Mario Vegettti – «Figure dell’identità greca. L’io, l’anima, il corpo, il soggetto». Prefazione di Silvia Gastaldi.

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Prefazione

 

di   Silvia Gastaldi

 

 

Questo volume comprende dodici saggi pubblicati da Mario Vegetti in un arco di tempo compreso tra i primi anni Ottanta del Novecento e la prima decade del Duemila, scelti nella sua vasta produzione e raggruppati attorno a un tema, quello della concezione antica, in particolare greca, della soggettività.

I contributi sono preceduti da due scritti biografici. Nel primo caso si tratta di una breve Autopresentazione, scritta da Vegetti per il «Bollettino della Società Filosofica Italiana», uscita nel 2002, che ripercorre i tratti salienti delle sue vicende biografiche e parallelamente lo sviluppo dei suoi studi e della sua carriera accademica; nel secondo siamo di fronte a un’ampia intervista concessa a Marco Solinas, pubblicata su Iride nel 2008, con un titolo significativo: Lo strabismo dello storico (fra gli antichi e noi). Si tratta di un’intervista che esordisce, come l’Autopresentazione, con una serie di riferimenti alla biografia di Vegetti, ma si sposta ben presto sulla sua vicenda intellettuale e sui presupposti teorici cui i suoi studi hanno fatto riferimento. Un ruolo particolarmente rilevante in questo ambito è assegnato agli studiosi francesi che, negli anni Settanta del Novecento, si accostano all’antico con nuovi strumenti di analisi, mutuati da una parte al marxismo, dall’altra allo strutturalismo. Tra questi spiccano J.-P. Vernant, M. Detienne e soprattutto M. Foucault, da cui Vegetti afferma di essere stato particolarmente influenzato, individuando nel suo “metodo archeologico” uno strumento fruttuoso per comprendere come le tradizioni antiche abbiano influito sulla nostra modernità e sulla nostra visione del mondo.

Significativamente, l’Autopresentazione finisce là dove l’Intervista ha il suo inizio, e cioè con la menzione del lavoro di traduzione e commento della Repubblica di Platone: nel primo testo quella che Vegetti aveva sempre definito come una vera e propria impresa era ancora in pieno svolgimento, mentre nel 2008 era appena terminata con la pubblicazione del settimo volume. Lo spazio riservato in entrambi i testi a questo dialogo platonico testimonia la sua rilevanza negli studi di Vegetti, come del resto lui stesso spiega ampiamente nell’Intervista. È una centralità che ha modo di manifestarsi anche nei saggi contenuti in questo volume, in cui il riferimento alla Repubblica è tanto frequente da costituirne in una certa misura il filo conduttore.

Il tema cui sono dedicati i dodici articoli ripubblicati in questa raccolta è chiaramente spiegato dal titolo del volume: Figure dell’identità. Il sottotitolo specifica che ci si riferisce a una serie di nozioni – l’io, l’anima, il corpo, il soggetto – tramite le quali si intende spiegare come viene concepita e descritta la percezione che l’uomo greco ha di sé stesso. Il problema, come Vegetti sottolinea nel saggio più ampio e più rilevante dal punto di vista teorico pubblicato nel volume, e che si intitola proprio L’io, l’anima e il soggetto, è che queste nozioni, cui si può aggiungere anche quella di corpo, «pur appartenendo senza dubbio alla stessa famiglia concettuale e rinviando alla stessa esperienza – quella radicata nell’esistenza individuale −, non possono venir pensate come complementari o tali da formare una sequenza lineare» (p. 194). Occorre dunque evitare, utilizzando proprio quello «strabismo dello storico» cui allude il titolo dell’intervista a Solinas, di leggere l’esperienza culturale greca, e dunque anche la categoria di soggettività, alla luce della modernità: la lontananza nel tempo non ci impedisce di comprenderla, ma la colloca nella corretta prospettiva rispetto al nostro presente.

Il saggio citato − L’io, l’anima e il soggetto − che riprende e amplia un altro articolo sullo stesso tema riproposto in questo volume – Un vincolo ambiguo: l’anima, l’io, il soggetto − fornisce proprio le coordinate entro le quali leggere gli altri contributi presenti in questa raccolta. Vegetti mostra che, nel pensiero greco, non è possibile rintracciare la categoria del soggetto né nell’ambito teologico, in cui non è presente alcuna soggettivazione del divino, diversamente da quanto avviene nella tradizione giudaico-cristiana, e neppure in quello psicologico, perché l’anima – con poche eccezioni − si delinea come un’entità superindividuale. Neppure si può, a rigore, parlare di una soggettivazione politico-sociale, poiché l’individuo è parte, in quanto cittadino, della comunità della polis. L’unica concezione cui può essere attribuita in un certo modo la funzione di termine di passaggio dal pensiero antico a quello moderno della soggettività è, secondo Vegetti, quella dell’aristotelico “io proprietario”, cioè dell’individuo che gode di una proprietà privata, connesso ad altri soggetti dotati delle stesse caratteristiche da vincoli di amicizia, un legame che appare come il prolungamento di quella affezione – primaria e fondante – che ciascuno ha per sé stesso.

Si è detto che una nozione che, nel pensiero greco, non appare in grado di assolvere al ruolo di soggetto è l’anima. A questo tema sono dedicati alcuni saggi che esplorano la dimensione psichica. Si tratta anzitutto del contributo intitolato Anima e corpo. La scena iniziale del percorso rimanda ai poemi omerici, dove entrambi i termini di questa coppia sono citati e descritti solo nel momento della morte. Il corpo – soma – è il cadavere, quello dell’eroe o del nemico ucciso che resta sul terreno, mentre la psyche, il soffio vitale, sotto forma di vapore o fumo, esce dalla ferita mortale e va all’Ade, dove sopravvive come doppio fantasmatico del vivente. Vegetti ripercorre le successive vicende della riflessione sull’anima partendo dalla tradizione medica, analizzando in particolare i tentativi finalizzati, nel V secolo, a riunificare le funzioni psichiche, ancora prive di una coerenza unitaria. L’altra tradizione che viene indagata è quella designata come orfico-pitagorica, caratterizzata in senso mistico-religioso, secondo la quale l’anima è un demone. Vegetti mostra come questa concezione sia rievocata in alcuni dialoghi di Platone, ad esempio il Fedone, ma rileva, al tempo stesso, che nella riflessione psicologica platonica coesistono altri modelli di anima, in particolare quella tripartita della Repubblica, rielaborata nel Timeo in una prospettiva bio-fisiologica, in cui le tre parti psichiche trovano la loro collocazione negli organi del corpo. Vegetti prosegue la sua analisi analizzando l’ilomorfismo aristotelico, gli apporti anatomici e fisiologici della scienza alessandrina per giungere a Galeno che, nel II sec. d. C., ristruttura il sistema platonico del Timeo introducendovi una svolta materialistica, rendendo cioè i comportamenti umani dipendenti dalla struttura degli organi. È un percorso che si conclude con Plotino, nella cui visione metafisica l’anima recupera la sua natura di demone divino e subordina a sé totalmente quel corpo di cui il filosofo, secondo la testimonianza del suo allievo Porfirio, addirittura si vergognava.

La vicenda dell’anima, dunque, è complessa, come emerge anche da altri saggi che ne approfondiscono aspetti particolari. Un tema saliente, in questo ambito, è rappresentato dalla sua sopravvivenza. Nel contributo intitolato appunto La sopravvivenza dell’anima nel mondo antico, Vegetti indaga le prospettive secondo cui la concezione dell’immortalità viene proposta. Così, è esaminata, da una parte, la concezione omerica, cui si è già fatto riferimento, e che assegna alla psyche un’esistenza fantasmatica, come semplice doppio del vivente, legando l’immortalità degli eroi alla gloria imperitura derivante dal canto poetico che li celebra. Dall’altra parte viene analizzata la tradizione che designiamo come orfico-pitagorica, e che presuppone l’immortalità dell’anima, dovuta alla sua natura di demone divino, destinata a premi o a punizioni a seconda del tipo di vita condotto dall’individuo in cui si installa, ma si tratta di un’anima trans-individuale: proprio perché la pena o la ricompensa comportano il suo passaggio ad altri corpi, essa non può essere considerata come appartenente a un singolo soggetto. Vegetti sottolinea l’influenza esercitata da questa concezione su Platone, che, soprattutto al fine di incentivare il perseguimento di una vita giusta, in alcuni dialoghi, come il Gorgia, il Fedone, il libro X della Repubblica, introduce per la prima volta nel pensiero greco la concezione di un’anima individuale che va incontro a un destino ultraterreno, descritto nei grandi miti dell’aldilà. Vegetti rileva comunque come in altri dialoghi, ad esempio nel Timeo, Platone affermi chiaramente che solo la parte razionale dell’anima è immortale, ma al tempo stesso trans-individuale. Su questa linea si colloca anche la concezione aristotelica dell’intelletto attivo, che rappresenta la funzione più elevata dell’anima. Di un’autentica immortalità dell’anima individuale si potrà parlare solo a partire dal I secolo d. C., quando avverrà la saldatura tra il Platonismo e il nascente Cristianesimo.

Ancora al tema dell’immortalità è dedicato il saggio Immortalità personale senza anima immortale, che ne esamina due diverse declinazioni, quella esposta da Diotima nel Simposio e quella di Aristotele. Nel suo dialogo Platone, attraverso il discorso della sacerdotessa di Mantinea, passa in rassegna differenti gradi di immortalità che non presuppongono quella dell’anima: dall’immortalità conseguibile con la riproduzione, che perpetua l’individuo nella sua discendenza, a quella culturale, legata alla produzione di opere destinate a durare nel tempo, per culminare con l’immortalità ottenibile tramite la conoscenza delle idee, in particolare di quella del bello. Vegetti riscontra anche in Aristotele forme di immortalità che non sono legate alla sopravvivenza dell’anima: anzitutto, quella biologica, che si identifica con la persistenza delle specie, poi quella – meno esplicitata – che si ottiene con la pratica delle virtù etiche, nel contesto sociale, e infine quell’”immortalizzazione” – athanatizein, un verbo che nel Corpus del filosofo compare una sola volta – conseguibile con la pratica della vita filosofica, la forma di esistenza più elevata consentita all’essere umano e che lo avvicina alla divinità, cui Aristotele – come è noto – attribuisce la sola attività del puro pensiero.

Alla riflessione sulla natura dell’anima è strettamente connesso il problema delle passioni, con cui la cultura greca si confronta costantemente. Nel saggio Passioni antiche: l’io collerico Vegetti mostra la centralità, nell’universo passionale dell’uomo greco, della reattività collerica, partendo dalla sua prima, archetipica manifestazione, quella di Achille nell’Iliade. La menis dell’eroe è una forma peculiare di ira, attribuita da Omero solo a questo eroe, un’ «indignazione» o un «risentimento violento», come la definisce Vegetti (v. infra, p. 157), che appartiene costituzionalmente alla sua figura e ne determina la reazione di fronte a tutti i comportamenti lesivi nei suoi confronti. Proprio nel poema, inoltre, sono descritte altre forme di reattività collerica che ne definiscono con precisione tutte le diverse manifestazioni. Questa attenzione alla pluralità di declinazioni di una passione assolutamente primaria costituisce un’eredità che si trasmette alle epoche successive e che viene assunta soprattutto dai filosofi come tema privilegiato di riflessione. Vegetti approfondisce i momenti salienti di questo approccio, partendo dall’individuazione del ruolo che la reattività collerica ha in Platone. Nella Repubblica, essa, come thymos, caratterizza l’anima dei guerrieri, difensori della kallipolis ed ha uno statuto complesso e anche ambiguo, essendo in grado di allearsi con la razionalità dei governanti-filosofi ma anche di ribellarsi e di assumere il potere, stravolgendo le corrette gerarchie, nell’anima come nella città. Se in Aristotele l’ira, contenuta nei giusti limiti, è la reazione in tutto degna del cittadino libero, che non deve subire passivamente le offese, per gli Stoici è, come tutte le passioni, una malattia dell’anima che deve essere completamente estirpata. Ma se questo è il fine – l’apatheia – è necessario conoscere ogni aspetto dell’universo emotivo: sono proprio gli Stoici a elaborare la più ampia e raffinata catalogazione delle passioni, e delle forme di ira in particolare, che Vegetti riporta tramite accurate rappresentazioni grafiche. Il percorso si conclude con Galeno, che introduce una svolta in questa lunga vicenda, interpretando le passioni dal punto di vista fisiologico, connettendole cioè alla conformazione e al funzionamento degli organi. Una parte rilevante, nelle riflessioni sulle passioni, è dedicata alla loro terapia. Vegetti mostra come in Platone, Aristotele e, sebbene con maggiore problematicità, negli Stoici, un ruolo rilevante in questo ambito sia assegnato ai dispositivi di controllo sociale. Gli Epicurei, per contro, propongono uno sforzo individuale teso al contenimento dei bisogni e dei desideri. Per gli Scettici, infine, le passioni non sono radicate per natura nell’anima, ma sono distorsioni prodotte dalle teorie etiche normative, che indicano quali beni perseguire e quali mali evitare, imponendo di seguire questa o quella “arte del vivere”. Si è dunque di fronte a una vasta gamma di posizioni che testimoniano la ricorrenza di una riflessione sulle dinamiche emotive, e in particolare sulle reazioni colleriche, che dà luogo a una costante produzione di trattati, sia in epoca ellenistica sia nel mondo romano, come il De ira di Seneca.

Sempre in tema di passioni, nel saggio Psicopatologia delle passioni nella medicina antica, Vegetti si interroga sui motivi per i quali queste reazioni emotive, che interessano anche il corpo, non siano state oggetto di indagine da parte dei medici. A questo riguardo rileva che tale lacuna dipende, se ci si riferisce agli Ippocratici, dalla mancata elaborazione di una nozione di anima e di conseguenza delle modalità con cui essa interagisce con il corpo. Il termine pathos, in questo contesto, è sinonimo di nosos, malattia. Si deve giungere a Platone, e in particolare al Timeo, per assistere alla costruzione di un’«immagine articolata della corporeità e della sua interrelazione con la dinamica psichica» (p. 249) che spiega l’eziologia delle passioni: la loro natura patologica è dovuta al malfunzionamento degli organi e insieme a comportamenti psichici scorretti. Anche per Aristotele l’insorgenza delle passioni si colloca all’intersezione tra anima e corpo, ma solo le forme estreme di devianza psichica sono considerate malattie vere e proprie: tutti gli altri comportamenti errati sono attribuiti alla cattiva educazione sia in ambito familiare sia sociale. È proprio l’ambiente in cui si vive, per gli Stoici, la causa del verificarsi delle passioni, malattie dell’anima a cui si può porre rimedio rinforzandone il tonos, l’energia con cui essa riesce a opporsi alle spinte negative provenienti dall’esterno, grazie anche all’aiuto fornito dagli insegnamenti di infine, che recupera il modello platonico del Timeo, le passioni sono ricondotte a cause organiche, su cui solo il medico può intervenire.

Nel contributo Metafora politica e immagine del corpo nella medicina antica Vegetti analizza la terminologia medica utilizzata tra il V e il IV secolo, individuando differenti modalità di utilizzo del lessico politico: da una parte, Alcmeone identifica la salute con l’isonomia, cioè una condizione di uguale potere, tra le forze attive nel corpo, dall’altra negli scritti ippocratici si riscontra la prevalenza di termini che rinviano, nella descrizione dei rapporti tra le parti e le funzioni corporee, al linguaggio della forza e del potere, così come a quello della guerra. Il ricorso a questo vocabolario dipende dalla concezione ippocratica del corpo, considerato come un recipiente vuoto entro il quale scorrono fluidi in lotta tra loro per imporre il proprio dominio e su cui hanno influsso anche i fattori esterni, come il clima e l’ambiente. L’origine di un’immagine del corpo come un organismo costituito di parti che collaborano tra loro, modellato sulla struttura gerarchica dei poteri all’interno della polis, è da individuare, per Vegetti, forse nel pitagorismo ma certamente in Platone, come mostra chiaramente l’elaborazione della sequenza anima-corpo-città che si realizza tra la Repubblica e il Timeo.

Nel saggio Corpo e anima in Galeno, Vegetti esamina le posizioni espresse al riguardo in una delle opere maggiori del medico-filosofo, il De placitis Hippocratis et Platonis. Anzitutto, in merito all’individuazione dell’hegemonikon, il principio direttivo, da cui dipendono i comportamenti, Galeno, confrontandosi con le teorie, ancora rivali al suo tempo, dell’emocentrismo e del cardiocentrismo e fondandosi sull’osservazione anatomica e sull’inferenza logica, opta decisamente per il cervello in quanto principio dei nervi. Sostenendo questa posizione Galeno si rifà a una tradizione illustre, che prende avvio con gli Ippocratici, arriva a Platone e si rafforza con le scoperte dei medici di Alessandria tra il IV e il III secolo a.C. In tal modo Galeno innesta sulla tripartizione platonica i dati acquisiti dagli studi anatomici tra il periodo alessandrino e i suoi tempi, connettendo rispettivamente al cervello, al cuore e al fegato i sistemi nervoso, arterioso e venoso. A differenza di quanto avviene in Platone, tuttavia, non vi è contrasto, bensì collaborazione tra i tre livelli. Galeno individua nella cattiva conformazione degli organi, cioè in una disfunzione fisiologica, la causa delle azioni viziose e malvagie, e indica pertanto nel medico la figura preposta al recupero della salute sia del corpo sia dell’anima, mentre per gli inguaribili – egli sostiene − non rimane che la pena di morte.

Un gruppo di tre saggi indaga infine gli aspetti politico-sociali della soggettivazione greca. Il primo contributo – Politica dell’anima e anima del politico nella Repubblica – studia in particolare le modalità con cui si presenta il rapporto anima-città posto alla base della costruzione della kallipolis. Contro le interpretazioni che assegnano alla tripartizione delle funzioni e alla parallela tripartizione psichica il ruolo di semplice analogia giungendo a mettere in discussione o addirittura a negare il carattere politico della Repubblica, Vegetti vi vede un modello dinamico, in base a cui la psicologizzazione della città e la politicizzazione dell’anima si rispecchiano reciprocamente. In entrambi i contesti vigono gli stessi rapporti gerarchici e di potere: il migliore domina sul peggiore e, in questo modo, in un ambito e nell’altro si realizza la giustizia. Lo sconvolgimento dell’ordine corretto dà luogo a un’anima ingiusta e parallelamente, a livello politico, a quella serie di costituzioni deviate che sono descritte nei libri VIII e IX. Una particolare attenzione è dedicata, in questa analisi, allo statuto e al ruolo del thymos, il centro motivazionale intermedio tra razionalità e appetizione, che caratterizza, nella città, il gruppo dei guerrieri. Nell’ultima parte del suo contributo, Vegetti chiarisce come si debba intendere quell’organicismo che secondo una certa tradizione di pensiero annullerebbe l’individuo nella comunità: Platone rappresenta l’erede di quella concezione tradizionale che fa della polis una comunità educante, preposta alla formazione-conformazione dei cittadini ai valori collettivi.

Proprio i problemi che insorgono nella città greca quando si manifestano le spinte individualistiche, determinate dai desideri corporei e soprattutto da quelli legati all’autoaffermazione e al dominio politico, sono il tema del contributo Antropologie della πλεονεξία in Platone. Vegetti esamina le posizioni espresse da tre personaggi – Callicle nel Gorgia, Trasimaco e Glaucone nella Repubblica – sul tema di quell’istinto di sopraffazione, la pleonexia appunto, insito, come insegna Tucidide, nella natura umana. Per Callicle si tratta di esaltare, al fine di raggiungere la suprema felicità, il soddisfacimento di tutti i desideri, realizzando in tal modo una superiorità sugli altri equiparata a quella del leone nel regno animale, mentre le concezioni espresse da Trasimaco sono molto più cogenti sotto il profilo teorico e investono la natura stessa del potere politico. Trasimaco argomenta con assoluto rigore che il giusto coincide con l’utile del più forte, cioè di chi governa, e parallelamente demolisce la concezione della legge come norma formulata nell’interesse collettivo, mostrando come sia in realtà uno strumento finalizzato alla conservazione del potere stesso. Glaucone, infine, proprio sulla scia delle tesi di Trasimaco, che trovano corrispondenza nelle posizioni sostenute da autorevoli intellettuali del V secolo, come Antifonte, espone una vera e propria “genealogia della morale”: la formulazione delle leggi e l’imporsi di una concezione della giustizia sono l’esito di un accordo stipulato tra i deboli e i forti – e a malincuore da questi ultimi, caratterizzati dalla pleonexia – in vista della mutua conservazione. La necessità di contrastare gli esiti distruttivi della pleonexia, che per Platone è radicata nella componente desiderativa dell’anima, rende necessario progettare un nuovo modello di città – quello della Repubblica – in cui si realizzi una nuova modalità di gestire il potere nell’interesse collettivo per conseguire la vera giustizia.

L’ultimo saggio pubblicato nel volume – Il guerriero e il cittadino. Figure dell’identità greca − discute una forma peculiare dell’identità greca, strettamente legata alle strutture politico-sociali, e cioè quella del cittadino-soldato. Partendo dalla constatazione che il polemos, la guerra contro i nemici esterni, è una presenza costante nella vita delle città, esportando all’esterno quell’aggressività che all’interno produrrebbe la stasis, il conflitto civile distruttivo della convivenza stessa della comunità, Vegetti esamina le varie forme in cui si esplica nella polis la funzione guerriera. Il personaggio paradigmatico è l’oplita, cui si richiede di conservare la posizione nelle file ordinate della falange, per assicurare alla formazione la sua forza d’urto. Questo schieramento riflette la compattezza della città e si contrappone a quel combattimento individuale, finalizzato ad assicurare la gloria al singolo eroe, proprio dei poemi omerici. Sempre nell’ambito della polis sono presenti altre figure di combattenti che non godono della stessa considerazione sociale dell’oplita. È il caso anzitutto dei marinai imbarcati sulla flotta, che per altro ha assicurato ad Atene vittorie marittime, come quella di Salamina, e il controllo delle città alleate, e più tardi – in pieno IV secolo – dei mercenari, stranieri, e dunque estranei al corpo civico. Dopo aver condotto questa rassegna, Vegetti mostra come Platone, nella Repubblica, cerchi di conciliare in un solo personaggio, quello del guerriero-difensore, le diverse figure che rappresentano l’«antropologia di guerra», per usare le sue parole (v. infra, p. 332). Nella guerra, di cui Platone fissa accuratamente le regole, e che si trasforma in un evento collettivo, i guerrieri, privati della proprietà e della famiglia, ricevono una mercede, e rappresentano dunque un tipo del tutto peculiare di mercenari, ottenendo soprattutto l’onore tributato loro dalla città intera. A Platone non sfugge tuttavia che il gruppo armato presente nella kallipolis può sottrarsi al controllo dei governanti e prendere il potere: da questa mossa avrà di fatto origine la prima forma di degenerazione della città descritta nel libro VIII della Repubblica. Benché in quegli anni anni si vada configurando quel panellenismo che propugna la guerra nei confronti dei “barbari”, i popoli orientali di lì a poco assoggettati da Alessandro, l’orizzonte di Platone rimane quello della città, come unica cornice entro la quale è possibile realizzare una vita buona e «trovare un’appartenenza identitaria “felice”» (p. 336).

Da questi saggi emergono la ricchezza di prospettive, la profondità teorica e la limpida chiarezza dell’esposizione che hanno sempre caratterizzato la produzione scientifica di Mario Vegetti. La loro ripubblicazione rappresenta un’importante operazione culturale che ne tiene viva la memoria e la grandezza intellettuale. Un grande merito, a questo riguardo, deve essere attribuito all’editrice «petite plaisance» e al suo instancabile animatore, Carmine Fiorillo, a cui va il ringraziamento mio e di tutti coloro che hanno avuto la fortuna di conoscere e di apprezzare Mario Vegetti.



M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Arianna Fermani – «mare dentro»: Navigazioni filosofiche tra le parole greche di Desiderio.

ὄρεξις  βούλησις  ἐπιθυμία  ὁρμή  οἶστρος  ἔρως  ἵμερος  πόθος

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Presentazione e Indice

Introduzione


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Fernanda Mazzoli – Il lettore volenteroso. Da Maurice Blanchot a Lucien Goldmann.



M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Arianna Fermani … in viaggio alato nel «Fedro» di Platone … vivere è stare nella luce, è vedere la luce … Platone ci insegna che dobbiamo imparare a “vedere sempre le cose diversamente e con altri occhi”, a volare alto senza mai rinnegare la nostra umanità, perché il razionale non sempre è ragionevole, e perché un eccesso di razionalità può essere tossico e disfunzionale alla realizzazione della nostra esistenza.

Sinossi

Ci sono libri che ci accompagnano per una vita, quasi segnando le svolte della nostra esistenza e le trasformazioni che in essa si compiono. Uno di questi è il Fedro di Platone, dialogo che parla della bellezza in tutte le sue forme (da quella dei corpi a quella dei discorsi, scritti e orali, da quella della natura a quella dell’anima) e che è, a sua volta, di una bellezza abbagliante, nella forma e nei contenuti e, come un dono prezioso e fragile, va scoperto con delicata lentezza.

Il Fedro è un vero proprio inno alla vita, alle sue trame sottili, visibili e invisibili, e alla sua infinita e insostenibile “luce”, e un invito a goderne, con saggezza, misura e intelligenza, sì, ma a pieno e senza sprechi.

In questo dialogo, multifocale come pochi altri, Platone insegna che dobbiamo imparare a “vedere sempre le cose diversamente e con altri occhi”, a volare alto senza mai rinnegare la nostra umanità, che abbiamo bisogno di nutrire ogni componente della nostra esistenza, anche quelle più basse, che non tutto può essere dimostrato o spiegato ma che, a volte, bisogna limitarsi a credere e, ancora di più, a sentire.

Indice del volume


Alcuni libri di Arianna Fermani

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Reiner Schürmann – «Maestro Eckhart o la gioia errante». Il termine gemüete o gemuote è una «croce dei traduttori». Viene impiegato tutte le volte che il testo latino ha mens. L’ampiezza del significato psicologico che ricopre questo vocabolo non designa una facoltà che si aggiunge all’intelletto e alla volontà, bensì la loro radice comune, e coincide in larga misura con la mens, disposizione di fondo per conoscere e amare. In questa scintilla, in quanto parte superiore dello spirito, si situa l’immagine dell’anima.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Fernanda Mazzoli – Il lettore ansioso, “toujours anxieux au moment de lire …”. «… era il libro a cercarmi, non viceversa, era lui a condurmi per vie impreviste all’incontro e che questo avviene quando è il momento … Il libro che marcherà un’esistenza può avere atteso a lungo, dimenticato apparentemente su un ripiano, oggetto di timorose occhiate in tralice, una promessa per il futuro …».




M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Luca Grecchi – “La filosofia morale di Democrito”. Come scrive Francsesco Verde: «Questo saggio ha prima di tutto il merito di richiamare l’attenzione (anche dei non specialisti del settore) sulla filosofia di Democrito e, più nello specifico, sul suo pensiero morale, spesso e volentieri trascurato, o perfino considerato inesistente o di frammentaria, dunque impossibile ricostruzione».



Presentazione di Francesco Verde

Se si provasse a dare un’occhiata anche cursoria agli studi recenti, perfino di carattere specialistico, in Italia o anche al di fuori dello Stivale, sul pensiero di Democrito, ci si accorgerebbe subito che, fatte salve alcune eccezioni (ricordo, per limitarmi ad alcuni esempi, l’utilissimo volume curato da C.C.W. Taylor, The Atomists: Leucippus and Democritus, stampato a Toronto nel 1999, la miscellanea curata da P.-M. Morel e A. Brancacci, Democritus: Science, the Arts, and the Care of the 50Soul, uscita nel 2007 per Brill e tre più recenti lavori in francese, Atomisme et sophistique. La tradition abdéritaine di A. Hourcade, del 2009, proprio sull’etica democritea, Démocrite d’Abdère. Aux origines de la pensée éthique di A. Motte, del 2022, entrambi stampati da Ousia, e la raccolta di saggi per Vrin Le plaisir et la nécessité. Philosophie naturelle et anthropologie chez Démocrite et Épicure di P.-M. Morel, del 2021), la personalità di questo autore non è certamente al centro degli interessi della critica. Se restringiamo, poi, il nostro sguardo all’Italia, dopo il lavoro importante di W. Leszl che pubblica nel 2009 per i tipi fiorentini di Olschki una Raccolta dei testi che riguardano Leucippo e Democrito e dopo l’indispensabile versione italiana del Democrito di S. Luria (Leningrad 1970) che vede la luce per Bompiani due anni prima, nel 2007, non si osserva affatto una pletora di contributi sull’Atomismo antico. Le ragioni sono molteplici; non affronto in questa sede la questione ma sono convinto che una certa diffidenza, tutta, per così dire, ideologica, nei riguardi del materialismo in generale giochi un ruolo non trascurabile in questa vicenda. Per tornare alla storiografia filosofica, ciò che manca (nella nostra lingua e non solo), dopo la rilevante monografia di P.-M. Morel su Démocrite et la recherche des causes (Paris 1996), è proprio un lavoro di insieme sulla filosofia di Democrito che sia in grado di offrire un quadro preciso e aggiornato sulle tante testimonianze che arrivano dall’Antichità su questo autore.

In effetti, sembrerebbe che la critica si sia interessata molto di più alla pur fondamentale collezione/catalogazione ragionata dei testi relativi a Democrito (si pensi, da ultimo, solamente all’edizione commentata del le massime democritee di etica a cura di G. Ruiu – La Vita Felice, Milano 2011 – e al ricchissimo volume VII della Early Greek Philosophy curato da A. Laks e G.W. Most per la Loeb Classical Library nel 2016 dedicato agli Atomismi antichi, che, dopo i capitoli 67 e 68 del Diels-Kranz, è ormai un punto di riferimento inaggirabile per chi intende accostarsi con cognizione di causa a questi filosofi), piuttosto che a una ricostruzione organica e sistematica dell’articolata riflessione filosofica di questo pensatore che spazia dalla fisica all’etica, dalla gnoseologia alla matematica, dalla musica alla medicina. A chi volesse avere un’idea di quanti e quali dovevano essere le opere di Democrito (ordinate da Trasillo in tetralogie esattamente come fece per le opere di Platone) è sufficiente scorrere l’elenco dei suoi scritti che fortunatamente Diogene Laerzio trasmette nel libro IX delle sue Vite.

Va da sé che, a causa dell’enorme naufragio (spesso dovuto al caso ma ancor più spesso dovuto alla netta deliberazione di chi ha voluto che certi scritti non dovessero “passare”) che ha provocato la perdita di buona parte delle opere antiche, non fanno eccezione gli scritti di Democrito: conosciamo solo titoli ma nessun contenuto integrale. Come per buona parte dei filosofi antichi (naturalmente con delle ben note eccezioni), di conseguenza, tocca allo studioso moderno raccordare – frequentemente non senza una buona dose di difficoltà – i testi più disparati e controversi per tentare di fornire un quadro il più possibile coerente e chiaro della riflessione del pensatore oggetto della sua analisi.

Questo, in buona sostanza, è ciò che fa il libro di Luca Grecchi che, a mio avviso, per tutte le ragioni che abbiamo appena esposto, ha prima di tutto il merito di richiamare l’attenzione (anche dei non specialisti del settore) sulla filosofia di Democrito e, più nello specifico, sul suo pensiero morale, spesso e volentieri trascurato o perfino considerato inesistente o di frammentaria, dunque impossibile ricostruzione. I problemi si infittiscono quando si considerano i frammenti etici trasmessi da Stobeo a volte sotto il nome di Democrito, altre volte sotto quello di Democrate; questo ha spinto non pochi studiosi a concludere che alcune di queste massime fossero spurie o addirittura di considerevole banalità per essere attribuite a Democrito, come si legge all’inizio del volume VII (pp. 4-5) della già citata Early Greek Philosophy. La prospettiva che Grecchi offre nel suo libro è un contributo a rivalutare in modo convinto e senza fuorvianti pregiudizi questi testi, nel tentativo di rintracciare, per quanto possibile, un filo rosso e una coerenza teorica tra loro, il che non è affatto scontato sebbene studi recentissimi vadano (per fortuna, aggiungo io) in questa direzione (penso, per esempio, ali articolo di M. Ransome Johnson, The Ethical Maxims of Democritus of Abdera, in D.C. Wolfsdorf (ed.), Early Greek Ethics, Oxford 2020, pp. 211-242).

In effetti, Democrito è celebre soprattutto per essere stato, insieme a Leucippo, il fondatore della tradizione atomistica antica, pertanto, il cuore della sua riflessione filosofica è senz’altro costituito dalla fisica; Aristotele (autore di ben due scritti dedicati a Democrito, come informa Diog. Laert. V 26-27: i Προβήματα ἐκ τῶν Δημοκρίτου in due libri e un Πρὸς Δημόκριτον in un libro solo) riconosce in Democrito il pensatore fisico per eccellenza e non pochi sono i luoghi aristotelici (per esempio nel De generatione et corruptione) nei quali, nel campo dell’indagine naturale, Democrito è perfino preferito a Platone. Del resto, da un certo punto di vista e su questo punto specifico, è difficile dare torto ad Aristotele: il fondamento della fisica democritea sono atomi e vuoto) dunque corpi e vuoto, i due principi che sono in grado di spiegare materialmente la concreta realtà delle cose. Stando al racconto verosimile del Timeo, il demiurgo ordinò il movimento riottoso, disordinato e vorticoso della chora, riducendo il corpo dei quattro elementi della tradizione empedoclea a superfici geometriche, ovvero a triangoli indivisibili: non pochi sono stati coloro che hanno voluto scorgere in questa sorta di “atomismo geometrico” un debito forte di Platone nei confronti di Democrito, tuttavia non mancano passi nei quali la critica eli Platone ai filosofi materialisti è forte e chiara (si tenga conto di luoghi celeberrimi del Sofista, ma anche del Teeteto). Tanto Platone quanto Aristotele, pertanto, hanno avuto ben presente soprattutto (ma non esclusivamente) come bersaglio polemico la filosofia di Democrito che essi considerarono quasi sempre dal suo versante fisico (a tale proposito mi piace segnalare il volume di T. Cole su Democritus and the Sources of Greek Anthropology, Atlanta 1967/1990, che ha il merito di mostrare il profondo debito – spesso deliberatamente non dichiarato – di Platone e Aristotele ma anche di Epicuro e Posidonio nei riguardi di Democrito circa i dibattiti sulla Kulturgeschichte nel pensiero antico).

Malgrado ciò – e questo il volume di Grecchi lo mostra bene – Democrito ebbe anche un importante pensiero etico-morale che non fu affatto da meno rispetto a quello fisico. Ora, il punto centrale che ha maggiormente interessato gli studiosi ha riguardato il rapporto tra la fisica e l’etica di Democrito. Grecchi, riprendendo gli studi di K. von Fritz, G. Vlastos, J.F. Procopé (specialnlente sul pensiero politico democriteo) e, in Italia, di E. Spinelli, è – a mio parere, giustamente – convinto che il legame tra fisica ed etica in Democrito non solo ci sia, ma sia anche indissolubile. Per esemplificare brevemente questo punto, del tutto centrale per Grecchi, può essere sufficiente sviluppare qualche considerazione circa i due termini propri dell’etica democritea, quali l’εὐθυμίη, la stabile condizione dell’anima, e l’εὐεστώ, il benessere. Ambedue i concetti (autentici cardini della riflessione etica democritea), menzionati da Diogene Laerzio (IX, 54), anche nella loro radice etimologica, mostrano un lucido riferimento a una buona condizione che non può che essere compresa in termini genuinamente fisici e materiali. Il punto, insomma, è che a stare al fondamento dell’etica è l’armonica condizione dell’assetto atomico dell’individuo: è, quindi, il misurato ed equilibrato stato della materia a giustificare il benessere dell’anima (altrettanto materiale). Si potrebbe, allora, perfino parlare di una sorta di “riduzionismo etico”, un’espressione, questa, che se contestualizzata all’interno del materialismo democriteo e se epurata da incrostazioni ideologiche storicamente infondate, esprime con efficacia il cuore della teoria morale di Democrito che Grecchi, raccordando insieme i disiecta membra testuali dell’arduo pensiero democriteo, ricostruisce qui con scrupolosa attenzione.

Il lavoro di Grecchi, in conclusione, va salutato con particolare gratitudine perché richiama, finalmente, l’interesse su un autentico gigante del pensiero, sovente intenzionalmente trascurato (a partire dagli stessi Antichi, del resto) ma, in ogni caso, sempre ben presente nel dibattito filosofico antico (e non solo) come ineludibile termine di confronto. La viva speranza con la quale mi sento di chiudere questa sintetica presentazione è che il libro di Grecchi possa aprire e stimolare nuove prospettive di ricerca sulla filosofia democritea: su di essa molte e molte cose rimangono (ancora)  da esplorare e da dire.

 

FRANCESCO VERDE

 



M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Paul Claudel – «La filosofia del libro». Le parole hanno un’anima. La scrittura ha questo di misterioso: «Parla!». Con una nota di Ilaria Rabatti: «Lo scrignio di carta: voce, parola, scrittura».

Paul Claudel, La filosofia del libro e Le parole hanno un’anima [La philosophie du livre e Les mots ont une âme]. Testo francese a fronte, traduzione e cura di Ilaria Rabatti. ISBN 978-88-7588-417-8, 2023, pp. 96, formato 130×170 mm., Euro 13 – Collana “au milieu des livres” [2]. In copertina: Kubo Shunman, Horned Owl on Flowering Branch, Museum of Fine Arts, Minneapolis.



Ilaria Rabatti

Lo scrigno di carta: voce, parola, scrittura

 

 

«La scrittura ha questo di misterioso: parla».
Paul Claudel

 

 

Le papier blanc comme un flocon de neige a absorbé le sens.
Il reste l’écriture.
Paul Claudel

 

 

 

«Grand lecteur», «dévoreur de papier imprimé», per sua stessa definizione,1 Claudel nutrì nell’arco di tutta la sua vita una visione nobile, mai strumentale, del libro. Non semplice oggetto d’uso quotidiano, il libro si presenta a Claudel come una forza dinamica, «scrigno» e veicolo delle più alte aspirazioni dell’umanità. Questa concezione alta del libro come «strumento di conoscenza», «ricettacolo del pensiero», «laboratorio dell’immaginazione» è sicuramente connessa ai due maggiori influssi formativi della sua poetica: la Bibbia (il “Libro dei Libri”)2 e Mallarmé – vero maître à penser per Claudel – che considerava il Libro espressione suprema del significato dell’universo.3 Questa esperienza biblico-simbolista della parola e del linguaggio si riplasma in Claudel – grazie ai suoi lunghi soggiorni in Cina e in Giappone4 –, nella scoperta della filosofia cinese (soprattutto del Tao tê ching) e nella rivelazione di quel «culto del segno», di quella «religion scripturale» che caratterizza la cultura orientale e da cui egli rimarrà profondamente influenzato. L’eccezionale ricchezza delle “arti” del libro e della scrittura ideo-grafica aprirà infatti al poeta nuovi orizzonti formali5 spingendolo a considerare in una diversa prospettiva il segno grafico e ravvivando la sua riflessione intorno ad una realtà – quella della parola parlata e scritta – su cui sempre tornerà in tutta la sua opera.

Pur non considerandosi affatto un bibliofilo,6 Claudel mostrerà però sempre una profonda sensibilità per le qualità “fisiche” dell’oggetto-libro e per il valore grafico della parola, partecipando attivamente alla preparazione materiale delle sue opere, collaborando (e spesso confliggendo) con gli editori, a cui non risparmierà dettagliatissime istruzioni su ogni aspetto della realizzazione.7 È per questo che Claudel, quando nel 1925 fu invitato a Firenze a tenere una conferenza alla Fiera del Libro (il primo dei due testi raccolti in questa plaquette), offrì alle persone venute ad ascoltarlo una suggestiva riflessione sulla «filosofia» e/o sulla  «fisiologia» del libro (antenata della bibliologia) – se, come spesso è stato notato, nel titolo della conferenza andata in stampa vi è un refuso. Indeterminazione o misteriosa convergenza in un titolo che, comunque sia, mette ancor più in evidenza la stretta connessione, nel pensiero di Claudel, tra la forma, la funzione ed il significato più profondo del libro, inteso al tempo stesso sia come oggetto (e supporto scrittorio di segni incisi, dipinti, scritti o impressi) che simbolo.8

Lungi da ogni ortodossia bibliofila – come, forse, avrebbe richiesto il contesto in cui era chiamato a parlare – Claudel sembra infatti guardare il libro più come autore che come lettore, scegliendo di valorizzare nella sua conferenza, tra gli elementi che compongono il libro, proprio quello più fragile e mobile: la pagina. Per farlo restringe la sua analisi alla poesia, dove, ai suoi occhi, compiutamente si rivela l’armonia tra il contenuto e lo spazio che lo contiene, tra il pieno ed il vuoto, tra il nero della parola ed il bianco del carta,9 insistendo proprio sul ruolo capitale dello spazio bianco nella disposizione dei versi.10 Chiamando a testimone Un coup de dés di Mallarmé («ce grand poème typographique»), Claudel afferma che è proprio il disporsi degli spazi nella pagina a dare forma sensibile al pensiero poetico, a rendere l’atto della lettura un viaggio di esplorazione creativa e non una progressione meccanica e lineare lungo un «étroit rail d’encre»:11 «le poëme n’est point fait de ces lettres que je plante comme des clous, mais du blanc qui reste sur le papier».12

In questo senso, anche l’invenzione della stampa ed il passaggio dalla pagina manoscritta (qualcosa di vivo, fragile e «vibrante») alla pagina tipografica – con il suo carattere impersonale, stereotipato, monotono – segna per Claudel l’inizio di una decadenza e di un progressivo conformismo culturale – a cui corrisponde nel testo anche un uso differenziato della maiuscola (L) o minuscola (l) di “libro”.

Dopo Gutenberg infatti – salvo gli esordi mitici dell’arte tipografica in cui il libro acquista ad opera di alcuni straordinari stampatori una nuova preziosità – la storia del libro mostra secondo Claudel un progressivo degradarsi che è proporzionale al violento, fagocitante, avanzamento della tecnica tipografica ed alla trasformazione del libro in bene di lusso o in oggetto commerciale. Ed infatti, nell’amaro finale della conferenza, ironizzando sulla bruttezza carica di orpelli della tipografia novecentesca, alimentata dal fatuo gusto dell’esibizione, Claudel lascia intendere una certezza ben più amara: il libro, trasformato in un oggetto qualunque, «fatto per essere preso, ripreso, gettato, spiegazzato, strappato», svuotato della sua dimensione spirituale, certo sopravvive nel tempo, ma “cristallizzato” nell’oggettistica dei soprammobili per “uomini-consumatori” che, avendo «più sensibile l’occhio che l’intelligenza» non avranno più alcun interesse a leggerlo.

L’indissolubile connessione logica tra libro e scrittura, che egli pone a fondamento della Filosofia del libro, andrà (idealmente) proseguendo in quella tra parola e lettera nel secondo e più tardo testo qui raccolto, Le parole hanno un’anima, dove è esemplificata (giocosamente) una delle più importanti idee motrici della poetica claudeliana. Come per il Platone del Cratilo anche per Claudel «i nomi appartengono naturalmente alle cose»,13 cioè vi è un rapporto diretto, oggettivo, fra la cosa e la forma della parola (il suo segno), tra il nome e la realtà. Ma alla sostanza e alla forma sensibile delle parole si aggiunge – suggerito dal loro «tracé expressif» – anche un elemento «dinamico» ,14 una forza magica, viva di per sé, che le fa muovere, «camminare» («notre mot marche»).15

Così, l’appassionato interrogare la parola che Claudel eredita da Baudelaire e Mallarmé – non solo intorno al senso, ma anche intorno al segno grafico in cui essa si manifesta, che, in sintonia con le culture orientali, gli appare a tutti gli effetti un “essere vivente”, una voce che «l’occhio ascolta»16 – apre ad un uso inedito, non ordinario delle parole, un uso poetico, che ha appunto come sua finalità quella di “significare”.17 Ma se per Claudel la parola deve significare, essa deve anche, forse soprattutto, sedurre con il suo «colore», il suo «odore» e i suoi «fantômes sonores». Ed ecco che i suggestivi calembours sfoggiati nel testo – una piccola, ma significativa collezione di trouvailles di non facile traduzione – assurgono, con le loro notazioni, aneddotiche, pittoresche e (pseudo)etimologiche, a veri e propri gioielli dell’uso metaforico e fantastico delle parole di cui Claudel è insuperabile maestro.

 

1 P. Claudel, Mémoires improvisés, Paris, Gallimard, 2001, p. 37.

2 A partire dalla tradizione biblica la creazione e la coscienza dell’essere umano, oltre che la Scrittura, sono concepite come libro. Bibbia è infatti un termine antonomastico di derivazione greca che significa “Libri”. Tale etimologia spiega anche la ragione per cui, fino al Medioevo, la Bibbia spesso venisse chiamata anche “Bibliotheca”.

3 Cfr. S. Mallarmé, Le livre, instrument spirituel: «Tout, au mond, existe pour aboutir à un livre», in Poesie e prose, con testo a fronte, introduzione e note di V. Ramacciotti, Milano, Garzanti, 1992, p. 324.

4 Claudel soggiornò come console per circa quindici anni, dal 1894 al 1909, nella Cina meridionale e successivamente, dal 1921 al 1927, come ambasciatore in Giappone.

5 Questa influenza orientale si manifesta già a partire da Connaissance de l’Est (l’edizione del 1914 realizzata da Victor Segalen nella sua pregiata “collezione coreana”) per poi rafforzarsi nelle successive pubblicazioni “giapponesi” – La muraille intérieure de Tokyo(1923), Le vieillard sur le Mont Omi (1925), dove l’impiego di carte pregiate e ricercate legature mira a creare una sottile corrispondenza tra i testi poetici e la loro forma concreta – per arrivare in Cent phrases pour éventails (1927) alla sostituzione dei caratteri occidentali con gli ideogrammi giapponesi e con la calligrafia della propria mano.

6 Cfr. la lettera a Gide del 27 marzo 1911 in P. Claudel e A. Gide, Correspondance, Paris, Gallimard, 1949, p. 169.

7 Per una dettagliata descrizione delle vicende editoriali e dell’impegno “tecnico” di Claudel nella pubblicazione delle sue opere a partire dalle Cinq grandes Odes si veda il saggio di M. Lioure, L’amateur de livres, in “Bulletin de la Société Paul Claudel”, n. 224 (2018), pp. 11-22.

8 Fin dall’inizio della conferenza infatti è suggerito, come in filigrana, anche l’uso biblico-metaforico della parola “libro” quando Claudel, ripercorrendo brevemente le tappe della sua carriera diplomatica, scrive (p. 15): «La mia vita! Se tento di compulsare quel libro inconsistente che è l’esistenza di un viaggiatore». Come non pensare ad un’eco della visione giovannea nell’Apocalisse (20, 12): «Furono aperti i libri. Fu aperto anche un altro libro, quello della vita. E i morti vennero giudicati secondo le opere loro che vi erano scritte».

9 Cfr. P. Claudel, Sur le vers français, in Œuvres en prose, cit. p. 7: «La parole humaine […] est une sommation du silence, elle appelle, elle provoque quelque chose d’égal ou de comparable à elle-même. Quand le poète a proféré le vers pareil à une formule incantatoire, il répond quelque chose dans le blanc».

10 Cfr. P. Claudel, La filosofia del libro: «Il bianco non è infatti per la poesia solo una necessità materiale imposta dall’esterno. È la condizione stessa della sua esistenza, della sua vita, del suo respiro» (vedi supra, p. 43). Per la metafora del bianco che infonde la vita nel testo attraverso il principio della respirazione, si veda anche il cit. saggio di Claudel Sur le vers français in Œuvres en prose, cit., p. 32: «Le vers composé d’un ligne et d’un blanc est cette action double, cette respiration par la quelle l’homme absorbe la vie et restitue une parole intelligible».

11 P. Claudel, Le Poète et le Shamisen, in Œuvres en prose, cit., p. 821.

12 P. Claudel, Cinq grandes Odes, in Œuvre poetique, cit., p. 224.

13 P. Claude Journal I, cit., p. 245.

14 Cfr. P. Claudel, Journal I, cit., p. 493: «Les mots n’ont pas seulement un timbre, une couleur, une odeur, ils ont aussi certain potential, une tension, une valeur dynamique. C’est même l’element le plus important». È qui evidente l’ascendenza rimbaudiana del Sonnet des voyelles.

15 Le parole hanno un’anima, vedi supra, p. 68.

16 L’œil écoute è il titolo di una raccolta di saggi sull’arte pubblicati da Claudel nel 1946. Claudel guarda alle parole – che talvolta «constituent de vrais petits paysages» come a dei quadri (“tableaux”). Ho sempre trovato suggestivo il fatto che “voce”, in linguistica, sia sinonimo di parola, vocabolo o lemma.

17 Cfr. P. Claudel, Sur l’inspiration poétique, in Œuvres en prose, cit. p. 47-48: «L’habitude est, comme on dit, une seconde nature. Cela veut dire que nous employons dans la vie ordinaire les mots non pas proprement en tant qu’ils signifient les objets, mais en tant qu’ils les désignent […] ils nous en donnent une espèce de reduction portative et grossière, une valeur, banale, comme la monnaie. Mais le poète ne se sert pas des mots de la même manière. Il s’en sert non pas pour l’utilité, mais pour constituer de tous ces fantômes sonores que le mot met à sa disposition, un tableau à la fois intelligible et délectable».

 



M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Claudia Baracchi – «Aristotele. Il pensiero e l’animale». L’appassionata, inedita riflessione, della studiosa che ha saputo «affinare l’ascolto» del pensiero di Aristotele tra “logos” e “nous”. Qui una pagina su “desiderio”, sulla domanda del “desiderio” che è domanda su di sé, su “vera eccellenza” e “mera continenza”.

Claudia Baracchi, Aristotele. Il pensiero e l’animale, Feltrinelli, Milano 2023


Aristotele è l’erede per eccellenza. Nessuno ha valorizzato di più i predecessori, riconoscendo il debito nei loro confronti. La sua è una grande lezione sul pieno e sul vuoto della trasmissione, sulla consapevolezza di appartenere a un tempo e a un luogo in cui riecheggiano altri tempi e altri luoghi.


Cosa può significare, oggi, ereditare Aristotele? È possibile accogliere l’antico senza finire vittime della commemorazione, intrappolati nei tediosi codici del canone? O non è forse tempo di disfarci di figure ingombranti del passato, proprio per emanciparci e far spazio al futuro? Eppure il passato non ha esaurito il suo corso vitale, non è stato compreso a fondo. Potrebbe così accadere che le figure dell’antico ci appaiano meno evidenti del previsto, che a ben vedere non si prestino a sommarie riduzioni. Ereditare, di Aristotele, insieme a dottrine e assiomi anche i dubbi, le aperture, il mutismo, comporta prendere atto che la persistenza dei problemi non indica fallimento o paralisi. È un segnale della gravità delle domande fondamentali e della serietà richiesta nell’affrontarle. Comporta disimparare l’Aristotele ricevuto, sottrarlo dall’edificio della trasmissione tradizionale, riconoscere impasse e difficoltà, affinare l’ascolto. E, così facendo, tentare di cogliere nella parola antica l’alterità, la lontananza, ciò che deve essere ancora udito e che, forse, resta a venire. Nella coscienza che la cristallina elaborazione del pensiero razionale si fonda nella vita, non viceversa; e che la vita, a un tempo vulnerabile e immensa, resta indefinitamente eccedente rispetto al logos che pure la attraversa e le appartiene.



Curriculum vitae della Professoressa Claudia Baracchi

Claudia Baracchi


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Lukáš Houdek – «Filosofia dal naso rosso. Il travaglio di un clown, la nascita di un trickster». «Philosophy with a red nose. Clown labour, trickster birth». Prelude di Rodrigo Morganti: «Il Clown è l’emanazione della gioia, della condivisione … il suo linguaggio è il gioco … è la celebrazione della meraviglosa perfezione dell’inperfezione umana». «Clowning the of joy, sharing, of being allowed to show one’s vulnarability while staying open to the point of accepting that people laugh with us. Its language consists of playing games … It’s the celebration of the wonderful perfection of human imperfection».

Lukáš Houdek,
Filosofia dal naso rosso. Il travaglio di un clown, la nascita di un trickster.
Clown Labour – Trickster Birth.
Preludio di Rodrigo Morganti.
Traduzione di Alessandra Filannino Indelicato.

ISBN 978-88-7588-337-9, 2023, pp. 120, formato 130×170 mm., Euro 15 – Collana “coralli di vita” [3].

In copertina: Autore ignoto, Disegno di un Court Jester, probabilmente di epoca medievale.


AUTHOR’S NOTE

I finished writing in Piran – a Slovenian town on the border with Italy and Croatia. A peninsula surrounded by the sea, yet another border, this time between the land and the air. I steadily grew weary of the sentences that have until now accompanied us, as they kept washing me up against a very different but always familiar shore. I realise what I have attempted and, inadvertently, failed at. I tried to describe an experience, to incarnate thought, to touch by conjuring up ghosts of words. I made a leap and bounced back, much like a fly that is ignorant of the concept of transparency. Thresholds are impossible to inhabit and even paradox itself will eventually have to invite its opposite if it seeks a meaningful conversation. I will now go out and look for you, my reader, despite all I had said in the beginning. We will meet in the old town, in the filled-up harbour, by the long-since demolished drawbridge, in the dry scent of the sea to utter the afterword together.

Lukáš Houdek

Praha-Padova-Piran, summer 2023

NOTA DELL’AUTORE

Ho finito di scrivere a Piran – una città slovena sul confine tra Italia e Croazia. Una piccola penisola circondata dal mare, l’ennesimo confine, questa volta quello tra terra e cielo. Ho sentito molto fortemente che mi sono venute a noia le parole che ci hanno finora accompagnato, mentre continuavano a farmi rilavare su una costa davvero differente dalla mia, e tuttavia in qualche modo familiare. Mi rendo conto solo ora del mio tentativo, involontariamente fallito. Ho provato a descrivere un’esperienza, a incarnare un pensiero, di allenare il tocco mentre evocavo fantasmi di parole. Ho fatto un salto e poi sono tornato indietro, più o meno come una mosca che ignora il concetto di invisibilità. Le soglie sono dimensioni impossibili da abitare e anche i paradossi, alla fine, richiamano sempre il loro opposto, se si cerca una conversazione di senso. Ora, caro lettore, esco di casa, e andrò cercandoti, nonostante tutto quello che ti ho detto finora. Ci incontreremo in centro storico, in un porto affollatissimo, al ponte levatoio – quello che hanno demolito da tempo –, nel profumo secco e salato del vento di mare. Pronunceremo insieme la postfazione.

Lukáš Houdek

Praga, Padova, Piran; estate 2023



Preludio di Rodrigo Morganti

Clowning is the emanation of joy, sharing, of being allowed to show one’s vulnerability while staying open to the point of accepting that people laugh with us.

Its language consists of playing games.

It’s everything and its opposite.

It’s the celebration of the wonderful perfection of human imperfection.

It’s a difficult subject for a book: difficult but not impossible. And Lukáš, aware of that, succeeded in this task, breaking the fourth wall, and esta-blishing a direct relationship with the reader.

I hope that you will enjoy this book as I did.

 

Il Clown è l’emanazione della gioia, della condivisione, del poter mostrare la propria vulnerabilità in un’apertura tale da accettare che la gente rida con noi senza chiuderci.

Il suo linguaggio è il gioco.

È il tutto e il contrario di tutto.

È la celebrazione della meravigliosa perfezione dell’imperfezione umana.

Difficile farci un libro, e proprio perché è difficile non è impossibile, e Lukáš lo sapeva e ci è riuscito, rompendo la quarta parete e istituendo una relazione diretta col lettore.

Spero che ve lo godiate come me lo sono goduto io.

(Rodrigo Morganti, clown, clown-dottore e formatore. É stato il primo in Italia (1995) a portare il naso rosso in ospedale, ha girato l’Italia e il mondo formando nuovi health-care clowns, e facendo aggiornamento e formazione continua per clown, personale medico, scuola, aziende e privati. Attualmente è direttore artistico della “Fondazione Dottor Sorriso” e dell’ Ong libanese “Ibtissama”.)




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