«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
«Il fatto che la filosofia metafisica, quale storicamente coincide in sostanza coi grandi sistemi, abbia più splendore [Glanz] di quella empiristica e positivistica non è un elemento meramente estetico [ …] e neppure un adempimento di desiderio psicologico. La qualità immanente di un pensiero: ciò che in esso si manifesta come forza, resistenza, fantasia, come unità dell’ elemento critico con il suo contrario, è se non un index veri, almeno un sintomo».
Theodor Ludwig Adorno, Dialettica negativa, trad. it. di C.A. Donolo, Einaudi, Torino 1970, pp. 347-348.
«[…] non è necessario che gli uomini si rassegnino a subire […]. Il sistema sociale non è un ordinamento immutabile al di là del controllo umano, ma è invece un modello di azione umana».
John B. Rawls, Una teoria della giustizia, trad. iL di U. Santini, Feltrinelli, Milano 1982, p. 99.
«[…] sono convinto che la possibilità stessa di un ordine sociale [diverso] può di per sé riconciliarci con il mondo sociale. Questa possibilità non è una pura e semplice possibilità logica, ma si collega alle tendenze e alle inclinazioni profonde del mondo sociale. Infatti, fin quando abbiamo buone ragioni per credere nella possibilità, sia all’interno sia all’estero, di un ordine politico e sociale ragionevolmente giusto e capace di durare autonomamente nel tempo, possiamo ragionevolmente sperare che noi o altri, un giorno o in qualche luogo, lo realizzeremo, e possiamo quindi fare qualcosa per realizzarlo. Questo solo, e in via del tutto indipendente dal nostro successo o fallimento, è sufficiente a bandire i pericoli della rassegnazione e del cinismo».
John B. Rawls, Il diritto dei popoli, a cura di S. Maffettone, trad. it. di G. Ferranti, Edizioni di Comunità, Torino 2001, p. 170.
La coscienza si riflette nelle parole che pronunciamo. La parola è il microcosmo della coscienza umana. L. S. Vygotsky
Salvatore Bravo
Per il fiorire del nostro essere umani è necessario relazionarsi con il dono delle parole. Senza parole di senso si è condannati alla condizione di un’impossibile animalizzazione
Comunità e parola La comunità è il luogo della comunicazione, [1] ogni comunità è tale se condivide significati, se le parole sono veicolo di unità e scambio. La parola è il primo dono, la parola è il luogo dell’incontro, è la soglia sulla quale ci si conosce per non restare stranieri ed estranei. Sull’uscio delle parole per la prima volta si scopre di essere parte di un tutto e di appartenersi senza padroni. La comunità è viva sulla soglia delle parole, perché nello scambio dei significati non vi è il semplice transito di informazioni: le parole uniscono il passato con il presente per orientarsi sul futuro. Le parole sono un dono, nessuno le possiede, esse sono la testimonianza della storia che vive nel presente. Le parole sono il guscio fonetico della storia degli uomini e delle donne. Il significato delle parole ha la sua genealogia nell’uso che uomini e donne hanno fatto di esse, nell’urto che hanno provato nel vivere i significati. La parola è il dono che ogni comunità fa ai propri membri, è un passaggio di significato che esige il rispetto del presente e del passato. Trasmettere significati non è un atto neutro o meccanico, ma un atto etico: la parola ci vincola al rispetto del significato, alla trasparenza che unisce. La parola è comunità, in quanto è un patto: nello scambio ammettiamo non solo un legame umano, ma anche la fedeltà alla promessa. Nominare significa trascendersi, è un appello all’alterità, una promessa che non solo unisce, ma implica la cura (Sorge) dell’altro e della comunità tutta. Per avere cura della comunità e dei singoli bisogna, in primis, assumersi l’impegno silenzioso di rispettare i significati. La parola è simbolo[2] che racchiude il significato: in quanto simbolo unisce non divide, non manipola. Senza la parola non vi è concetto. Si diventa persone con le parole con le quali si scopre la dualità insita in ogni persona; ogni “io” se non parla con se stesso, non è pienamente umano. Socrate ed il suo demone: quest’ultimo è la parola resa consapevole, è il concetto che ha pensato il mondo attraverso se stesso.
Ambiente e mondo Il mondo (Welt) è possibile solo se ci sono le parole, solo se i significati divengono il materiale plastico con cui dare forma al mondo. Con le parole si rompe la fosca immanenza per pensare il mondo che verrà, per scrutare i limiti del presente. Le parole umanizzano, sono la differenza ontologica tra la persona e l’animale non umano. L’animale è il suo ambiente (Umwelt), non ha parole, non può trascenderlo e simbolizzarlo, è parte integrante di esso, non immagina una possibilità altra, è addomesticato al suo eterno presente. Il mondo c’è dove vi è comunità. Le parole uniscono, sono il logos vivo; esse uniscono e dividono, a volte confliggono; i significati possono essere portatori di dialettiche e tensioni. Ma anche nell’unità pregna di tensione vi è comunicazione. Vi è prassi se ci si sente all’altezza delle parole. Se perdono valore e significato, se indicano la doppiezza ancipite del mondo, smettono di parlarci, e lo spirito della storia (Geist) si ritrae dal presente.
Tradimento La comunità (Gemeinschaft) che non riconosce il significato delle parole è solo società dei bisogni (Gesellschaft). Il tramonto dell’Occidente è l’inabissarsi delle parole, il loro uso mercantile; tradire il significato significa iniettare nella comunità la dispersione della stessa, sentire le parole e non avere fiducia che quanto detto corrisponda all’intenzione. È il tradimento del patto primo che non può che vivere della reciproca promessa di rispettare i doni ricevuti. Vi è in tal modo un doppio tradimento: verso il presente e verso il passato. Le parole non ci appartengono, sono doni trasmessi, per cui il loro uso manipolato o retorico provoca una cesura tra il presente ed il passato. Si diventa creature astratte che non si riconoscono nella comunità del passato come del presente. La parola orwelliana è solipsismo; al suo posto vi è la chiacchiera (Gerede): nessuno ascolta la chiacchiera, la ripensa o la rielabora per fondare mondi e concetti (Begriff). Si sente, avviene lo scambio, ma si resta fuori dalla soglia-uscio che unisce, perché si è mossi dalla sola intenzione di mettere in atto il valore di scambio. L’altro giunge a noi con le parole. L’esito nichilistico del capitalismo nella sua fase estrema è la deflazione della parola: non vi è un linguaggio alto o basso, ma la parola è solo un’arma per arpionare il cliente, è lo slogan che parla alla pancia dell’elettore. La parola uncinata destruttura la comunità, la quale diventa, ora, solo l’insieme dell’atomistica delle solitudini.
Invidiare il gregge Se le parole sono annichilite sotto i colpi della violenza dell’economicismo, l’essere umano è condannato alla disumanità, alla nuda vita. L’impotenza è l’effetto del nichilismo delle parole; se i significati corrispondono a niente, se il parlante è altro rispetto alle parole, l’impotenza regna sovrana, il pessimismo diventa sentimento comune. Si è persone se il patto con le parole è rispettato, per cui il tradimento delle parole divenuto sistema, la doppiezza del dire, non può che provocare la fuga dal linguaggio, al punto da invidiare gli animali non umani. L’ultimo uomo non crede alle parole, in quanto sono stare vendute al mercato, per cui invidia l’animale:
«Considera il gregge che pascola di fronte a te: non sa che cosa sia ieri, che cosa sia domani, salta di qua e di là, mangia, riposa, digerisce, salta di nuovo, e così dalla mattina alla sera, giorno dopo giorno, poco legato al suo piacere e alla sua svogliatezza, cioè al paletto dell’istante, e perciò né malinconico né annoiato. È doloroso per l’uomo vedere questo, perché egli si pavoneggia della sua umanità di fronte all’animale e, nonostante ciò, osserva con invidia la sua felicità, perché questo solo egli desidera: vivere come l’animale né annoiato né soggetto al dolore, e lo desidera vanamente, perché non lo vuole come l’animale. L’uomo domandò una volta all’animale: “perché non parli con me della tua felicità e ti limiti a guardarmi?” Anche l’animale voleva rispondere e dire: “è che dimentico costantemente ciò che volevo dire”, ma dato che dimenticò anche questa risposta e tacque, l’uomo se ne meravigliò. Egli si meraviglia anche di se stesso, di non poter imparare a dimenticare e di rimanere attaccato al passato: per quanto possa correre lontano o velocemente, la catena corre con lui. È un miracolo: l’attimo in un batter d’occhio è qua, in un batter d’occhio è là, prima nulla, dopo nulla, torna come un fantasma e disturba la tranquillità di un attimo successivo. Di continuo si stacca un foglio dal rotolo del tempo, cade giù, svolazza, vola indietro, in grembo all’uomo. Allora l’uomo dice: “Mi ricordo” e invidia l’animale che dimentica immediatamente e che vede davvero ogni attimo morire, sprofondare nella nebbia e nella notte, estinguersi per sempre. L’animale vive così in modo non storico, poiché si muove nel presente, come un numero, senza che ne rimanga una bizzarra frazione, non sa comprendere se stesso, non nasconde nulla e appare in ogni momento totalmente ciò che è, non può essere nient’altro che sincero. L’uomo, al contrario, si oppone al pesante e sempre più pesante carico del passato: questo lo schiaccia giù o lo spinge da parte, grava sul suo passo come un carico invisibile e oscuro, che l’uomo può far finta di rinnegare una volta e che anche in compagnia dei suoi simili rinnega volentieri, per risvegliare la loro invidia. Perciò lo tocca, come se si rammentasse di un paradiso perduto, il vedere il gregge al pascolo o, in una situazione di maggiore confidenza, il bambino che non ha ancora rinnegato nulla del passato e che gioca fra gli steccati del passato e del futuro in beata cecità».[3]
Resistere all’inverno dello spirito deve significare riportare il logos e la parola alla sua verità. Accettare che la parola sia sostituita dalla sua imitazione nichilistica è già complicità. La fatica del concetto è il dovere primo contro la tracotanza che vuole che tutto sia, come affermava Heidegger, sottomano/allamano, ovvero manipolabile e vendibile. Contro il silenzio del turbocapitalismo bisogna rivendicare il primato della parola, la quale riporta la passione dove vige la mortificazione del silenzio. Per essere umani è necessario relazionarsi con il dono delle parole. Senza le parole di senso si è condannati alla condizione di un’impossibile animalizzazione.
Salvatore Bravo
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[1] Comunicazione, dal lat. communicare, der. di communis «comune». [2] Simbolo, dal latino symbolum che a sua volta si origina dal greco σύμβολον [symbolon] (“segno”) che a sua volta deriva dal tema del verbo συμβάλλω (symballo) dalle radici σύν «insieme» e βάλλω «gettare, unire ciò che è separato». [3] F. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, traduzione a cura di Monica Rimoldi, pag. 3.
«Fino ad ora la domanda era formulata: che cos’è Dio? E la filosofia tedesca ha risposto cosÌ: Dio è l’uomo. Dopo aver colto questa verità l’umanità deve ora costruire il mondo in un modo propriamente umano, secondo le esigenze della sua stessa natura – cosÌ risolverà l’enigma del nostro tempo».
Friedrich Engels, Review of Thomas Carlyle’s «Past and Present», in K. Marx, A. Ruge, Annali franco-tedeschi, trad. it. di A. Pegoraro Chiarloni e R. Panzieri, Massari, Bolsena 2001, p. 73.
«Nei giovani la frequente dedizione entusiastica ad una causa può terminare al medesimo modo o nella fedeltà (lucida o ottusa) ad essa, o nel passaggio ad un diverso campo, oppure ancora nella perdita di capacità di dedizione in genere […]. I movimenti giovanili così frequenti nell’ultimo mezzo secolo lo mostrano con la massima evidenza, e tanto più quanto più danno valore centrale alla giovinezza stessa […]. Occorre esaminare se e fino a quale punto una dedizione è in grado di indurre l’individuo ad innalzarsi sopra la propria particolarità, oltre che a dar luogo ad una passione durevole».
György Lukács, Ontologia dell’essere sociale. Vol. I, Prolegomeni all’ontologia dell’essere sociale, Pgrego, Roma 2012.
«[…] qui nessuno ha bisogno del loro ardore e della loro passione […] qui le loro raffinatezze non troverebbero risonanza da nessuna parte; anche se scrivessero le loro poesie, non ci sarebbe nessuno che le amerebbe, se poi volessero realizzare nella vita i loro sogni, non ci sarebbe materia da cui potrebbero formare qualche cosa. Sono uomini spenti e delusi, guerrieri stancati prima della lotta, guerrieri feriti a morte prima dei combattimenti […]. E allora l’uno cade in basso anche esteriormente, l’altro diventa forse anche uno per bene, ma sarà spento, senza canto, senza ebbrezze, uno caduto dai sogni e dai desideri, un uomo qualunque, un uomo morto».
György Lukács, Jób novellái (Le novelle di Job), pubblicato prima in «Ventesimo secolo» e poi in Esztétikai kultúra (Cultura estetica), tr. it Roma, 1977, pp. 56-58. Cfr. György Lukács, Sulla filosofia romantica dell’esistenza: Novalis, e A lelki szegénységről (Sulla povertà di spirito).
«Il rapporto con Marx è la vera pietra di paragone per ogni intellettuale che prenda sul serio il chiarimento della propria concezione del mondo, lo sviluppo sociale, in particolare la situazione presente, la propria posizione stessa ed il proprio atteggiamento rispetto ad essa. La serietà, lo scrupolo e l’approfondimento con cui egli si dedica a questo problema ci indica se ed in quale misura egli voglia, consciamente o inconsciamente, sottrarsi ad una chiara presa di posizione nelle lotte della storia attuale».
György Lukács, Mein Weg zu Marx, in «Internationale Literatur» (Mosca), n. 2 1933; La mia via al marxismo (con un post-scriptum del 1957), trad. di Ugo Gimmelli, «Nuovi Argomenti», n. 33, luglio-agosto 1958].
«Un viaggio sarà incompiuto se tu ti fermerai a metà strada, o prima d’aver raggiunto il luogo stabilito; la vita, invece, non sarà incompiuta, se è virtuosa: dovunque tu la concluda, se la conduci bene, è completa».
«Dicono certi medici e filosofi che non sarebbe in grado di conoscere la medicina chi non sapesse ‘che cosa è l’uomo’, e che questo appunto deve apprendere chi desidera curare correttamente gli uomini. Ma il loro discorso ricade nella filosofia, come appunto quello di Empedocle e di altri, che hano scritto ‘sulla natura’, descrivendo ‘dal principio’ ciò che è l’uomo e come in origine è apparso e di quali elementi è formato» (trad. di Mario Vegetti, in Id., Scritti sulla medicina ippocratica, Petite Plaisance, Pistoia 2018, p. 36).
Ippocrate, De vetere medicina [Περὶ Ἀρχαίας Ἰατρικῆς], 20: HIPPOCRATES, vol. I, a cura di W.H.S. Jones, Harvard University Press, Cambridge, MA-London 1957, p. 52.
ZENONE E PLATONE: DUE DIALETTICHE A CONFRONTO Da una realtà aporetica a una realtà unimolteplice
«L’uno è molti e infiniti e i molti sono uno». Filebo 15E3-4
In questo contributo si intende delineare un quadro comparativo della dialettica così come intesa da Zenone di Elea e poi inverata e, allo stesso tempo, superata da Platone. A questo fine ci muoveremo su tre fronti:
la delineazione dei tratti essenziali della dialettica di Zenone;
il giudizio platonico sulla dialettica di Zenone, ricavabile dall’incipit del Parmenide;
la presentazione della dialettica di Platone come superamento e inveramento di quella zenoniana.
Una premessa terminogica
Prima di entrare nel vivo del confronto tra Zenone e Platone è necessaria però una breve premessa, perché il termine dialettica ha assunto, nel corso della storia della filosofia, una pluralità di sensi e di accezioni che è bene distinguere. Essenzialmente incontriamo tre figure di dialettica:
intesa come filosofia, cioè come uno strumento che svela la natura di una realtà che è essa stessa dialettica, nella quale positivo e negativo convivono;
come dialogica, cioè come tecnica della discussione;
come tecnica di confutazione.
[…]
La concezione zenoniana della dialettica risulta conservata e innovata dalla dialettica platonica: risulta conservato infatti il processo di innalzamento, per cui dalla contraddizione delle conseguenze si traggono risultati che concernono le premesse (nel caso del paradosso della freccia abbiamo visto come la conclusione contraddittoria permette di invalidare la premessa), ma in un senso nuovo. L’analisi dialettica, svelando la complessità dei nessi che costituiscono il reale, ci costringe a cercare la chiave per capire la non contraddittorietà della struttura apparentemente aporetica e ci indica il cammino per superare la contraddizione tramite un trascendimento ontologico. Il fatto di risalire a una dimensione filosoficamente più alta, però, non dissolve l’aporia ma, lasciandola essere tale al suo livello, consente di inquadrarla in una visione coerente e vera del reale: un qualsiasi essere umano, in sé considerato, è realmente e irriducibilmente uno e molti.
Questo richiede una visione estremamente articolata del reale, una visione multifocale, e un metodo che sia, per sua natura, adeguato alla comprensione di una realtà uni-molteplice, ma implica anche la consapevolezza che è impossibile trovarsi di fronte a un modello unico di descrizione del reale: infatti nella dialettica platonica c’è la movenza dell’unificazione, della risalita ai principi (quindi della sintesi), ma c’è anche il senso dell’irriducibilità del reale: l’infinito è irriducibile e resta in perenne conflitto con il limite, come ci ricorda il Filebo:
«SOCRATE: Dunque, poiché le cose sono così ordinate, bisogna che cerchiamo di porre in ciascuna situazione sempre un ‘unica Idea per ogni cosa: infatti, noi ve la troveremo insita; se dunque l’abbiamo individuata, dobbiamo esaminare se dopo una ve ne siano due, se no tre o qualche altro numero, e, di nuovo, allo stesso modo per ciascuna di quelle, fino a che non si vede dell’uno posto all’inizio non solo che è uno, molti e infiniti, ma anche quanti è; l’Idea dell’ illimitato non bisogna attribuirla alla molteplicità, prima di averne individuato il numero totale, mediano tra l’infinito e l’uno, e solo allora lasciare che ciascuna unità di tutte le cose vada nell’illimitato» (16C7-E2).
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Sommario
Una premessa terminologica La dialettica din Zenone I molti simili e dissimili e il paradosso della freccia Il confronto tra Zenone e Platone: il Parmenide La dialettica platonica come superamento e invermento di quella di Zenone Il nesso tutto-parte I nessi tra le Idee: il Sofista Considerazioni conclusive
Un tuffo …
… tra alcuni dei libri di Lucia Palpacelli…
L’Eutidemo di Platone. Una commedia straordinariamente seria, Vita e Pensiero, 2009
L’analisi di Lucia Palpacelli affronta in modo nuovo il testo, rifiutando la tradizionale lettura ‘panironica’, che consente di aggirare le tante ‘stranezze’ del dialogo interpretandole come giochi ironici, in ultima istanza poco comprensibili. Al contrario, l’autrice mostra come il dialogo rifletta il pensiero platonico e si riveli un’opera molto significativa all’interno del corpus. L’Eutidemo diventa così un prototipo della ‘scrittura filosofica’ di Platone, che lancia una continua sfida al lettore, chiamato a intendere i problemi proposti e a sviluppare autonomamente le linee di soluzione offerte in forma allusiva.
Aristotele interprete di Platone. Anima e cosmo, Morcelliana, 2013
Il volume mette a confronto analiticamente le opere fisiche di Aristotele con i dialoghi platonici sulle stesse tematiche (in particolare con il Timeo), per ricostruire la complessa articolazione del concetto di physis, dal cosmo alla considerazione degli esseri viventi. La via critica seguita, e indicata dai testi stessi, permette di ricostruire un percorso che si configura sempre come bifronte: le innegabili e, in alcuni casi, fondamentali divergenze tra Aristotele e Platone si innestano su comuni tematiche e domande, per cui, lì dove si segna una distanza, si deve anche riconoscere un punto di accordo. Il rapporto tra Aristotele e Platone va delineandosi in queste pagine nella cifra distintiva di un movimento di vicinanza/lontananza, che rende possibile cogliere il senso e l’effettivo valore della critica aristotelica.
Aristotele, La generazione e la corruzione Testo greco a fronte, a cura di M. Migliori e L. Palpacelli, Bompiani, 2013
Il “De generatione et corruptione”, opera poco conosciuta e sottovalutata, svolge un ruolo importante nelle riflessioni fisiche di Aristotele. Lo Stagirita affronta e risolve le questioni concernenti i quattro tipi di mutamento, distinti secondo la categoria di riferimento: la generazione e corruzione secondo la sostanza, l’aumento-diminuzione secondo la quantità, l’alterazione secondo la qualità, la traslazione secondo il luogo. L’articolazione di tali temi si sviluppa in un ricco confronto con i filosofi del tempo, con la ripresa della centrale tematica delle cause fisiche e con espliciti riferimenti al Motore immobile trattato nella Metafisica. L’ampia introduzione di Maurizio Migliori, che affronta le questioni di fondo proposte in questo testo, è completata da un saggio bibliografico di Lucia Palpacelli che espone criticamente tutti gli studi apparsi nell’ultimo trentennio. La traduzione e il commentario di Migliori sono stati rivisti e arricchiti sulla base di un analogo aggiornamento bibliografico. Il lettore ha così a disposizione un testo completo, presentato in un’ottica unitaria e sorretto da una lettura critica aggiornata.
La natura intermedia di Eros. Pausania e Aristofane a confronto con Socrate, in: «Rivista di Filosofia Neo-Scolastica», 3 – 2016, Vita e Pensiero, 2016
In this paper, speeches of Socrates, Pausanias and Aristophanes are analysed combining them together. This analysis is performed starting from the concept of intermediate (metaxuv) which allows us to construe Pausians’ speech as preparatory with respect to Socrates’ speech, and Aristophanes’ speech as its denial. Indeed, the concept of intermediate is applied to Eros 1) in embryo in Pausianas’ speech (which finally distinguishes two kinds of Eros) and 2) openly in Socrates’ speech. In this regard, the two speeches are connected and they show a progression 1) from a strictly practical and ethical-behavioural level (Pausanias’ speech) 2) to a theorical-metaphysical level based on Eros’ nature (Socrates’ speech). Aristophanes, on the other hand, defines Eros as a desire of total fusion, his view is corrected and downscaled by Socrates enforcing the concept of intermediate.
Claudia Baracchi, Enrico Berti, Arianna Fermani, Silvia Gastaldi, Luca Grecchi, Silvia Gullino, Alberto Jori, Giulio A. Lucchetta, Lucia Palpacelli, Luigi Ruggiu, Mario Vegetti, Carmelo Vigna, Marcello Zanatta
Il presente volume è il terzo di una serie di collettanei aristotelici, cominciata nel 2016 con Sistema e sistematicità in Aristotele, e proseguita nel 2017 con Immanenza e trascendenza in Aristotele, tutti editi a mia cura presso questa casa editrice. A questi volumi hanno partecipato alcuni fra i maggiori studiosi italiani dello Stagirita, che desidero nuovamente ringraziare per la loro disponibilità e gentilezza, ma soprattutto per l’ennesimo dono che hanno voluto fare agli studi aristotelici. Il volume di quest’anno, Teoria e prassi in Aristotele, nasce con l’intento di esaminare alcune distanze, spesso rilevate dagli studiosi, fra la teoria e la prassi nel pensiero aristotelico. Il tema è stato analizzato, come di consueto, secondo una pluralità di punti di vista ed approcci. L’apertura del volume, come da tradizione, è stata anche stavolta un dialogo generale tra lo scrivente e Carmelo Vigna. A questo dialogo, sempre come da tradizione, ha fatto seguito un commento di Enrico Berti, caratterizzato da notazioni profonde ed essenziali. Di seguito, vi sono stati interventi assai puntuali inerenti soprattutto il piano etico (Marcello Zanatta), politico (Arianna Fermani, Silvia Gastaldi, Alberto Jori), teoretico (Claudia Baracchi, Mario Vegetti), economico (Silvia Gullino, Luigi Ruggiu), sociale (Giulio Lucchetta) e scientifico (Lucia Palpacelli). Il volume è già sufficientemente ampio, per cui mi posso limitare, in questa occasione, ad un ricordo speciale, quello dell’amico Mario Vegetti, che ci teneva molto ad essere presente con un saggio. Rammento con affetto la sua ironia sui «dialogoni metafisici» fra me e Vigna che aprono questi volumi. Per il 2019, l’intenzione è di iniziare una trilogia sul pensiero platonico, cominciando con un collettaneo sulle Leggi, un dialogo relativamente poco indagato, rispetto almeno alla Repubblica. Tutto questo, come sempre, si potrà attuare – oltre che mediante la collaborazione di ottimi studiosi, negli anni divenuti amici – grazie alla passione culturale di Carmine Fiorillo, fondatore e “reggitore” di Petite Plaisance, al quale anche stavolta esprimo la mia vicinanza e gratitudine.
Luca Grecchi
Lucia Palpacelli
La pluralità metodologica nel pensiero aristotelico:tra teoria e prassi
Le diverse prospettive possibili per conoscere la realtà Ogni scienza considera lo stesso oggetto da punti di vista diversi Ogni scienza ha i suoi principi La relazione tra il soggetto conoscente e l’oggetto conosciuto: in sé e per noi La coscienza del limite umano nella conoscenza Il rapporto tra lo statuto ontologico dell’oggetto e il livello epistemologico L’estrema varietà della prassi metodologica L’approccio dialettico Un problema terminologico Alcuni esempi della movenza dialettica La diversa articolazione della movenza “dal generale al particolare” Da ciò che è più chiaro per noi a ciò che è più chiaro per natura Il valore dell’esperienza e dei fatti L’acqua più fredda che umida: la necessità teorica vince sul dato empirico La scienza non sbaglia, ma lo scienziato sì Considerazioni conclusive
La moltiplicazione dei bisogni indotti comporta l’inibizione dell’autentico desiderio che così diviene immediatezza, sensazione da soddisfare in tempi brevi, alienazione da se stessi e dalla comunità, luogo dove si incontrano la libertà e la solidarietà.
L’animalizzazione dell’essere umano Il Regno animale dello spirito si manifesta nella moltiplicazione dei bisogni. L’animale non umano nella sua fissità naturale sviluppa bisogni che gli consentono di sopravvivere in un determinato ambiente (Umwelt), ne diviene parte integrante ed indistinguibile. In assenza di intelletto l’animale non ha i mezzi per creare nuovi bisogni, ma deve inevitabilmente rispondere con i suoi istinti all’ambiente a cui è adattato. La natura umana, invece, è dotata di intelletto e dunque moltiplica i suoi bisogni per soddisfare aspirazioni materiali. La moltiplicazione dei bisogni in modo illimitato finisce per disorientare ed annichilire l’essere umano. Essi hanno l’effetto di animalizzarlo in modo particolare: la vita finalizzata all’utile ed ai bisogni senza limiti nega la natura dell’essere umano, la quale si realizza nella storia mediante la relazione comunitaria. L’essere umano, come definito da Marx, è ente generico (Gattungswesen), si definisce nella storia, le sue potenzialità prendono forma nel tempo storico creando mondi (Welt), poiché la temporalità progettante permette di trascendere lo stretto orizzonte dell’ambiente. Il mondo è il luogo degli esseri umani, nel quale operano mediante il lavoro ed i concetti e significano i loro gesti per trascendere la contingenza.
Il bene, ovvero l’universale concreto, procede mediante la conoscenza di sé e del mondo storico: non vi può essere universale concreto che nella feconda tensione tra particolare ed universale. Nella storia l’essere umano mette in atto le sue potenzialità, si conosce e si definisce. Se ciò non avvenisse non vi sarebbe che violenza, poiché l’universale senza particolare è solo annichilimento del concreto. L’universale d’altronde necessità di un lungo processo educativo; perché si giunga ad esso necessita della conoscenza di sé mediante il riconoscimento dell’altro e l’autoriconoscimento. Sono momenti sincretici senza i quali l’essere umano resta in bilico tra l’essere ed il nulla. Lo stare in bilico tra condizioni non definite consente al potere il dominio.
Bisogni inautentici e potere Nella produzione dei bisogni non vi è solo la necessità imperiale del mercato-plusvalore, ma in essi è iscritta la violenza e la razionalità del potere. La moltiplicazione infinita dei bisogni, particolarizza, individualizza nelle intenzioni del mercato che in tal modo si autorappresenta e si legittima nella funzione di soddisfare i bisogni individuali. Già in tale scopo vi è la negazione dell’universale, il soggetto deve atomizzarsi, deve separarsi dal concreto legame con la comunità, per viversi nella sovranità individuale. Hegel evidenzia che in tale individualizzazione dei bisogni, nell’io ipertrofico, in realtà, il soggetto si perde nella moltiplicazione dei bisogni indotti e nell’agire secondo il solo utile personale. In tale attività l’essere umano disperso tra desideri inautentici è solo un vuoto vaso in cui il caos regna. Si è così preda del mondo, cadono le difese del pensiero per essere parte del sistema che si trasforma in ambiente-mercato senza mondo. Si è gettati in un ambiente che chiede l’adattamento senza concetto ed immaginazione. La memoria, non più coniugata con la razionalità, perde la sua funzione di ricordare per concettualizzare ed orientare: essa si riduce al calcolo mediato, a semplice operatività applicativa di schemi predeterminati. Hegel rileva che il soggetto, ormai oggetto dell’economicismo nella corsa alla soddisfazione degli stimoli, non sente fortemente più nulla, diviene un essere anonimo disperso in desideri immediati. Il desiderio, sostituito dalle vogliuzze una per il giorno e una per la notte, come dirà Nietzsche, perde la capacità di favorire la conoscenza di sé, le proprie passioni, per regredire in dipendenza compulsiva. Il soggetto umano, mentre insegue l’iperstimolazione, diviene oggetto del sistema, che lo astrae dalla vita. Hegel constata e profetizza “l’ultimo uomo”, il quale non è un’improvvisa apparizione della storia, ma è l’effetto della “bestia del mercato”:
«L’animale è un che di particolare, ha il suo istinto e i limitati, non oltrepassabili mezzi dell’appagamento. Ci sono insetti che sono legati ad una pianta determinata, altri animali, che hanno una cerchia più ampia, possono vivere in differenti climi; ma interviene sempre un che di limitato di fronte alla cerchia che è per l’uomo. Il bisogno dell’abitazione ed abbigliamento, la necessità di non lasciar più il cibo crudo, ma di renderlo adeguato a sé e di distruggerne l’immediatezza naturale, fa sì che l’uomo non abbia la vita comoda come l’animale e che, inteso come spirito, neanche possa averla. L’intelletto, che concepisce le distinzioni, porta moltiplicazione in questi bisogni e, dal momento che gusto e utilità divengono criteri della valutazione, anche i bisogni stessi ne sono affetti. È da ultimo non più il bisogno, bensì l’opinione che deve venir appagata, e appartiene appunto alla cultura di scomporre il concreto nei suoi elementi particolari. Nella moltiplicazione dei bisogni risiede per l’appunto una inibizione del desiderio, poiché, quando gli uomini abbisognano di molte cose, la spinta verso una, di cui avrebbero bisogno, non è così forte, e ciò è un segno che la necessità in genere non è così potente».[1]
L’inibizione del desiderio diviene alienazione da se stessi e dalla comunità; al suo posto non resta che un mediocre succedaneo: il desiderio diviene immediatezza, sensazione da soddisfare e godere in tempi brevi. Di sensazione in sensazione si realizza la dispersione di sé, l’esistenza è così curvata “dalle passioni tristi” che rafforzano il potere, poiché il soggetto divenuto mezzo del sistema capitale non resiste allo svuotamento dell’io, il quale paradossalmente, diviene un io pieno ed ingombro di stimolazioni ingovernabili.
Dialettica e comunità Al nichilismo individualistico e predatorio Hegel contrappone l’economia fondata sui bisogni della persona e della comunità. Tale fondazione necessita della dialettica, quale modalità per trascendere la minaccia del nichilismo. Il soggetto che si radica nella famiglia e nello stato fonda la sua vita sull’etica, ovvero nel riconoscimento della presenza dell’altro, ciò comporta l’autolimitazione dei bisogni inautentici, e dunque la libertà. Quest’ultima è possibile solo se il soggetto si sottrae all’iperstimolazione perpetua: la libertà è sospensione delle sollecitazione per pensarle e razionalizzarle astraendone la verità storica. Il soggetto impara ad ascoltare se stesso, mentre razionalizza il mondo. Tali disposizioni e desideri autentici si materializzano nella comunità, la quale dà forma storica e vita all’individualità. Lo stato, in tale contesto, è il luogo in cui il soggetto si radica nella storia patria per aprirsi al mondo, per disporsi al riconoscimento ed all’ascolto dell’alterità nella quale ritrova se stesso:
«Con ciò, che l’uomo debba esser qualcosa, intendiamo che egli appartenga ad uno ‘stato’ determinato; poiché questo qualcosa vuol dire che allora egli è qualcosa di sostanziale. Un uomo senza ‘stato’ è una mera persona privata e non sta in una reale universalità. Dall’altro lato, il singolo può ritener sé nella sua particolarità per l’universale, e presumere che si abbandonerebbe ad un che di inferiore, se entrasse in uno ‘stato’. È questa la falsa rappresentazione per cui, se qualcosa guadagna un esserci che gli è necessario, con ciò si limiti e rinunci a sé».[2]
Utilitarismo e vita astratta L’atomizzazione, la privatizzazione dei desideri rendono il soggetto astratto. L’utilitarismo è una forma di vita astratta, in quanto il soggetto è avulso dal contesto, e si autopercepisce come creatore di se stesso, niente lo precede, per cui il mondo è a sua disposizione, sempre pronto all’uso. Il cosmopolitismo attuale è di ordine nichilistico ed utilitarista, poiché il soggetto senza legame patrio, linguistico e culturale non ha responsabilità alcuna verso qualsiasi comunità: è solo un atomo consumante che divora il mondo. L’atomizzazione non è un destino, l’essere umano è molto più di ciò che il sistema capitale rappresenta. Il pensiero crea concetti, porge ascolto al disagio, cerca parole per capire. La speranza non è solo potenzialità astratta, ma è racchiusa in ogni vita, in quanto il pensiero creante può essere condizionato, ma mai determinato. La sfida è fendere la caverna capitale con i suoi miti per ritrovarsi comunità. Razionalità e socialità non sono scindibili, la natura umana esige la socialità e l’umanità, senza le quali non resta che il cosmopolitismo nichilistico attuale, il quale è il regno della violenza dell’astratto contrapposto all’internazionalismo, il quale è invece, l’incontro delle patrie, il riconoscersi nella differenza. L’esodo dall’utilitarismo e dal cosmopolitismo nichilistico non può che avvenire mediante il radicamento comunitario, il quale non tribalizza, ma permette alle differenze di ritrovarsi per conoscere e conoscersi in processi storici inesauribili:
«La comunità è allora il luogo dove si incontrano la libertà e la solidarietà. Una libertà senza solidarietà è una illusione narcisistica destinata a sparire quando l’umana fragilità materiale costringe anche l’individuo più riluttante a relazionarsi con i suoi simili. Una solidarietà senza libertà è una coazione umanitaria estrinseca e di fatto ricade nella precedentemente ricordata tipologia dell’organizzazione politica dell’atomismo. Solidarietà e libertà sono entrambe necessarie. Questa è la logica conclusione di ogni elogio al comunitarismo».[3]
L’animalizzazione dell’essere umano si configura mediante la dispersione utilitaristica che aliena dalla profondità del logos calcolante e senziente a cui si unisce la sottrazione della memoria. Senza storia, senza riflessione sulla storia individuale e collettiva il soggetto è disintegrato in attimi senza futuro e senza passato. La resistenza civile e politica non può che fondarsi sul riappropriarsi del tempo predato dall’utile e dal consumo immediato acefalo.
Salvatore Bravo
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[1] G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Laterza, Bari 1999, p. 344.
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