo volume. A me spetta tuttavia di giustificare – nei limiti del possibile – l’accoglimento della loro proposta. Quello che mi ha colpito, nel rileggere questi testi dispersi in sedi molto diverse lungo l’arco di più di un quarto di secolo, è stata in primo luogo la loro coerenza. Devo dire subito che non ritengo che la coerenza sia necessariamente una virtù: essa può significare in effetti testardaggine cocciuta, miopia e sordità nei confronti di ciò che di nuovo accade nelle cose e nelle idee, insomma anelasticità intellettuale. Ci può tuttavia essere qualcosa di virtuoso nella coerenza. Si tratta – per prelevare due parole dal lessico caro a Franco Fortini – dei suoi aspetti di insistenza e resistenza. Insistenza, nel senso non di ribadire tesi e dogmi, ma di continuare tenacemente a porre, e a pormi, problemi e domande, senza variare disinvoltamente il punto di vista da cui l’interrogazione viene posta, e accettando invece l’apertura e la variabilità della gamma delle risposte cercate. E anche nel senso di rifiutare la convinzione secondo la quale sconfitte storiche sono di per sé la prova di errori nella teoria: convincersi di “aver sbagliato” perché si è perduto rappresenta secondo me il residuo di una concezione teologica (il nemico è uno strumento divino per punirci delle nostre colpe). Qualche volta può essere così, ma più spesso l’avversario vince semplicemente perché è più forte sul terreno. E resistenza: che significa accettare i mutamenti imposti dalla riflessione e dalle cose stesse su cui ci si interroga, ma invece rifiutare pentitismi compiacenti, cedimenti corrivi alle mode correnti o alle “luci della ribalta”; restare fedeli, insomma, a ciò che di noi hanno fatto la nostra storia intellettuale e morale, da un lato, la nostra collocazione in un mondo, dall’altro (insomma, in lettere minuscole, il nostro destino). Almeno in questo senso, la coerenza può forse risultare una virtù, e questa è stata la prima ragione che mi ha indotto ad accettare la proposta di raccogliere questi scritti, affidandoli volentieri a un piccolo ma coraggioso editore. Scritti con la mano sinistra, appunto. Ovviamente nel doppio senso che si tratta, da un lato, di scritti marginali, parerga, rispetto al mio impegno professionale di studioso della filosofia antica; dall’altro, di scritti che rispecchiano più direttamente la mia collocazione politica, la mia presa di partito (questa espressione non ha naturalmente a che fare con appartenenze di “tessera”, ma con una decisione di fondo, la scelta “da che parte stare”). “A sinistra”, dunque. Una posizione alla quale mi consegnano la mia tradizione familiare, il mio percorso intellettuale e morale, la mia convinzione di un futuro possibile alternativo alla barbarie che attraversa il nostro tempo e ne minaccia l’orizzonte. Un futuro comunista, anche: con la necessaria precisazione che per “comunismo” non intendo un’identità ereditata e conclusa, in qualche misura “anagrafica” o certificata da un’iscrizione, ma appunto un orizzonte di ricerca e di azione, una prospettiva di liberazione e di giustizia, che si situa all’intersezione fra la parzialità della “presa di partito” e l’universalità che appartiene ai valori. Un’utopia, forse, della quale non nego l’ascendenza platonica oltre che giacobina e marxiana, che tuttavia, se vuole essere presa sul serio, deve poter individuare i suoi vettori storici di realizzabilità, le sue condizioni di possibilità, i livelli concreti di attuazione parziale e approssimata. È appena il caso di aggiungere che in questi scritti non devono venire cercati né la chiave di lettura né il senso “segreto” dei miei lavori professionali di ricerca nel campo della storia della filosofia antica. Come ogni indagine disciplinare e a suo modo “scientifica”, essi contengono in se stessi, cioè nella relazione interpretativa che istituiscono con i testi e gli autori, e negli strumenti di metodo dichiaratamente messi in opera, le condizioni per la propria validità, e presentano il proprio specifico ambito di significazione. Stabilita questa necessaria clausola di salvaguardia, sarebbe tuttavia ingenuo, e anche a mio avviso metodicamente erroneo, assumere una perfetta “neutralità” dell’osservatore di fronte ai suoi oggetti di indagine, o una totale immunità di questa indagine dalla posizione extra-scientifica dello studioso. Ingenuo, erroneo e dal mio punto di vista anche inammissibile: credo infatti che la stessa tensione razionale, lo stesso sforzo di comprensione e argomentazione, ispirino e sorveglino (o almeno dovrebbero sorvegliare) sia il lavoro di ricerca sia la “presa di partito” che coinvolge l’uomo prima che il ricercatore. Può darsi, dunque, che questi “scritti con la mano sinistra”, dichiarando esplicitamente la seconda senza riguardo per la finzione di “neutralità” del primo, contribuiscano a definire più chiaramente gli interessi intellettuali, i punti di vista da cui vengono formulate le domande di senso messe in questione nell’indagine storica. Anzi, l’esser consapevoli della propria parzialità può evitare di cadere in una tentazione, di commettere un errore storiografico in cui spesso si incorre, più o meno ingenuamente: quelli di “piantare le proprie bandierine” sul campo di indagine, cioè di riconoscere nel passato “precursori” delle idee in cui si crede (che siano il comunismo o il socialismo o il liberalismo o il cristianesimo: quanto spesso xe “Platone”Platone è stato arruolato sotto queste insegne?). Si tratta di un errore particolarmente funesto, perché lo studio del passato non serve allora a conoscere il passato stesso e per suo tramite a comprendere meglio noi stessi, bensì soltanto, narcisisticamente, a specchiarsi nel passato per riconoscervisi: il che non porta ad alcun incremento di comprensione né da una parte né dall’altra.
2. Questo libro è diviso in tre parti. La prima, Tra filosofia e politica, comprende scritti che discutono alcune problematiche filosofiche rilevanti dal punto di vista di interrogazioni che vengono, in senso lato, dalla politica. Che cosa significa la “crisi della ragione” e delle sue pretese universalistiche, tematizzata nel dibattito filosofico dell’ultimo scorcio del Novecento, dal punto di vista dei conflitti sociali e valoriali? Qual è il rilievo dell’esaurimento teorico della filosofia storicistico-dialettica dello “sviluppo”, e la sfida che esso propone a un pensiero non evoluzionistico della rivoluzione come progetto di emancipazione? Quale autonomia e quale ruolo restano all’intellettuale, e in particolare al filosofo, di fronte al dominio dei poteri sociali di conformazione della soggettività? Infine: c’è ancora uno spazio possibile per una prospettiva etica come orizzonte di senso della politica? Intorno a queste domande insistenti si articola la riflessione sviluppata – certo in modo solo incoativo – in questo primo gruppo di scritti. La seconda sezione si intitola, per contro, Tra politica e filosofia. Qui l’oggetto di indagine sono le prospettive della politica considerate da un punto di vista filosofico. Un primo nodo problematico è costituito dalle condizioni di possibilità di una soggettività collettiva antagonista (il “partito dei comunisti”) nell’epoca del tardo-capitalismo in cui si è prodotto il progressivo logoramento delle grandi strutture di formazione di identità sociale (la fabbrica, il sindacato, l’esercito), in altre epoche capaci di esprimere una propria guida e rappresentanza politica. Emerge qui l’urgenza di pratiche collettive intese primariamente a “fare società”, cioè a creare legami sociali e progettualità collettive di cui la politica possa farsi interprete e strumento. E ancora una volta la questione dell’etica si profila come decisiva per costruire forme nuove di aggregazione sociale. Un compito imprescindibile in questa prospettiva è quello di comprendere le ragioni della crisi dei modelli di stato e di società storicamente sperimentati dal movimento operaio e dai suoi partiti nel corso nel Novecento, e in primo luogo delle forme del cosiddetto “socialismo reale”. Ma altrettanto importante è riflettere – al di fuori delle semplificazioni propagandistiche e delle deformazioni ideologiche – sui temi della guerra e della “violenza”, tanto nelle loro dimensioni antropologiche quanto nelle implicazioni politiche che vi sono connesse. Infine, e soprattutto, c’è l’esigenza imprescindibile di immaginare un futuro possibile, come orientamento della prassi quotidiana e anche come presupposto di un recupero valoriale della tradizione, ai fini della ricostruzione di una soggettività progettuale, di una nuova presa di coscienza della storicità capace di uscire dalle secche del “pensiero unico” e dalla minaccia della “fine della storia”. Al pari della società, la storicità non è un dato di fatto che si possa considerare acquisito, ma un obiettivo da costruire, un compito da perseguire, insomma una possibilità che non è garantita ma deve venir prodotta nell’azione collettiva di comprensione e di trasformazione. La terza sezione, Fra gli antichi e noi, torna ad una riflessione sulla società e il pensiero dell’antichità dal punto di vista delle prospettive filosofico-politiche che si sono venute fin qui delineando. Da un lato si discutono le possibilità e i limiti di un’impiego delle categorie marxiane per l’interpretazione delle forme sociali e culturali del mondo antico: si tratta ancor oggi di uno strumento euristico indispensabile, anche per rettificare vedute dell’antico ingenue o ideologiche che ne oscurino il carattere profondamente conflittuale; uno strumento che va però maneggiato con cautela metodica e consapevolezza critica, vista la differenza che intercorre fra il sistema sociale del capitalismo moderno, in cui quelle categorie si sono formate, e la struttura delle “forme economiche pre-capitalistiche” su cui ci interroghiamo. Dall’altro lato sono in questione importanti episodi di reinterpretazione dell’antico da parte del pensiero contemporaneo, come le recenti indagini di M. Foucault sull’etica e l’antropologia antiche, e la vicenda novecentesca delle interpretazioni del pensiero politico di Platone, con i suoi abusi ideologici. Questo stesso pensiero viene infine indagato in due direzioni: l’utopia della comunità “giusta”, da un lato, e la critica – non disgiunta da un’inquietante attrazione – per una forma di potere politico assoluto ed efficace quale fu rappresentata nel IV secolo dalla tirannide: il circolo in questo modo si chiude, perché l’utopia della comunità giusta e la prospettiva del potere tirannico come strumento di trasformazione sociale ci riportano prepotentemente a questioni centrali della riflessione politica contemporanea.
3. Grandi interrogativi, dunque, per piccoli scritti. Che non aspirano davvero a fornire risposte, e neppure, in molti casi, a formulare le domande in modo filosoficamente adeguato. Ma che possono, forse, rivendicare a proprio merito lo sforzo di tenere aperto lo spazio dell’incertezza, di riproporre l’urgenza della riflessione, resistendo sia al cedimento di fronte all’omologazione del pensiero, sia alla rassegnazione di fronte all’estrema durezza dell’epoca. Non si tratta di un compito esclusivo del filosofo, e tanto meno dell’antichista, perché esso coinvolge la responsabilità morale e intellettuale di ognuno. Ma se sarà riuscito a riproporre, con la sua insistenza, un richiamo a questa responsabilità, a suscitare qualche consenso e naturalmente molti dissensi intorno al suo modo (certo controvertibile) di porre questioni e di condurre il ragionamento, questo piccolo libro non avrà del tutto deluso la fiducia di coloro cui si deve il progetto della sua realizzazione, e le speranze del suo autore.
Mario Vegetti
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Tra le tante verità con cui la crisi ci costringe a fare i conti, una delle principali riguarda la forza delle idee, o meglio dell’ideologia.
La capacità di resistenza dell’ideologia dominante, la tenuta del “pensiero unico” si sono dimostrate tali che, persino entro la peggiore crisi del capitalismo dagli anni Trenta a oggi, tutti i luoghi comuni caratteristici di quella ideologia hanno continuato ad operare, fuori tempo massimo. La “razionalità dei mercati”, lo Stato “che deve dimagrire”, la “necessità” delle privatizzazioni, le liberalizzazioni come “toccasana per la crescita”, la “deregolamentazione del mercato del lavoro” come ingrediente essenziale contro la disoccupazione: praticamente nessuno di quei luoghi comuni, che proprio la crisi scoppiata nel 2007 si è incaricata di smentire clamorosamente, ci viene risparmiato.
Di slogan in slogan, di frase fatta in frase fatta, il distacco dalla realtà è aumentato sino a diventare patologico. Sino a far suggerire, come terapia per i nostri problemi economici, un potenziamento delle stesse misure che li avevano creati.
Il medico che ha peggiorato le condizioni del paziente incolpa il paziente dell’inefficacia della cura, e gli prescrive una dose maggiore. Mentre è evidente che il problema consiste in quelle misure e non in una loro maggiore o minore implementazione. Ovviamente, la soluzione sarebbe cambiare terapia. Ma per far questo ci si dovrebbe affrancare dal ricettario liberista.
L’attenzione rivolta alla sola ideologia del laissez faire ha distolto l’ordinaria critica antisistema dall’esame delle pratiche e dei dispositivi incoraggiati, o esercitati direttamente, dai governi. È stata la dimensione strategica delle politiche neoliberiste ad essere paradossalmente trascurata nella critica antiliberista standard, nella misura in cui tale dimensione strategica è inclusa in una “razionalità globale” che è passata inosservata.
Se infatti il liberismo classico faceva riferimento alla necessità per la politica di praticare nient’altro che un’astensione volta a favorire la spontaneità intrinseca ai processi economici, il neoliberalismo chiede alla politica (all’intera società) non tanto di star ferma, quanto di costruire artificialmente e attivamente le condizioni di possibilità affinché la dinamica economica possa fare il suo «corso naturale».
Non ci troviamo di fronte ad una semplice ritirata dello Stato, ma ad un rinnovato impegno politico dello Stato, fondato su nuove basi, nuovi metodi e nuovi obiettivi. Il politico pertanto, lungi dallo sparire sopraffatto dall’economico, diventa la posta in palio, il terreno di gioco della razionalità neoliberale.
Il segreto dell’arte del potere –diceva Bentham– è fare in modo che l’individuo persegua il proprio interesse come se fosse il suo dovere e viceversa. La strategia neoliberista – fedele a tale principio – consiste nel creare il numero maggiore possibile di situazioni di mercato, nell’organizzare tramite privatizzazioni, messa in concorrenza dei servizi pubblici, “mercatizzazione” di scuole, ospedali, ecc. l’“obbligo di scegliere”, affinché gli individui accettino la situazione di mercato come “realtà”, come unica “regola del gioco”.
La “libertà di scelta” si identifica con l’obbligo di obbedire a una condotta massimizzatrice, in un quadro legale, istituzionale, relazionale, che è costruito in modo tale che l’individuo scelga “in piena libertà” ciò che deve necessariamente scegliere nel proprio interesse.
Ogni soggetto è portato a considerarsi e a comportarsi in tutte le dimensioni della sua esistenza come un portatore di capitale da valorizzare: studi universitari a pagamento, costituzione di un fondo pensione individuale, acquisto dell’abitazione, investimenti a lungo termine in titoli di Borsa, sono tutti aspetti che hanno lentamente eroso le logiche della solidarietà.
Ciò che è stata chiamata “deregolamentazione”, un termine equivoco che potrebbe far pensare che il capitalismo non abbia più alcuna regolamentazione, non è in realtà altro che un nuovo ordinamento delle attività economiche, dei rapporti sociali e dei comportamenti. L’idea centrale di questo orientamento è che la libertà concessa agli attori privati che beneficiano di una maggiore conoscenza dello stato degli affari e del proprio interesse, sia sempre più efficace dell’intervento diretto e della regolazione pubblica.
Gli Stati hanno abbondantemente contribuito alla creazione di un ordine che li ha sottomessi a nuovi vincoli, che li ha portati a comprimere salari e spesa pubblica, a ridurre i “diritti acquisiti” giudicati troppo costosi, a indebolire i meccanismi di solidarietà, eccetera.
Il calo delle imposte sui redditi più elevati e sulle imprese è presentato come un modo di incentivare l’arricchimento e l’investimento. Riuscendo a far dimenticare che il calo dei prelievi obbligatori per gli uni aveva necessariamente una contropartita per gli altri, i governi neoliberisti hanno strumentalizzato i “buchi” scavati nei budget per denunciare il costo “esorbitante” e “insostenibile” della previdenza sociale e dei servizi pubblici. Il bilancio statale diviene così uno strumento di disciplina dei comportamenti.
Questo vincolo è stato impiegato come disciplina sociale e politica per scoraggiare, a causa dell’inflessibilità delle regole stabilite, qualsiasi politica che cercasse di dare la priorità all’occupazione, che volesse soddisfare le rivendicazioni salariali o rilanciare l’economia e la spesa pubblica.
Il meccanismo è semplice: i governi abbassano la tassazione e poi prendono in prestito da coloro che decidono di non tassare. Gli interessi sul debito rendono così possibile un trasferimento di ricchezza a vantaggio dei detentori dei titoli di debito.
Un gran numero di ricerche, rapporti, saggi, ecc. –finanziati da think tank di stampo liberal-conservatore– cercarono nel corso degli anni di effettuare un bilancio dei costi e dei vantaggi dello Stato, per concludere con un verdetto inappellabile: le indennità di disoccupazione e i redditi minimi sono responsabili della disoccupazione, il welfare sanitario approfondisce il deficit e provoca l’inflazione dei costi, la gratuità degli studi ne intacca la serietà e porta al nomadismo degli studenti, le politiche di redistribuzione del reddito non riducono le diseguaglianze ma scoraggiano gli sforzi, le politiche urbane non hanno messo fine alla segregazione ma hanno appesantito la fiscalità locale.
Si tratta di porre in tutti i campi il quesito dell’utilità dell’interferenza statale nell’ordine del mercato, e di dimostrare che, nella gran parte dei casi, le soluzioni apportate dallo Stato creano più problemi di quanti non ne risolvono.
Ma la questione del costo dello stato sociale non si limita affatto alla sola dimensione contabile. Secondo molti polemisti, è sul terreno morale che l’azione pubblica può avere gli effetti peggiori. Lo Stato previdenziale ha deresponsabilizzato gli individui e li ha dissuasi dal cercare lavoro, dal terminare gli studi, dal prendersi cura dei propri figli, dal premunirsi contro le malattie dovute a pratiche nocive. Il rimedio consiste dunque nel mettere in moto meccanismi del calcolo economico individuale in tutti i campi e a tutti i livelli, ed il bilancio statale diviene uno strumento di disciplina dei comportamenti.
Il fatto è che l’intervento dello Stato previdenziale si basa su una concezione dell’individuo come “creazione dell’ambiente [ed esso non deve di conseguenza] essere ritenut[o] responsabile per il [suo] comportamento”(1). Si deve rovesciare questa rappresentazione e considerare l’individuo come pienamente responsabile.
Se l’individuo è il solo responsabile della propria sorte, la società non gli deve nulla. La vita è una costante “gestione dei rischi” che richiede una rigorosa astensione dalle pratiche pericolose, il controllo permanente di sé, una regolazione dei propri comportamenti che combini ascetismo e flessibilità.
La parola d’ordine della società del rischio è “autoregolazione”. Si devono sensibilizzare i malati, gli scolari e le loro famiglie, gli studenti, gli individui in cerca di occupazione, sobbarcandoli di una parte sempre crescente del “costo” che rappresentano.
La vita si presenta unicamente come risultato di scelte individuali. L’obeso, il delinquente o il cattivo scolaro sono responsabili della propria sorte. La malattia, la disoccupazione, il fallimento scolastico e l’esclusione sono considerati conseguenze di “calcoli sbagliati”.
Tali problematiche confluiscono in una visione contabile dei capitali che ognuno accumulerebbe e gestirebbe per tutto il corso della vita. Le difficoltà dell’esistenza, l’infelicità, la malattia e la miseria sono fallimenti di questa gestione, per difetto di lungimiranza, prudenza, risolutezza di fronte ai rischi.
Da qui il lavoro di “pedagogia” che va intrapreso perché ciascuno si consideri in possesso di un “capitale umano” da far fruttificare; da qui la messa in atto di dispositivi destinati ad “attivare” gli individui obbligandoli a prendersi cura di sé, a educarsi, a trovare un lavoro.
La caratteristica del neoliberismo è proprio quella di pensare il modello della razionalità economica come solo parametro possibile con cui interpretare tutte le dimensioni dell’esistenza umana. Gary Becker –Chicago boy divenuto Nobel per l’economia nel 1992– fu premiato precisamente per aver esteso l’analisi della microeconomia anche a quegli ambiti di comportamento che non rientrano nella logica di mercato (al non-economico potremmo dire).
Costui scrive: «Ogni condotta che accetta la realtà, è soggetta alla razionalità economica»2. Ogni condotta che accetta la realtà vuol dire ogni condotta che non sia follia: in altri termini, se non siete matti, la logica dei vostri atti rientra –e deve rientrare– nella razionalità economica.
La strategia neoliberista è consistita e consiste tuttora nell’orientare sistematicamente la condotta degli individui come se fossero sempre e dappertutto impegnati in relazioni di transazione e concorrenza su un mercato. Le misure di “responsabilizzazione” dei soggetti non sono tuttavia state esclusivo appannaggio dei governi conservatori o dei partigiani della “libertà dei mercati” alla Friedman-Becker. Hanno trovato alcuni dei migliori difensori nella sinistra europea, come prova la famigerata Agenda 2010 del cancelliere tedesco Gerhard Schroeder.
Per fare un esempio, la politica occupazionale portata avanti dall’allora ministro socialista Peter Hartz stabilì che l’aiuto dello Stato ai richiedenti impiego è strettamente condizionato alla loro docilità nell’accettare i lavori proposti. Secondo tale prospettiva la disoccupazione non sarebbe altro che un’inclinazione dell’agente economico all’ozio quando quest’ultimo è sovvenzionato dalla collettività, e sarebbe dunque “volontaria”.
L’indennizzo dei disoccupati non farebbe altro che creare “trappole del welfare”. La soluzione proposta non fu tuttavia sopprimere qualsiasi assistenza ai disoccupati, ma di fare in modo che l’aiuto conducesse ad una maggiore docilità dei lavoratori privi d’impiego.
Tali politiche mirano ad “attivare” il mercato del lavoro (penalizzando il lavoratore disoccupato) affinché costui sia incoraggiato a ritrovare un lavoro il più presto possibile, senza potersi accontentare troppo a lungo degli aiuti ricevuti.
L’individuo “in cerca di impiego” deve diventare soggetto-attore della propria impiegabilità, un self-entreprising che si prende carico di se stesso, ed i diritti alla previdenza divengono sempre più subordinati a dispositivi d’incentivazione e di penalizzazione (3).
Non si tratta più, come nel welfarismo, di ridistribuire i beni secondo un certo regime di diritti universali alla vita, ovvero sanità, istruzione, integrazione sociale e partecipazione politica. La lotta alle disuguaglianze, che era centrale nel vecchio progetto socialdemocratico, è stata rimpiazzata dalla “lotta alla povertà”, secondo un’ideologia dell’“equità” e della “responsabilità individuale” teorizzata ad esempio da alcuni intellettuali della “nuova sinistra” europea capeggiati dal blairiano Anthony Giddens.
Il programma politico neoliberista di Margaret Thatcher e Ronald Reagan all’inizio si presentò come un insieme di risposte ad una situazione giudicata “ingestibile”. Questa dimensione è perfettamente evidente nel rapporto della Commissione Trilaterale intitolato The Crisis of Democracy (4), un documento chiave che testimonia la coscienza dell’“ingovernabilità” delle democrazie.
La caratteristica prima del blairismo fu la ripresa dell’eredità thatcheriana, considerata non come una politica da invertire, ma come un fatto acquisito.
La missione che si attribuì il New labour fu portare risposte di centro-sinistra nel nuovo quadro imposto dal neoliberismo, considerato come un dato irreversibile. La parola chiave di tale linea politica era l’adattamento degli individui alla nuova realtà, piuttosto che la loro protezione contro gli azzardi di un capitalismo mondializzato e finanziarizzato. La politica della sinistra moderna dovrebbe aiutare gli individui ad aiutarsi da sé, ovvero a “cavarsela” in una competizione generale che non è mai messa in discussione in quanto tale.
Il neoliberismo, dal momento che ispira politiche concrete, nega di essere ideologia perché è la ragione stessa. È così che politiche molto simili fra loro possono adattarsi al modello delle retoriche più disparate, manifestando in questo modo la loro estrema elasticità. Vediamo così una delle cause del completo crollo dottrinale della sinistra nel corso degli ultimi anni. Se si ammette che i dispositivi pratici della gestione neoliberista siano i soli efficaci, se non i soli praticabili (e in ogni caso gli unici che si possono immaginare), si capisce come risulti impossibile opporsi ai princìpi che ne costituiscono il fondamento, o mettere effettivamente in discussione i risultati a cui conducono.
Non resta che la logica della persuasione retorica, ovvero denunciare a voce alta quello che a bassa voce si accetta.
Se le cose stanno così, come si spiega l’assenza di movimenti di protesta significativi? Il motivo dell’assenza di reazione, come recitava un articolo del Financial Times di qualche anno fa, va ricercata nel fatto che «il tenore di vita delle persone con redditi medio-bassi ha cominciato ad essere almeno in parte sganciato dall’andamento del reddito da lavoro» (5). Il risultato era la quadratura del cerchio, il sogno di ogni capitalista: un lavoratore che vede diminuire il proprio salario, ma che nonostante questo consuma come (e a volte più) di prima.
Per decenni, la risposta al pericolo della stagnazione economica è stata rappresentata dalla crescita del debito e della finanza. L’esplosione della finanza e del credito ha infatti svolto una triplice funzione:
1) mitigare le conseguenze della riduzione dei redditi da lavoro sui consumi;
2) puntellare i settori industriali afflitti da un eccesso di capacità produttiva;
3) fornire alternative più redditizie rispetto agli investimenti nel settore manifatturiero (6).
Da questo punto di vista, la finanza non è la malattia, ma il sintomo della malattia e al tempo stesso la droga che ha permesso di non avvertirla (e che quindi l’ha cronicizzata).
Tutte le politiche economiche e sociali hanno integrato come dimensione principale quest’adattamento alla globalizzazione, cercando di aumentare la reattività delle imprese, di diminuire la pressione fiscale sui redditi da capitale e sui gruppi privilegiati, di disciplinare la manodopera, di abbassare il costo del lavoro ed aumentare la produttività.
I dirigenti dei governi e degli organismi internazionali potranno così sostenere che la globalizzazione è “fatale” pur aprendosi continuamente alla creazione di questa presunta fatalità.
Si assiste così ad un ribaltamento completo della critica sociale: se fino agli anni Settanta la disoccupazione, le diseguaglianze sociali, l’inflazione, l’alienazione, tutte le “patologie sociali” erano messe in relazione con il capitalismo, dagli anni Ottanta sono ormai attribuite sistematicamente allo Stato.
Al contempo attori e oggetti della concorrenza mondiale, gli Stati sono sempre più soggetti alla ferrea legge di una dinamica della globalizzazione che in larga parte sfugge al loro controllo. La lotta contro l’inflazione diviene così la priorità delle politiche, mentre il tasso di disoccupazione si trasforma in semplice “variabile di aggiustamento”. Qualunque lotta per la piena occupazione viene perfino sospettata d’essere un fattore passeggero di inflazione.
La teoria friedmaniana del “tasso di disoccupazione naturale” viene largamente accettata dai responsabili politici di ogni colore.
Per chiarire la natura originale e rivoluzionaria del neoliberismo è utile analizzare un concreto caso, particolarmente significativo sia per la sua “purezza” paradigmatica che per la sua attualità: l’economia sociale di mercato. Questa espressione ricorre frequentemente nel dibattito politico odierno, di solito senza nessuna contestualizzazione storica e ideologica.
Spesso infatti la si utilizza in senso generico, per designare un ipotetico modello sociale a metà strada tra laissez-faire liberista e interventismo statalistico. Insomma, una “buona via di mezzo” che salvaguarda sia i meccanismi virtuosi del mercato sia le garanzie sociali del tradizionale Welfare State. Da questo punto di vista schierarsi a favore dell’economia sociale di mercato sembrerebbe quasi una questione di buon senso, cui sarebbero estranei solo i fondamentalisti del liberismo più anarchico e quelli della pianificazione spinta.
Ecco allora che una formula apparentemente vaga e “neutra” finisce addirittura nel Trattato di Lisbona, secondo il quale «lo sviluppo sostenibile dell’Europa» deve essere «basato (…) su un’economia sociale di mercato fortemente competitiva» (7). Dal canto loro numerosi politici di tutti gli schieramenti hanno espresso la loro preferenza per questo modello; ad esempio Mario Monti è noto per esserne un convinto sostenitore, come ha avuto modo di ribadire in più occasioni (8).
In realtà le cose non sono così semplici. «Economia sociale di mercato» è un’espressione tecnica molto precisa, che designa le politiche neoliberiste varate in Germania a partire dall’immediato dopoguerra. A renderla celebre è infatti Ludwig Erhart, ministro dell’economia tedesco dal 1949 al 1963 nonché cancelliere dal 1960 al 1963 ed artefice, vero o presunto, del “miracolo economico tedesco” nella Repubblica federale di questi anni. Tuttavia, come vedremo, essa non è comparsa magicamente dal nulla, ma nasce nel contesto di una specifica corrente di pensiero, il cosiddetto ordoliberalismo.
Sorto intorno alla rivista Ordo nella Germania degli anni Trenta, l’ordoliberalismo è spesso usato come sinonimo di “Scuola di Friburgo”, la fucina del pensiero neoliberale tedesco. Sono inclusi in questa tendenza culturale economisti e filosofi quali Walter Eucken, Franz Böhm, Leonhard Miksch, Hans Großmann-Doerth e Wilhelm Röpke. Röpke e Eucken furono anche consiglieri personali di Ludwig Erhart, il quale rimase profondamente influenzato dal loro pensiero, tanto da essere a volte annoverato lui stesso tra gli ordoliberali.
Dunque è possibile parlare di una dottrina neoliberista tedesca, sebbene il neoliberismo sia tradizionalmente associato alla Scuola di Chicago e a quella di Vienna. Anzi, secondo il Michel Foucault delle splendide lezioni poi confluite nel volume Nascita della biopolitica (vedi bibliografia), l’ordoliberalismo esprime le caratteristiche peculiari del neoliberalismo ancor meglio del suo corrispettivo anglosassone, che per ragioni storiche conserva molti tratti del liberalismo classico. In ogni caso le due correnti si sono influenzate a vicenda, e si attribuisce a Friedrich von Hayek e a Ludwig von Mises il merito di avere agito da “ponte”. La teoria ordoliberale ha avuto in impatto decisivo sulle politiche economiche del dopoguerra, cedendo però il passo di fronte al fascino dello Stato “keynesiano” negli anni Sessanta. È solo con la svolta degli anni Ottanta che il neoliberalismo tedesco ha recuperato il suo antico prestigio, tanto da far parlare alcuni commentatori di “ombra lunga” dell’ordoliberalismo sulla gestione della crisi dell’eurozona da parte della Germania.
Nonostante la varietà di posizioni espresse dagli ordoliberali, possiamo individuare un nocciolo duro ricorrente, che per comodità sintetizziamo in tre punti:
1) Riduzione di tutti i possibili modelli socio-economici a due paradigmi fondamentali, quello basato sulla libera concorrenza e quello basato sulla pianificazione.
2) Necessità di preservare il regime di libera concorrenza attraverso opportune “politiche di cornice” da parte dello Stato.
3) Centralità della responsabilità individuale e dell’azienda nello sviluppo armonico della società.
Di seguito analizzeremo ognuno di questi tre punti.
La riflessione degli ordoliberali prende le mosse dalla storia recente del loro Paese e dell’Occidente in generale. Pur essendo inflessibili sostenitori del libero mercato quale unico ordinamento economico razionale, i neoliberali tedeschi degli anni Trenta devono prendere atto che la linea liberale non ha riscosso molto successo, soprattutto in Germania. A partire dalla seconda metà del XIX secolo si sono susseguiti una serie di modelli economici fondati sull’ingerenza sistematica dell’apparato statale nella sfera economica: il “socialismo” di Stato bismarkiano, l’economia centralizzata di guerra nel periodo 1914-1918, la social-democrazia e infine la dittatura nazional-socialista. Come se non bastasse, con il passare del tempo nei Paesi limitrofi alla Germania hanno preso volto due nuovi nemici: il comunismo sovietico e lo Stato assistenziale “keynesiano”.
Secondo gli ordoliberali esiste una costante che accomuna tutte le forme politico-sociali elencate: la pianificazione, ovvero l’intervento dello Stato nell’economia. Gli esiti nefasti di una simile “invasione di campo” sono la fissazione arbitraria dei prezzi, l’inflazione, la sottomissione della libera attività economica ai capricci di un apparato burocratico soffocante, la trasformazione del cittadino in suddito e così via; in una parola, la pianificazione uccide la vita materiale e spirituale della società, e per questo si configura come una vera e propria forma di totalitarismo. Si badi bene, questa diagnosi si applica a tutte le forme di pianificazione, tanto allo Stato democratico assistenziale quanto allo Stato-partito nazista o comunista. Le rispettive differenze sono secondarie. La radicalità di questa lettura arriva al paradosso di identificare i provvedimenti di Welfare del piano Beveridge con l’anticamera dell’autoritarismo e perfino del nazismo [9], dal momento che secondo gli ordoliberali il totalitarismo hitleriano è stato un effetto delle precedenti politiche “socialiste” della guerra 1914-1918 e della Repubblica di Weimar [10].
Fin qui, la “statofobia” ordoliberale non sembra scostarsi molto da quella comune a tutta la tradizione liberale. In realtà i dottrinari tedeschi giungono a conclusioni originali.
Innanzitutto sganciano la categoria di libero mercato da quella di capitalismo. Il libero mercato di per sé coincide con i meccanismi della concorrenza e non con un particolare tipo di società. Ispirandosi al pensiero di Max Weber gli ordoliberali sottolineano l’influenza determinante dell’“ambiente” culturale, politico, sociale sui meccanismi economici. Se l’“ambiente” non è adeguato, i meccanismi del libero mercato finiscono per essere distorti o neutralizzati. Questo non vale solo per per il “totalitarismo” della pianificazione, ma perfino per il “capitalismo”, che nella particolare accezione ordoliberale non è il marxiano “modo di produzione capitalistico”, ma solo una società di mercato degenerata. Il «capitalismo non è altro che quella forma guasta e arrugginita che l’economia di mercato ha assunto nella storia economica degli ultimi cent’anni» [11]. I suoi tratti fondamentali sono la formazione di monopoli privati in stretta alleanza con la burocrazia statale, la standardizzazione del consumo e della produzione, la “massificazione”, l’assorbimento del libero individuo in gigantesche compagini anonime, tutte caratteristiche che non a caso richiamano le società pianificate. Per inciso un simile “anti-capitalismo” neoliberista non è privo di importanti conseguenze ideologiche.
La degenerazione della società di mercato non va però attribuita ai meccanismi economici della libera concorrenza, che di per sé sono oggettivi, neutrali e quindi privi di contraddizioni di qualsiasi tipo. La colpa va attribuita piuttosto alla mancanza di adeguate politiche che intervengano sul contesto sociale in cui il libero mercato è incastonato.
Ecco allora in cosa risiede la peculiarità dell’ordoliberalismo, ed in generale del neoliberalismo, rispetto al liberalismo classico: la presa di coscienza che, senza un intervento attivo dello Stato, la logica della concorrenza e del mercato non può plasmare la società a propria immagine e somiglianza. L’efficacia del semplice laissez-faire è stata smentita dalla storia recente dell’Europa e riproporlo sarebbe una ingenuità. Questo perché le leggi della concorrenza non sono un “dato di fatto” che basterebbe assecondare, bensì un principio formale “ideale” che bisogna sforzarsi di raggiungere, sebbene non sia possibile realizzarlo nella sua purezza. In che modo?
La nozione di “politica di cornice” è una diretta conseguenza del rapporto che si instaura tra economia e “cornice” sociale. Infatti è proprio attraverso questo concetto che esso intende superare la contraddizione tra “statofobia” e consapevolezza che senza l’apporto attivo dello Stato ogni progetto liberale è destinato a fallire. Ecco allora che lo Stato liberale non dovrà adottare politiche qualsiasi, ma solo quelle che intervengono sul “quadro” della società senza alterare i meccanismi della concorrenza, che sono il vero fulcro del libero mercato, molto più dello scambio mercantile.
Quale è la differenza tra un intervento “buono” (di cornice) e uno “cattivo” (di pianificazione economica)? Come spiega Hayek [12] (ancora una volta in completa sintonia con i neoliberali tedeschi), un piano economico ha una finalità, ad esempio la potenza nazionale, il soddisfacimento di determinati bisogni ritenuti essenziali, eccetera; al contrario una politica liberale si limiterà a definire un quadro puramente formale, all’interno del quale gli attori della competizione economica possono muoversi liberamente, decidendo in autonomia quale priorità vogliono porsi o quali bisogni vogliono soddisfare.
Quando auspicano un simile ordinamento sociale, gli ordoliberali si situano nella tradizione tedesca del Rechtsstaat, che potremmo tradurre con “Stato di diritto”, in contrapposizione al Polizeistaat, lo “Stato di polizia”. In senso stretto lo Stato di diritto è quell’ordinamento istituzionale che prevede la separazione tra intervento legislativo e intervento amministrativo, dove cioè esiste una differenza tra le leggi, che sono universalmente valide, e le decisioni particolari della potenza pubblica, che invece sono legittime solo se si inscrivono nel quadro formale delle leggi. Gli ordoliberali si propongono di applicare il concetto di Rechtsstaat all’economia, stabilendo che gli interventi statali nell’economia potranno consistere solo nell’introduzione di princìpi formali. In una simile visione la dimensione giuridica assume un ruolo fondamentale e infatti Röpke scrive che «è opportuno fare dei tribunali (…) gli organi dell’economia» [13].
Gli interventi statali quindi dovranno necessariamente prendere la forma di leggi e non dovranno porsi altri fini se non l’adeguamento del quadro sociale al principio della concorrenza, che a sua volta è un principio formale e non un contenuto. Concretamente questi interventi di cornice alternano obiettivi cari alla tradizione liberale classica (ad esempio la stabilità monetaria) e misure che da allora sono diventate il “cavallo di battaglia” del neoliberalismo tedesco, in particolare la lotta ai monopoli e ai cartelli, ed in generale la regolazione della concorrenza. Un altro esempio molto importante, la previdenza sociale, sarà trattato nel prossimo punto.
Il taglio giuridico adottato dall’ordoliberalismo rischia di creare due malintesi. Il primo porterebbe a pensare che il “Rechtsstaat economico” sia sostanzialmente uno Stato che “interviene poco” in contrapposizione ad uno Stato che “interviene troppo”. In realtà la differenza tra ordinamento neoliberale e pianificazione è di carattere qualitativo e non quantitativo. Anzi, a conti fatti, lo Stato liberale potrebbe rivelarsi perfino più interventista di quello “totalitario”. Questo perché «più la legge lascerà gli individui liberi di comportarsi come vogliono (…) più, nello stesso tempo, le superfici di frizione tra queste diverse unità si moltiplicheranno (…) e più aumenteranno le occasioni di conflitto. (…) Di conseguenza, quanto più i soggetti economici saranno liberi (…) tanto più si moltiplicheranno inevitabilmente i giudici» [14]. Man mano che la logica concorrenziale si estende a tutti gli ambiti della società, lo Stato dovrà aumentare il suo intervento regolativo.
In secondo luogo non bisogna pensare che il progetto ordoliberale sia “neutro”, puramente formale. Al contrario esso punta a stabilire un preciso tipo di società, che trova nella centralità dell’individuo e nell’impresa la sua ragione d’essere.
In accordo con la tradizione liberale classica, l’ordoliberalismo individua nell’autonomia dell’individuo la sorgente e la meta di ogni politica responsabile ed avversa ogni forma di assistenzialismo proprio in quanto sostituirebbe la sua responsabilità con la mano di uno Stato-provvidenza. L’argomento è già stato affrontato esaustivamente nei paragrafi 7 e 8, e qui si vuole solo sottolineare in che modo si inserisce nel progetto complessivo del neoliberalismo tedesco.
In Germania la previdenza sociale è un tema caldo già negli anni Cinquanta, quando il notevole livello di benessere raggiunto fa domandare a molti se non sia possibile costruire un sistema di protezioni esteso a tutti i cittadini. Gli ordoliberali, con in testa Ludwig Erhard [15] (allora ministro dell’economia), si opposero fermamente a questa ipotesi, ammettendo però contemporaneamente che un certo livello di protezione era necessario. La loro posizione è sintetizzata nella formula di “politica sociale individuale”.
Se si parte dal presupposto che ogni cittadino è chiamato ad essere un imprenditore, anzi una vera e propria azienda, allora è chiaro che lo Stato non può sostituirsi al cittadino-impresa nella gestione della sua vita e dei relativi rischi (infortuni, malattia, vecchiaia…). Tuttavia non si può ignorare che l’attività economica comporta una serie di incognite (prime tra tutte il licenziamento o il fallimento) verso le quali anche l’individuo più lungimirante potrebbe non essere tutelato. Il timore verso queste incognite minaccia di scoraggiare i cittadini comuni, non dotati di capitali o risorse eccezionali, a partecipare al gioco economico, a essere loro stessi “aziende” sul mercato; al limite il sistema della libera concorrenza potrebbe perfino incepparsi per mancanza di partecipanti. Quindi lo Stato è chiamato a soccorrere l’individuo-azienda, non per garantire il suo benessere, compito questo che non gli spetta, ma unicamente per spingerlo a rientrare nell’arena della concorrenza il prima possibile. In altre parole il fattore “sociale” è rigorosamente subordinato ad obiettivi economici: siamo sempre nell’ambito della “politica di cornice”.
Al contrario delle forme più unilaterali di liberalismo, i pensatori della Scuola di Friburgo si sono sforzati di valorizzare la dimensione comunitaria della natura umana, ritenendola compatibile con la loro visione generale della società. Gli ordoliberali attaccano l’atomizzazione egoistica come sintomo del “capitalismo” (ovvero della società di mercato degenerata) ed auspicano una società organica, dove lo spazio tra l’individuo e il mercato e lo Stato sia occupato da una serie di corpi intermedi: la famiglia, il quartiere, la regione e, soprattutto, l’azienda. Infatti l’individuo trova la sua realizzazione proprio nell’azienda, l’istituzione che meglio di ogni altra condivide i suoi valori e le sue finalità: autonomia, intraprendenza, libera iniziativa.
La società ideale degli ordoliberali è caratterizzata da una imprenditorialità diffusa a tutti i livelli, senza che l’onnipresente principio della concorrenza ne vada ad intaccare l’armonia. Le loro simpatie vanno all’azienda di dimensioni medio-piccole piuttosto che ai “colossi” del capitalismo degenerato, ai centri urbani decentrati piuttosto che alle megalopoli terreno di coltura del socialismo e delle “classi pericolose”, alle autonomie locali invece che alle amministrazioni centralizzate.
Questo progetto è perfettamente compatibile con un umanismo dai lineamenti incerti (Röpke definisce il proprio pensiero «umanesimo economico»), spesso di matrice cattolica (quasi tutti gli ordoliberali erano vicini al cosiddetto cristianesimo democratico del Zentrum e della CDU). La retorica della “dignità della persona”, della società “a misura d’uomo”, dei diritti umani ricorre continuamente, senza che la sua compatibilità con i princìpi economici liberisti venga messa mai in discussione. Viceversa si osserva una curiosa e spesso virulenta ostilità nei confronti del razionalismo, in particolare quello della Rivoluzione francese. L’idea di modificare la realtà in base ai princìpi astratti della ragione (giustizia, uguaglianza, trasparenza dei rapporti sociali) ripugna agli ordoliberali. Anche questa parte del pensiero neoliberale, che è probabilmente la meno interessante, non è però priva di importanti conseguenze ideologiche.
Ritornando alla formula «economia sociale di mercato», abbiamo imparato che essa è meno generica di quanto non appaia a prima vista. L’attributo “sociale” non va inteso nella sua accezione comune, che indica politiche tese a favorire il benessere della popolazione, di solito “risarcendola” dei danni che una economia capitalistica inevitabilmente provoca (insicurezza del posto di lavoro) o prevenendoli (erogazione dei servizi fondamentali da parte dello Stato). Invece le politiche “sociali” dei neoliberali tedeschi sono semplicemente interventi sull’ambiente sociale per renderlo compatibile con la massima diffusione del principio di concorrenza.
In secondo luogo il peculiare “anti-capitalismo”(16) ordoliberale ci insegna che la critica di aspetti superficiali (e non sempre attuali) del capitalismo spesso, come la massificazione, il consumismo, i monopoli (oggi diremmo “multinazionali”), la standardizzazione della produzione, di per sé non esclude l’adesione entusiasta al capitalismo stesso. Non a caso la demonizzazione della burocrazia statale, percepita come un leviatano ingombrante e corrotto tout court, lo slogan “piccolo è bello”, il “decentramento” amministrativo, sono tutti cavalli di battaglia delle sinistre ex-socialdemocratiche ed ex-comuniste riciclate in apparati neoliberisti e, a volte, perfino delle loro stampelle elettorali “radicali”.
In conclusione possiamo affermare che il neoliberismo, lungi dall’essere un semplice proseguimento del liberalismo del XIX secolo, presenta tratti originali, che spesso sfuggono anche a chi si pone in un’autentica ottica anti-capitalistica. Per questo è assolutamente necessaria una revisione di tutte le analisi datate e fuorvianti, poiché senza una adeguata “bussola” teorica anche la prassi politica più benintenzionata rischia di porsi falsi problemi, o di scagliarsi contro muri già da tempo abbattuti dallo stesso capitalismo.
Il neoliberalismo ambisce a rappresentare la nuova ragione del mondo, di fronte alla quale qualsiasi critica è, ancor prima che inutile, impensabile, irrazionale. Il progetto neoliberale consiste in una serie di strategie che hanno come scopo la riconfigurazione della società, la sua trasformazione radicale. Se le cose stanno così, è inutile contrapporre ad un astratto laisser-faire liberista un altrettanto astratto interventismo statale, come se il problema fosse di natura prettamente quantitativa (intervenire tanto o intervenire poco?).
Al contrario chi ritiene che il capitalismo non sia l’ultima parola nella storia umana ha il compito di mettere al centro proprio la dimensione strategica, decisionale e, in una parola, politica. Anche una (auspicabile) rivalutazione della pianificazione e delle alternative al sistema della merce non può eludere questo nodo cruciale.
Alessandro Monchietto, Andrea Bulgarelli
Bibliografia essenziale
Becker Gary, The Economic Approach to Human Behavior, University of Chicago Press, 1976.
Boltanski Luc; Chiapello Eve, Le nouvel esprit du capitalisme, Gallimard, 1999 (tr. it. di prossima pubblicazione per le edizioni Mimesis).
Crozier Michel; Huntington Samuel; Watanuki Joji, The Crisis of Democracy: Report on the Governability of Democracies to the Trilateral Commission, New York University Press, 1975.
Dardot Pierre, Laval Christian, La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista, DeriveApprodi, 2013.
Donaggio Enrico (a cura di), C’è ben altro. Criticare il capitalismo oggi, Mimesis ed, 2014.
Erhard Ludwig, La politica economica della Germania, Garzanti, 1962.
Friedman Milton e Rose, La tirannia dello status quo, Longanesi, 1984.
Foucault Michel, Nascita della biopolitica, Feltrinelli, 2005.
Giacché Vladimiro, Titanic Europa. La crisi che non ci hanno raccontato, Roma 2012.
Giddens Anthony, La terza via. Manifesto per la rifondazione della socialdemocrazia, il Saggiatore, 1999.
Michéa Jean-Claude, Il vicolo cieco dell’economia. Sull’impossibilità di sorpassare a sinistra il capitalismo, Elèuthera, 2004
Röpke Wilhem, Democrazia ed economia, Il Mulino, 2004.
Note
1) M. Friedman, R. Friedman, La tirannia dello status quo, p. 138.
2) G. Becker, The Economic Approach to Human Behavior, p. 167.
3) Nel 2005 in Francia è stato istituito un sistema di penalizzazione che abbassa l’indennità di disoccupazione del 20% al primo rifiuto di una proposta di impiego, del 50% al secondo e del 100% al terzo.
4) I tre relatori della Commissione Trilaterale, Michael Crozier, Samuel Huntington e Joji Watanuki, lamentano l’«eccesso di democrazia» comparso negli anni 60, ovvero a partire dalla crescita delle rivendicazioni egualitarie e del desiderio di partecipazione politica attiva delle classi più povere e marginalizzate. Ai loro occhi la democrazia politica può funzionare normalmente solo con un certo grado «di apatia e disimpegno da parte di certi individui e gruppi». Abbracciando i temi classici dei primi teorici neoliberisti, arrivavano a reclamare che si riconoscesse che «ci sono pure i limiti potenzialmente auspicabili all’ampliamento indefinito della democrazia politica» [cfr. M. Crozier, S. Huntington, J.Watanuki, The Crisis of Democracy].
5) J. Plender, Mind the gap. Why business may face a crisis of legitimacy, Financial Times, 8 aprile 2008.
6) «La finanza ha offerto un’ultima via di fuga alle imprese con problemi di redditività: consentendo loro di fare profitti non più con le attività tradizionali, ma attraverso operazioni finanziarie, ossia attraverso attività speculative. […] Se si esamina l’andamento dei profitti negli Stati Uniti si osserva che negli ultimi decenni la proporzione dei profitti derivanti da attività finanziarie è progressivamente cresciuta, sino a raggiungere il 40% del totale nel 2007, alla vigilia della crisi» [V. Giacché, Titanic Europa, pp. 34-35].
7) Trattato di Lisbona, Articolo 2, Paragrafo 3, Gazzetta ufficiale dell’Unione Europea.
8) Particolarmente significativa è l’intervista per il Sole 24 Ore del 22 Agosto 2008. L’ex-premier osserva lucidamente che «oggi, il richiamo all’economia sociale di mercato, in particolare in Italia, dà a volte l’impressione di essere pronunciato con un’ispirazione opposta. Si è un po’ insofferenti verso la disciplina imposta dalle regole del bilancio pubblico o da quelle del mercato, e allora si “rivendica”, in contrapposizione alla prova non buona data di recente dal modello americano (…), la legittimità, anzi la necessità, di maggiori dosi di socialità e di discrezionalità politica». In queste poche frasi è racchiuso il senso profondo dell’economia sociale di mercato e della sua contrapposizione a qualsiasi assistenzialismo, per quanto moderato. Altro che “terza via” tra liberismo e socialismo!
9) Cfr. M. Foucault, Nascita della biopolitica, pp. 157-158. Scrive Hayek, in sintonia con la diagnosi ordoliberale: «Stiamo correndo il rischio di fare la stessa fine della Germania [nazista, nota mia]» (cit. da Foucault). Beveridge come alter ego di Goering!
10) In realtà oggi l’equazione tra “statolatria” e nazismo appare un pregiudizio. Al proposito possiamo trovare interessanti riflessioni in H. Marcuse, Ragione e rivoluzione. Notevole è la formulazione dello storico Kershaw, che ha parlato di «anarchia feudale» in riferimento all’hitlerismo.
11) W. Röpke, Democrazia ed economia, p. 82.
12) Cfr. Nascita della biopolitica, pp. 145-146.
13) Cit. in Nascita della biopolitica, p. 149.
14) Ivi, pp. 148-149.
15) Cfr. L. Erhard, Previdenza individuale per i rischi sociali, in La politica economica della Germania.
16) È interessante notare come molti neoliberisti possano vantare un discreto curriculum “anti-capitalista”. Ad esempio Hayek fu per un breve periodo membro del movimento fabiano (che nonostante le posizioni moderate era pur sempre di ispirazione marxista).
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