«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
«Non si può negare che le parole servano in modo eccellente a recare entro l’orizzonte di ogni singolo individuo e a rendere possesso di quest’ultimo tutto il patrimonio di conoscenze che è stato procacciato dagli sforzi riuniti di ricercatori di tutti i tempi e di tutti i popoli. […] Ma nelIo stesso tempo bisogna riconoscere che molte parti delIa conoscenza sono state, in modo sorprendente, rese confuse ed oscure dall’abuso delle parole e dei modi generali di dire […]. Sarebbe desiderabile, perciò, che ciascuno facesse ogni sforzo per ottenere una chiara visione delle idee che vuol considerare, separandole da tutta quell’incrostatura e ingombro di parole […] per possedere il bellissimo albero della conoscenza, il cui frutto è eccellente e a portata di mano».
Ernst Cassirer, Philosophie der symbolischen Formen, I. Die Sprache, Berlin, Bruno Cassirer, 1923, trad. it.: Filosofia delle forme simboliche, I. Il linguaggio, La Nuova Italia, Firenze1961, p. 90.
Che cosa vuoi dire affermare che “il rischio è bello?”. L’assunzione del rischio e la sua adeguata collocazione all’interno di una vita “riuscita” implica la continua individuazione di priorità in vista della costituzione il più possibile armonica dell’esistenza. Centrale risulta essere la questione del discernimento. Cogliere il kairós, come far fiorire la propria esistenza, è un fatto strategico.
«[…] Che cosa vuoi dire affermare, seppur provocatoriamente, che “il rischio è bello?” E, ancora prima: che cos’è il rischio? Innanzitutto, sulla scorta del testo aristotelico, occorre rilevare che il rischio che siamo chiamati ad amministrare non è un azzardo, o un “salto nel buio”. Si tratta di uno snodo che emerge chiaramente in Etica Nicomachea IJI 6, quando vengono esaminate le varie forme del coraggio, ovvero di quella virtù che consiste nel “provar bene” la paura. Il coraggio, infatti, non indica l’eliminazione della paura, ma la sua “saggia amministrazione”: “È necessario avere paura dei pericoli ma fronteggiarli. Se, infatti, colui che fronteggia il pericolo non ha paura, non è coraggioso” (Grande Etica I, 20,1191 a 29-31). […] Essere coraggiosi, pertanto, significa “saper calcolare” – per quanto è possibile – lucidamente il rischio e quindi, ad esempio, saper distinguere rischi prevedibili e rischi non prevedibili […] La saggezza come amministrazione del rischio: La capacità di scegliere bene, infatti, è resa possibile, secondo lo Stagirita, proprio dal possesso della saggezza. […] La saggezza o prudenza è infatti quella virtù che ci impone calma e lucidità, in un mondo straordinariamente complesso, incerto e frenetico come il nostro. L’incertezza, il rischio, vanno allora amministrati, e vanno amministrati proprio tram ite la saggezza […]. Per gestire il rischio e per affrontare la complessità del mondo, pertanto, occorre tenere gli occhi ben aperti, è necessario non lasciarsi ingannare dalle apparenze e anche essere visionari, ovvero essere dotati di quelIa capacità di immaginazione che i greci chiamavano phantasia. Peraltro, oltre che “immaginazione”, la phantasia è anche “rappresentazione”, indicando cioè uno sporgersi al di fuori dell’immediato, da quello che vedo qui e ora, configurandosi come una pre-visione, ovvero come la capacità di costruire nuovi scenari rispetto a quelli attestati dalla sensazione. “Scegliere”, in questo senso, significa anche rappresentarsi il mondo come potrebbe essere […]. Perché, nella decisione, l’essere umano è chiamato […] a costruire, a farsi demiurgo della propria esistenza. […] Scegliere e prendere decisioni è rischioso, dunque, ma è proprio dalla scelta che si giudica il calibro di un individuo. […] La tensione originaria che costituisce l’essenza stessa di ogni felicità umana, cioè la tensione fra una stabilità interiore (anche se costantemente da rinsaldare) del proprio io e la mutevolezza degli eventi esterni, ovvero […] costituisce un ulteriore ambito di indagne.
[…] Da questo breve itinerario, è emerso come l’assunzione del rischio e la sua adeguata collocazione all’interno di una vita “riuscita”, renda necessari tagli, implichi la continua individuazione di priorità in vista della costituzione il più possibile armonica dell’esistenza. Centrare il bersaglio, come è evidente, è un compito difficilissimo: alcune volte sbagliamo e facciamo prendere il predominio a parti che ci fanno perdere di vita l’intero e l’obiettivo a cui mirare: e allora perdiamo tempo, non cogliamo il kairós, il momento opportuno. D’altra parte il kairós, collegato al verbo κρινω, che significa “separare”, “giudicare”, “discernere” […]. Centrale, ancora una volta, risulta essere la questione del discernimento, che rimanda a quel dis-cérnere (dis = due volte + cérnere = separare), quindi letteralmente al separare due volte, al separare con attenzione e, in senso più ampio, al giudicare, stimare, soppesare, valutare. Operazione insieme difficile ma essenziale, soprattutto nei momenti di crisi (κρισις), nozione a sua volta collegata, anche etimologicamente, a quella di kairós. La stessa krisis, in questo senso, può essere definita nei tennini di una saggia e feconda amministrazione del proprio disorientamento difronte alla complessità del mondo. D’altra parte, più in generale, cogliere il kairós, come far fiorire la propria esistenza, è un fatto strategico […].
ARIANNA FERMANI,QUANDO IL RISCHIO È BELLO Strategie operative, gestione della complessità e decision making in dialogo con Aristotele, in «Humanitas», Rivista bimestrale di cultura, fondata nel 1946, Anno LXXV – N. 1-2 – Gennaio-Aprile 2020, pp. 93-102.
Contrariamente ad un certo filone interpretativo che ritiene Aristotele scarsamente interessante dal punto di vista pedagogico, l’Autrice ritiene che il tema della paideia, nella riflessione dello Stagirita, rappresenti un elemento cruciale a molti livelli, avendo egli fornito imprescindibili elementi – di assoluto interesse e attualità – sul tema dell’educazione. Aristotele dunque come uno dei momenti fondamentali del pensiero pedagogico: la sua riflessione infatti mette a tema, in molti modi e su più piani, la questione della formazione del soggetto, che costituisce uno dei pensieri aurorali della filosofia occidentale. Più nello specifico, l’Autrice ha cercato di esplorare i molteplici nessi fra etica ed educazione, mostrando come, nel discorso dello Stagirita, il tema della paideia costituisca, insieme e a livelli diversi, uno snodo cruciale. L’educazione, cioè, si configura per il filosofo greco come una nozione intrinsecamente ricca e polivoca, che instaura con l’etica una complessa serie di legami.
Particolare della coppa di Duride, lato alto.
Particolare della coppa di Duride, lato basso.
Sommario
Osservazioni preliminari Originalità e attualità della riflessione aristotelica sull’educazione Primo scenario educativo: l’educazione precede l’etica L’insegnabilità della virtù: limiti e caratteristiche L’emotional training e l’educazione “delle” passioni Ulteriori articolazioni del modello educativo Secondo scenario educativo: l’educazione è l’etica Educazione e metodo della ricerca Riflessioni conclusive
Arianna Fermani
Divorati dal pentimento
Sguardi sulla nozione di metameleia in Aristotele
In copertina: William A. Bouguereau,The Remorse of Orestes (1862).
Questo saggio intende attraversare quel complesso crocevia di emozioni, desideri e memorie rappresentato dalla spinosa questione del pentimento, su cui Aristotele si impegna in alcuni passaggi delle sue riflessioni. Tali passaggi si rivelano di grande interesse per la serie di implicazioni e ripercussioni, nel campo etico, antropologico e anche giuridico. Dopo una ricerca lessicografica sui termini del campo semantico della nozione in questione (metameleia, metamelo, metameletikos, e anche, e contrario, ametameletos) all’interno del corpus aristotelicum, l’Autrice studia il tema del pentimento sulla scorta del modello teorico (già verificato su altri terreni), del Multifocal Approach, “approccio multifocale”. Questo è il paradigma, tipicamente aristotelico (e, più in generale, caratteristico del pensiero antico), consistente nella costante moltiplicazione dei modelli esplicativi della realtà e nel rifiuto della logica alternativa aut-aut. Ecco l’orizzonte concettuale in cui si ricostruiscono le molteplici connessioni e le diverse cornici concettuali della nozione di pentimento in rapporto con altre cruciali nozioni: la passione (pathos) – e, più in particolare, con la passione del dolore (lype) –, il pudore (aidos), la vergogna (aischyne), ignoranza, scelta, vizio e incontinenza (akrasia). Viene inotre offerta una riflessione sulle diverse valutazioni espresse da Aristotele sul pentimento, che in un certo senso rappresenta un segno del rincrescimento dell’agente, mentre, in un altro senso, viene collegato all’errore e alla consapevolezza avere compiuto un’azione sbagliata.
Introduzione
«Le persone malvagie (phauloi) sono divorate (gemousin) dal pentimento (metameleias)»,
scrive Aristotele in Etica Nicomachea.1 Chi è malvagio, dunque, è così (letteralmente) «pieno di pentimento»2 da esserne «disgustato».3 Ma tale sensazione, che nausea il soggetto che la sperimenta, insieme, lo “divora”, facendogli provare, contemporaneamente, sensazioni di “riempimento” e di “svuotamento” estremi. La penosa situazione di chi si pente, in realtà, era stata già anticipata poche righe prima, in cui, mediante un’immagine estremamente icastica, lo si descrive come un soggetto vittima di una dolorosa scissione interiore:
una parte [dell’anima] prova dolore a causa del suo vizio e si astiene da certe azioni, mentre una parte prova piacere, e una parte tira da un lato, l’altra da un altro, come se volessero farlo a pezzi.4
Ci troviamo, insomma, di fronte a individui lacerati e sofferenti («le passioni lacerano il loro animo e il pentimento li soffoca» commenta San Tommaso),5 come “spezzati in due”, sospesi tra il ricordo del piacere sperimentato e il dolore del rimorso derivante dal fatto di aver provato quello stesso piacere.6 In questo complesso e intricato crocevia di emozioni, desideri e ricordi, si situa la delicata questione del pentimento, su cui Aristotele si sofferma in alcuni passaggi della propria riflessione, passaggi che risultano essere di grande interesse per la serie di implicazioni e di ricadute, sul terreno etico, antropologico, sociale e anche giuridico. D’altro canto, come emerge anche dal recente saggio di Laurel Fulkerson, No Regrets: Remorse in Classical Antiquity,7 il tema del pentimento, nel suo difficile rapporto con il variegato mondo delle passioni, individuali e sociali, costituisce uno degli assi portanti della morale e dell’antropologia sin dall’età omerica,8 sebbene al tema, come è stato rilevato, non sia finora stata prestata la necessaria attenzione.9 Questo contributo intende concentrarsi sulla questione del pentimento (metameleia) nella riflessione di Aristotele, ricostruendo gli “scenari concettuali di appartenenza” e i suoi crocevia più significativi. Inoltre si intende attraversare il tema del pentimento sulla scorta del modello teorico (già verificato su altri terreni) del Multifocal Approach:10 ovvero mediante quel paradigma, tipicamente aristotelico (e, più in generale, caratteristico del pensiero antico), consistente nella costante moltiplicazione degli schemi esplicativi della realtà e nel rifiuto della logica alternativa dell’aut-aut, a favore della continua associazione di possibilità (sia-sia, et-et).
Note
1 Aristotele, Etica Nicomachea, IX, 4, 1166 b 24-25. La traduzione di questa e delle altre Etiche aristoteliche è di chi scrive in Aristotele, Le tre Etiche (con testo greco a fronte), presentazione di M. Migliori; traduzione integrale dal greco, saggio introduttivo, indici e apparati di A. Fermani, Bompiani “Il Pensiero Occidentale”, Milano 2008. 2 La presenza della terza persona plurale (ghemousin) del verbo ghemo (“essere pieno”, “essere carico”) legittima pienamente traduzioni letterali, come ad esempio quella di Carlo Natali, in Aristotele, Etica Nicomachea, Laterza, Roma-Bari 1999 («le persone ignobili sono piene di pentimenti») o di Marcello Zanatta, in Aristotele, Etica Nicomachea, 2 voll., Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 1986, 20022 («i malvagi sono pieni di pentimento»). La traduzione (certamente più libera) di ghemousin con “sono divorati” intende restituire in italiano anche l’elemento del tormento interiore determinato da tale dolorosa “pienezza”. 3 «Le mot gemousin fait image: il ne veut pas dire seulement être plein, mais être rassasié jusqu’au dégoût, jusqu’à vomir» (R.A. Gauthier – J.Y. Jolif, in Aristote, Éthique à Nicomaque, Paris 2002, 4 voll., II, 2, p. 735). 4 Aristotele, Etica Nicomachea, IX, 4, 1166 b 19-22. 5 Tommaso d’Aquino, Commento all’Etica Nicomachea di Aristotele (a cura di L. Perotto), 2 voll., Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1998. 6 Naturalmente non ogni forma di pentimento deriva dalla sperimentazione di un piacere precedente. Ad esempio si può provar rimorso per il fatto di non aver compiuto azioni che erano sì moralmente corrette ma che per il soggetto si sarebbero rivelate dolorose. In questo caso il dolore del pentimento deriverebbe, a sua volta, dal tentativo di evitare un altro dolore. Il modello (presentato qui e nelle pagine che seguono) del pentimento come dolore che segue un piacere rappresenta, pertanto, una semplificazione (realizzata sulla scia dell’esempio riferito dallo stesso Aristotele), di una questione estremamente più ampia e complessa. Per una complessificazione di tale quadro risulta utile, ad esempio, S. De Wijze, Tragic-Remorse–the Anguish of Dirty Hands, «Ethical Theory and Moral Practice», 7 (2005), pp. 453-471. 7 L. Fulkerson, No Regrets: Remorse in Classical Antiquity, Oxford University Press, Oxford 2013. 8Ivi, p. 5: «This book is based on the premise that the remorse plays a significant role in ancient classical literature, and therefore, in ancient ethical life». 9Ivi, pp. 5-6: «Its importance has not previously noted, I suspect primarily due to the fact that regret and remorse have rather different roles to play in ancient and modern cultures». Sul tema del pentimento in generale cfr. anche I. Thalberg, Remorse, «Mind», 72 (1963), pp. 545-555. 10 Cfr. M. Migliori, E. Cattanei, A. Fermani (eds.), By the Sophists to Aristotle through Plato. The necessity and utility of a Multifocal Approach, Academia Verlag, Sankt Augustin.
Sommario
Riflessioni introduttive I nomi del pentimento e le declinazioni della “cura di sé” Tra “pentimento” e “patimento”: lungo i molteplici legami tra metameleia e pathos Tra metameleia, pudore e vergogna I nessi fra pentimento e responsabilità dell’agire Riflessioni conclusive Riferimenti bibliografici
Questo contributo intende riflettere sulla – antica e, insieme, attualissima – nozione di speranza a partire da una breve indagine etimologico-semantica (a cui si torna, chiudendo il cerchio, al termine del saggio), nella convinzione che la riflessione sulle parole e sulle loro origini possa donare alcune feconde piste al pensiero.
Il breve saggio si snoda lungo due linee direttrici fondamentali: la speranza come páthos, ovvero come passione, sentimento o desiderio, e la speranza come areté, ovvero come “virtù”, nozione che, nel senso greco e, più nello specifico, aristotelico del termine, implica la capacità di amministrare correttamente la passione. In questo secondo caso, inoltre, si assiste alla messa in campo di un “versante attivo della speranza”, che chiama in causa il soggetto agente e volente, che ha il compito di dare forma al suo desiderio. Qui il “sogno ad occhi aperti” diventa prassi, si fa progetto.
L’itinerario si interseca in molti modi ad altre fondamentali nozioni, tra cui, solo per indicarne alcune, quella di paura (che si configura come una passione che dirige il soggetto nella direzione opposta rispetto alla speranza), quella di rischio (a cui la originaria vocazione all’“apertura” prodotta dalla speranza è intimamente connesso e che richiede, a sua volta, un’opera di “saggia amministrazione”) e quella di fiducia (a cui la speranza è costitutivamente intrecciata e che chiama in causa un altro profilo della riflessione, affrontato al termine del saggio, quale quello educativo).
«La felicità è la vita stessa quando viene vissuta al meglio: si è felici perché si vive bene, perché la vita ha acquisito un peso, una direzione, un orientamento, perché la vita si è affrancata dalla sua nudità, dalla sua esposizione alla morte, dalla semplice e anonima sussistenza, trasformandosi in una vita dotata di senso, in una individuale e particolarissima consistenza. […] felicità intesa come pienezza, come attingimento pieno del telos. Se il telos è interno all’energeia che lo produce, se il fine è contenuto nell’azione ed è indistinguibile da essa, allora è impossibile pensare ad una felicità che risieda escludivamente nel bersagio e non anche lungo i passi che conducono al suo raggiungimento […] lungo tutto il tragitto della vita». Arianna Fermani, Vita felice umana, 2006.
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«[…] il problema della vita nel suo complesso a qualcuno di noi può sembrare meno impellente di quanto non sembrasse a Socrate. Epure la sua domanda ci incalza ancora oggi e reclama l’impegno a riflettere sulla nostra vita nel suo complesso, e cioè nella totalità dei suoi aspetti e in tutta la sua profondità». Bernard Williams, L’etica e i limiti della filosofia, 1985.
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Nel concetto della filosofia come domanda totale, problematicità pura, e perciò metafisica, risiede la classicità del pensiero antico. […] Se la filosofia rinuncia al suo carattere di domanda totale rinuncia al […] senso antico della filosofia, intesa come acquisizione perenne dello spirito, come vero κτῆμα εἰς ἀεί [possesso pe sempre]». Enrico Berti, Quale senso ha oggi studiare la filosofia antica, 1965.
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«ὡς ἡδὺ καὶ μακάριον τὸ κτῆμα» [quanto soave e felice è il possesso della filosofia]. Platone, Repubblica, 496 c.
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«[…] il movimento nel quale è contenuto anche il fine è anche azione. […] Uno che vive bene, ad esempio, ad un tempo ha anche ben vissuto, ed uno che è felice, ad un tempo è stato anche felice». Aristotele, Metafisica, IX, 6, 1048 b.
Note sul testo Il saggio si propone di riflettere sul modello classico del biosteleios, cioè della felicità della vita nella sua totalità, cercando di mostrare come il dialogo con gli antichi fornisca ancora “utili” schemi concettuali. Più in particolare si cerca di mostrare come il confronto con le riflessioni etiche di Platone e Aristotele permetta di dipanare i numerosi fili che costituiscono la trama di ogni esistenza umana (come i dolori, i piaceri, l’ampia gamma di beni e di risorse che la costituiscono), e di individuare alcuni rilevanti nodi concettuali (tra cui, ad esempio, quello di “misura”) che costituiscono la semantica della nozione di eudaimonia. Il modello antico di eudaimonia come euprattein, inoltre, cioè come capacità strategica di “giocar bene”, sembra risultare particolarmente fecondo, invitando ad interrogarsi sulle modalità di attuazione della vita felice e sulla gestione di tutto ciò che ad ogni esistenza si offre per una “prassi di felicità”.
Note sull’autore
Arianna Fermani insegna Storia della Filosofia Antica all’Università di Macerata. Tra le sue pubblicazioni: L’etica di Aristotele. Il mondo della vita umana, Brescia, Morcelliana, 2012; By the Sophists to Aristotle through Plato. The necessity and utility of a Multifocal Approach, a cura di E. Cattanei, A. Fermani, M. Migliori, Sankt Augustin, Academia Verlag, 2016; Aristotele e l’infinità del male. Patimenti, vizi e debolezze degli esseri umani, Brescia, Morcelliana, 2019. Ha tradotto integralmente le Etiche di Aristotele (Aristotele, Le tre Etiche, Milano, Bompiani, 2008; Giunti, 2018) e ha collaborato all’edizione dell’Organon (a cura di M. Migliori, Milano, Bompiani, 2016).
Indice Prefazione di Salvatore Natoli
Introduzione
Parte prima. Semantica della felicità
Capitolo primo. La felicità come domanda originaria 1.1. Domanda “di” felicità
1.2. Domande “sulla” felicità 1.2.1. Felicità: una questione terminologica 1.2.2. Felicità e forme di vita
Capitolo secondo. Felicità e dolore 2.1. L’esperienza del dolore 2.1.1. Il dolore come accadimento 2.1.2. Le forme del dolore 2.2. Cicatrizzazione del dolore e cura di sé 2.2.1. Approcci al dolore 2.2.2. Cura del dolore e cura di sé 2.2.3. L’assunzione del dolore 2.3. Concludendo
Capitolo terzo. Felicità e piacere 3.1. L’esperienza del piacere 3.2. Fenomenologia del piacere 3.2.1. Il piacere nell’orizzonte della corporeità 3.2.2. Dinamiche piacevoli e dolorose
3.2.3. Il corpo e i desideri: la veemenza di un fiume in piena
3.2.4. Anima e corpo di fronte al piacere 3.2.5. Piaceri e criteri di scelta 3.3. Il ruolo del piacere nella vita felice
Capitolo quarto. Felicità e realizzazione di sé 4.1. Profili della virtù: tentativi di un recupero 4.1.1. Virtù come eccellenza 4.1.2. Virtù come forza 4.1.3. Virtù come disposizione 4.1.4. Virtù come giusto mezzo 4.2. La virtù come architettonica della felicità 4.2.1. Vita felice e accordata: la virtù come musica 4.2.2. Vita felice e ordinata: la virtù come misura 4.2.3. La virtù come arte del vivere bene
Capitolo quinto. Felicità e beni esteriori 5.1. Primi approcci al problema 5.2. Felicità e fortuna 5.2.1. Lampi di felicità, colpi di fortuna 5.2.2. Fortuna e virtù 5.2.3. Felicità e fortuna: osservazioni conclusive 5.3. Felicità e amministrazione dei beni 5.3.1. Il possesso e l’utilizzo di due beni supremi: la sophia e la phronesis
Parte seconda. Prassi di felicità
Capitolo primo. Felicità e valorizzazione delle proprie risorse 1.1. Vita felice e buon utilizzo dei propri talenti 1.1.1. Per una eudaimonia nell’orizzonte della physis 1.1.2. Felicità al singolare, felicità al plurale 1.2. Eudaimonia come ritrovamento e buona allocazione del proprio daimon 1.2.1. Felicità come consapevolezza 1.2.2. Percorsi esistenziali e traiettorie di felicità 1.3. Saggezza e sapienza di fronte alla felicità
Capitolo secondo. Felicità come conquista di pienezza 2.1. Felicità tra esperienze di pienezza e pienezza di vita 2.1.1. Tentativi di articolazione della nozione di pienezza
2.2. Per una pienezza nell’orizzonte dell’energeia 2.3. La difficoltà di far spuntare le ali: la felicità come conquista 2.3.1. Felicità pienamente consapevole e pienamente umana 2.4. Riflessioni conclusive
Conclusioni 1. Per concludere 2. Vita felice umana: appunti di viaggio
Bibliografia 1. Dizionari e lessici 2. Testi antichi 3. Testi moderni e contemporanei 4. Letteratura critica e studi generali
«Le ferite non scompaiono mai del tutto, soprattutto se profonde […] tuttavia, anche se non scompaiono, possono cicatrizzare. In questa cicatrice, che è, contemporaneamente, segno del patimento e sintomo di guarigione, si gioca la possibilità, per l’uomo che ha incontrato la morte e il dolore e che di fronte ad essi ha sofferto, di “ricominciare” a vivere», A. Fermani, Vita felice umana. In dialogo con Platone e Aristotele.
Tra le molte pubblicazioni di Arianna Fermani
Arianna Fermani
L’educazione come cura e come piena fioritura dell’essere umano. Riflessioni sulla Paideia in Aristote
«Non è una differenza da poco il fatto che subito fin dalla nascita veniamo abituati in un modo piuttosto che in un altro ma, al contrario, è importantissimo o, meglio, è tutto» (Etica Nicomachea, II, 1, 1103 b 23-25).
Questo contributo mira a mettere a fuoco il tema dell’educazione di Aristotele, mostrando come tale riflessione risulti essere originale ed attuale. L’indagine prende avvio dall’esame delle occorrenze di alcuni lemmi all’interno del corpus del filosofo particolarmente significativi rispetto al tema della educazione, come ad esempio
Si intende mostrare come la riflessione aristotelica sulla paideia, oltre ad un utilizzare una specifica metodologia di indagine, si muova all’interno di due fondamentali scenari educativi: nel primo (che a sua volta si articola in una serie di sotto-questioni, come ad esempio il tema dell’insegnabilità della virtù o quello dell’emotional training e dell’educazione delle passioni) l’educazione precede l’etica, mentre nel secondo l’educazione consiste nell’etica, secondo il fondamentale modello teorico dell’energeia.
Arianna Fermani è Professoressa Associata in Storia della Filosofia Antica all’Università di Macerata. Le sue ricerche vertono principalmente sull’etica antica e, più in particolare, aristotelica, e su alcuni snodi del pensiero politico e antropologico di Platone e di Aristotele. È Membro dell’Associazione Internazionale “Collegium Politicum” e dell’ “International Plato Society”. È membro del Consiglio Direttivo Nazionale della SISFA (Società Italiana di Storia della Filosofia Antica), e Direttrice della Scuola Invernale di Filosofia Roccella Scholé: Scuola di Alta Formazione in Filosofia “Mario Alcaro”. È Presidente della Sezione di Macerata della Società Filosofica Italiana. Ecco, cliccando qui, l’elenco delle sue pubblicazioni.
Arianna Fermani, Vita felice umana. In dialogo con Platone e Aristotele, Editore: eum, 2006 [prima edizione]
Il saggio si propone di riflettere sul modello classico del bios teleios, cioè della felicità della vita nella sua totalità, cercando di mostrare come il dialogo con gli antichi fornisca ancora “utili” schemi concettuali. Più in particolare si cerca di mostrare come il confronto con le riflessioni etiche di Platone e Aristotele permetta di dipanare i numerosi fili che costituiscono la trama di ogni esistenza umana (come i dolori, i piaceri, l’ampia gamma di beni e di risorse che la costituiscono), e di individuare alcuni rilevanti nodi concettuali (tra cui, ad esempio, quello di “misura”) che costituiscono la semantica della nozione di eudaimonia. Il modello antico di eudaimonia come eu prattein, inoltre, cioè come capacità strategica di “giocar bene”, sembra risultare particolarmente fecondo, invitando ad interrogarsi sulle modalità di attuazione della vita felice e sulla gestione di tutto ciò che ad ogni esistenza si offre per una “prassi di felicità”.
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Arianna Fermani, L’etica di Aristotele: il mondo della vita umana, Editore: Morcelliana, 2012
Utilizzando tutte e tre le Etiche aristoteliche, Arianna Fermani, con questo volume, offre un’ulteriore prova dell’attualità e utilità dell’etica dello Stagirita e di un pensiero che, esplicitamente e costitutivamente, mostra che ogni realtà “si dice in molti modi”. Gli schemi che l’intelligenza umana elabora devono essere molteplici e vanno tenuti, per quanto possibile, “aperti”. Questo determina la presenza di “figure” concettuali estremamente mobili e intrinsecamente polimorfe, figure che il Filosofo attraversa lasciando che i loro profili, pur nella loro diversità e, talvolta, persino nella loro incompatibilità, convivano. La verifica di questa metodologia passa attraverso l’approfondimento di alcune nozioni-chiave, dando vita ad un percorso che, con proposte innovative e valorizzazioni di elementi finora sottovalutati dagli studiosi, si snoda lungo tre linee direttrici fondamentali: quelle di vizio e virtù, quella di passione e, infine, quella di vita buona.
Sommario
Ringraziamenti Premessa I “Pensiero occidentale” vs “pensiero orientale”: alcune precisazioni II “Essere” e “dirsi in molti modi” Introduzione I. Per un “approccio unitario” ad Aristotele II. Autenticità delle tre Etiche III. Obiettivi e struttura del lavoro
PRIMA PARTE Percorsi di attraversamento delle figure di vizio e virtù Capitolo primo: Giustizia e giustizie Capitolo secondo: La fierezza Capitolo terzo: Sui molti modi di dire “amicizia Capitolo quarto: Lungo i sentieri della continenza e dell’incontinenza Capitolo quinto: La philautia: tra “egoismo” e “amor proprio” Capitolo sesto: Modulazioni della nozione di vizio
SECONDA PARTE: Percorsi di attraversamento della nozione di passione Capitolo primo: La passione come nozione “in molti modi polivoca” Capitolo secondo: Le metamorfosi del piacere Capitolo terzo: Articolazioni della nozione di pudore
TERZA PARTE: Percorsi di attraversamento della nozione di vita buona Capitolo primo: Dio, il divino e l’essere umano: sui molti modi di essere virtuosi e felici Capitolo secondo: La questione dell’autosufficienza Capitolo terzo: Natura/nature, virtù, felicità Capitolo quarto: Verso la felicitàlungo le molteplici rotte della phronesis Capitolo quinto: La felicità si dice in molti modi Conclusioni Bibliografia Indice dei nomi
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Aristotele, Le tre etiche. Testo greco a fronte, Editore: Bompiani, 2008.
In un unico volume e con testo greco a fronte le tre grandi opere morali di Aristotele: l’”Etica niconomachea”, l”Etica eudemia” e la “Grande etica”. Questi tre scritti rappresentano tutta la riflessione etica dell’Occidente, e il punto di partenza di ogni discorso filosofico sul fine della vita umana e sui mezzi per raggiungerlo, sul bene e sul male, sulla libertà e sulla scelta morale, sul significato di virtù e di vizio. La raccolta costituisce un unicum, poichè contiene la prima traduzione in italiano moderno del trattato “Sulle virtù e sui vizi”. Un ampio indice ragionato dei concetti permette di individuare le articolazioni fondamentali delle nozioni e degli snodi più significativi della riflessione etica artistotelica. Tramite la presentazione, contenuta nel seggio introduttivo, dei principali problemi storico-ermeneutici legati alla composizione e alla trasmissione delle quattro opere, e di un quadro sinottico dei contenuti delle opere stesse, è possibile visualizzare la struttura complessiva degli scritti e le loro reciproche connessioni.
Il confronto tra Platone ed Aristotele è stato interpretato, per lo più, come una opposizione tra modelli conoscitivi: da un lato la dialettica, intesa come il culmine del sapere, dall’altro la logica, intesa come l’insieme delle tecniche per ben argomentare, al di là delle pretese platoniche di una supremazia della dialettica. Ma ha ancora un fondamento filologico e storico questa contrapposizione? Un interrogativo che – nei saggi qui raccolti di alcuni dei più autorevoli interpreti del pensiero antico – mette capo a una pluralità di scavi, storiografici e teoretici. Scavi che invitano a una lettura dei testi platonici ed aristotelici nella loro complessità: emergono inaspettati intrecci e molteplici significati dei termini stessi di dialettica e logica in entrambi i pensatori. Non solo la dialettica platonica ha un suo rigore, ma la stessa logica aristotelica ha affinità, pur nelle differenze, con le procedure argomentative della dialettica. Una prospettiva ermeneutica che interessa non solo lo storico della filosofia antica, ma chiunque abbia a cuore le radici greche delle nostra immagine di ragione.
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Maurizio Migliori, Linda M. Napolitano Valditara, Arianna Fermani, Interiorità e anima: la psychè in Platone
Vita e Pensiero, 2007
Il concetto di anima, una delle più grandi “invenzioni” del mondo greco, figura teorica che ha attraversato e segnato la storia dell’intero Occidente, trova in Platone il primo fondamentale inquadramento filosofico. Non si tratta solo di una tematica dal significato metafisico e religioso: nell’approfondire i molteplici temi che questo concetto attiva emergono naturalmente, già nel filosofo ateniese, tutte le questioni connesse alla spiritualità e allo psichismo umano, con le loro conseguenze etiche. In questo senso l’”anima” apre la strada a un infinito processo di approfondimento e di scoperta dell’interiorità del soggetto. Non a caso questo tema compare in molti testi platonici, in particolare nei dialoghi. Da questa prima elaborazione scaturirono luci e ombre, soluzioni di antichi problemi e nuove domande, di non meno difficile soluzione, anzi tanto complesse da essere ancora oggi messe a tema. Sui molteplici aspetti di queste tematiche filosofiche alcuni tra i maggiori studiosi di Platone si confrontano nel presente volume, avanzando proposte spesso assolutamente innovative, anche per quanto riguarda l’utilizzo di testi sottovalutati, o addirittura quasi ignorati dagli studi precedenti, con una dialettica che dà modo al lettore sia di verificare la capacità ermeneutica delle diverse impostazioni, sia di riscoprire la ricchezza del contributo platonico rispetto a problemi con cui lo stesso pensiero contemporaneo torna positivamente a misurarsi.
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Humanitas (2016). Vol. 1: L’inquietante verità nel pensiero antico.
Editoriale: I. BertolettI, “Humanitas” 1946-2016. Identità e trasformazioni di un’idea l’inquietante verità. La riflessione anticaa cura di Arianna Fermani e Maurizio Migliori M. Migliori, Presentazione F. Eustacchi, Vero-falso in Protagora e Gorgia. Una posizione aporetica ma non relativista M. Migliori, Platone e la dimensione umana del verol. Palpacelli, Vero e falso si apprendono insieme. Il vero e il falso filosofo nell’Eutidemo di Platonea. Fermani, Aristotele e le verità dell’etica G.A. Lucchetta, Dire il falso per conoscere il vero. Aristotele, Fisica ii 1, 193a7) F. Mié, Truth, Facts, and Demonstration in Aristotle. Revisiting Dialectical Art and Methoda. longo, I paradossi nell’Ippia minore di Platone. La critica di Aristotele, Alessandro di Afrodisia e Asclepioe. Spinelli, Sesto Empirico contro alcuni strumenti dogmatici del vero. Note e rassegne F. De Giorgi, Il dialogo nel pontificato di Paolo VI G. Cittadini, Filippo Neri. Una spiritualità per il nostro tempo.
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J. Rowe, Arianna Fermani, Il ‘simposio’ di Platon
Academia Verlag, 1998
Cinque lezioni sul dialogo con un ulteriore contributo sul ‘Fedone’ e una breve discussione con Maurizio Migliori e Arianna Fermani; 27-29 marzo 1996, Università di Macerata, Dipartimento di filosofia e scienze umane, in collaborazione con l’Istituto Italiano per gli studi filosofici.
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Arianna Fermani, “Brividi di bellezza” e desiderio di verità
“Brividi di bellezza” e desiderio di verità in Bellezza e Verità; Brescia, Morcelliana, 2017; pp. 195 – 203
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ARISTOTELE E I PROFILI DEL PUDORE
Arianna Fermani
Vita e Pensiero, Rivista di Filosofia Neo-Scolastica
Rivista di Filosofia Neo-Scolastica
Vol. 100, No. 2/3 (Aprile-Settembre 2008), pp. 183-202
In questo volume vengono raccolti cinque saggi sul pensiero filosofico greco nell’età romana. Le linee di ricerca qui proposte toccano nello specifico questioni attinenti alla filosofia stoica, a quella epicurea, a quella cinico-sofistica e all’aristotelismo di epoca imperiale.
«La persona il cui sentire tende al melanconico non viene così definita perché, priva delle gioie della vita, si strugge in una oscura malinconia, ma perché le sue sensazioni, quando si dilatano oltre una certa misura, o imboccano una direzione errata, approdano a questa tristezza dell’anima più facilmente che ad altre condizioni di spirito. Il melanconico ha dominante il sentimento del sublime».
Immanuel Kant, Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime, a cura di L. Novati, Fabbri, Milano 2003, p. 95.
V’è una questione al centro dell’estetica hegeliana, ed infine di tutta la cultura contemporanea, che ha assunto da molto tempo ai nostri occhi una dimensione teoreticamente rilevante e di capitale importanza anche culturale. E, questo, non solo per una certa chiave interpretativa dell’essenza dialettica che caratterizza il movimento dell’arte contemporanea: chiave che, come pensiamo di poter dimostrare, essa tiene celata nel suo difficile nodo. Ma, ben più in là di questo, per la possibilità ch’essa offre, nel suo fondo teoretico, di un preciso evidenziarsi, sul piano della cultura contemporanea, di una caratteristica idea d’artisticità: e, quindi, per le basi che in questo processo di evidenza possono essere ritrovate, affinché una nuova consapevolezza eidetica e fenomenologica si fondi di fronte ai mutevoli livelli dell’esperienza artistica ed una più aperta ed insieme più rigorosa teoria generale dell’arte possa sorgere su tale acquisita consapevolezza.
Questa questione fondamentale è quella nota come la questione della «morte dell’arte». Un dibattito sorto da un disagio e dalle inquietudini dell’anima romantica in mezzo al volgere sempre più precipitoso della circostante società e della storia, una disputa venuta in chiaro tra Schiller, Novalis ed Hegel, esplosa nell’estetica hegeliana e poi non mai del tutto sopita, anzi di recente rinfocolata, in diversi strati della riflessione, sotto l’urto degli stessi movimenti artistici più avanzati, in tutte le arti e nella connessa teoria.
Un dubbioso quesito pregiudiziale è bene subito toglier di mezzo. Si tratta della questione terminologica: nella lingua italiana il termine «morte» ha una certa pesantezza o naturalistica o mistica. Per cui mal si adatta a significare quel vivo pensiero dialettico, che porta ben al di là della «fine» o comunque del finire, del morire contrapposto e antitetico al nascere. Tenuto conto di questo, preferiamo, tuttavia, «morte» (anziché «fine», come fa – coerentemente, del resto, con la sua tesi – il Croce); con l’avvertimento, cioè, che intendiamo assumere questo termine dal centro stesso dialettico del pensiero hegeliano, già ben chiaro nei noti scritti giovanili, ad esempio nel frammento sull’Amore. È pur vero, poi, che, in genere, per parlare di «morte dell’arte» Hegel userà in prevalenza il termine Auflösung, (dissoluzione-risoluzione); ma anche questo significato può meglio esser recuperato, mi sembra, in un’assunzione dialettica, almeno per il nostro caso, del termine «morte», con la soprindicata precisazione.
Del resto, proprio la disputa sorta in Italia negli ambienti hegeliani, dal De Sanctis al De Meis, usa ripetutamente le espressioni «morte dell’arte», «morte della poesia» (quest’ultima soprattutto) forse con più ragione di quanto non si sia mai creduto e proprio nei confronti della loro validità interpretativa del pensiero dello Hegel.
La questione della «morte dell’arte», dunque, è una questione di fondo, è bene sottolinearlo, che attraversa l’esperienza artistica in atto ed insieme il piano della riflessione estetica che vi si costruisce sopra, generandosi dal suo interno.
Uno dei compiti che mi propongo, a questo punto, consiste propriamente nel far venire in evidenza tutto il rilievo che questa fondamentale ed ancor oggi attualissima questione assume non soltanto per l’interpretazione dei vari movimenti dell’arte contemporanea dal Romanticismo ai giorni nostri, ma per la necessaria e quanto mai urgente analisi preliminare ad ogni fondazione di una teoretica generale dell’arte – o, se si preferisce, di una Estetica generale e speciale –, oggi. Voglio dire che si tratta di un passaggio obbligato, per chi vuol avviarsi nel nostro tempo con qualche sicura consapevolezza a ricerche teoriche sull’arte. Il non averne prese in considerazione tutte le oscure e spesso variamente aggrovigliate implicazioni, l’aver trattato questa questione di volo ed in superficie, ha segnato troppe volte l’indice d’arresto e la dogmatica chiusura di una ricerca in atto.
Com’è avvenuto per Benedetto Croce. Tutti conosciamo la famosa sua tesi, poi strenuamente difesa in polemica col Bosanquet, tendente ad interpretare le affermazioni del pensiero hegeliano a questo proposito come quelle che volevano indicare la definitiva ed avvenuta «fine» dell’arte. E sappiamo come tutto questo possa benissimo rientrare nel grande solco della ermeneutica hegeliana allo stesso titolo e con le stesse polarizzazioni di significato (più o meno metafisica) per cui v’entra la questione – esteriormente analoga – della fine della filosofia.
Ma non è questo il punto: non credo, cioè, che oggi si possa rispondere a quesiti di questo genere con un sì o con un no. La disputa Croce-Bosanquet sul modo di intendere la lezione dei testi hegeliani in proposito, se dunque l’arte si debba dare per storicamente ed effettivamente morta oppure no, direi che non ha più – né può più avere – alcuna seria rilevanza oggi.
Piuttosto è da vedere (e solo in questo modo, a mio avviso, riacquista pieno ed attuale interesse il problema) quale sottile nodo di significati stava sotto quella questione e quali ideali intenzionalizzazioni, quali emergenze di verità, da quel nodo di significati partiva per irradiarsi in tutto il corpo e il corso futuro dell’esperienza artistica e per continuare poi a vibrarvi dentro, come la sua stessa essenza palpitante, fino all’arte dei nostri giorni.
Rimane dunque inteso fin d’ora che, pur nell’obbligo, al quale mi accingo, di ritornare sui testi (spesso anche con ostinata minuzia) per mettere a fuoco filologicamente la vasta questione della «morte dell’arte», non è davvero né l’accertamento né la risposta al quesito se l’arte sia o non sia finita nei tempi fra Hegel e Croce che si dovrà cercare; ma, piuttosto, tutto il senso complesso e fecondo che, da sotto la dura scorza di quei concetti, si veniva aprendo e disseminando nell’oscuro vento dell’esperienza e della storia contemporanea.
È in questa nostra esperienza contemporanea che tutti, in misura diversa e per diverse vie, abbiamo ormai «vissuto» la morte dell’arte. Essa è dentro di noi, irreversibile storia. Ma tutto quello ch’era in sua potenza di significare, forse non è ancora stato interamente significato. Noi non possiamo che avvicinare alcune delle molte direzioni intenzionali di sviluppo che la totalità di verità di un tale insieme intuitivo –folgorato dapprima in senso moderno nei cieli del Romanticismo – cela dentro di sé per la storia dell’uomo. E lo possiamo fare solo partendo dal principio. Un modo di risalire a questo principio può essere la riconsiderazione di quell’occasione italiana che fu la disputa del Croce intorno alla “fine dell’arte” in Hegel.
Dino Formaggio, L’idea di artisticità. Dalla «morte dell’arte» al «ricominciamento» dell’estetica filosofica, Casa Editrice Ceschina, Milano, 1962, pp. 25-27.
«Il pensiero filosofico ci permette di osare sentire quello che sentiremmo in ogni caso, ma senza osare, e che resterebbe per questo sospeso a metà nascita, come quasi sempre succede al nostro sentire. È per questo che la vita di tanta gente non va oltre il conato, un conato di vita. E questo è grave, perché la vita deve essere piena in qualche modo, in questo conato di essere che siamo» (p. 41).
«La Filosofia nasce dalla necessità che la vita umana ha di trasparenza e di visibilità. Se la vita aspira a farsi terrena, chiede ugualmente di rendersi intelleggibile e non ha altra dimora se non la trasparenza; è intimità che aspira a farsi visibile, solitudine che vuole essere comunità nella luce» (p. 42).
María Zambrano, Hacia un saber sobre el alma, Losada, Buenos Aires, 1950. In versione italiana: Verso un sapere dell’anima, a cura di E. Nobili, Cortina, Milano, 1996, p. 41.
«Perché ciò che è propriamente storico non è il fatto resuscitato con tutti i suoi componenti, fantasma della sua realtà, né tanto meno la visione arbitraria che elude il fatto, bensì la visione di quel che sopravvive ai fatti, il senso che sopravvive assumendoli come corpo. Non gli avvenimenti così come furono, ma ciò che ne è rimasto: le rovine. Le rovine sono la cosa più viva della storia, perché vive storicamente soltanto ciò che è sopravvissuto alla sua distruzione, ciò che è rimasto sotto forma di rovine. In tal modo le rovine ci darebbero il punto di identità tra il vivere personale – la storia personale – e la storia. Persona è colui che nella vita è sopravvissuto alla distruzione di ogni cosa, e ancora lascia intravedere, con la sua stessa vita, che un senso superiore ai fatti fa acquisire ad essi significato configurandoli in un’immagine: affermazione di una libertà imperitura pur nell’imporsi delle circostanze, nella prigione delle situazioni».
María Zambrano, L’uomo e il divino, trad. it. di G. Ferraro, Roma, Edizioni Lavoro, 2008, p. 228.
«L’emergere degli esseri umani come “specie” – uomini e donne capaci di vivere in quella comunità di libertà che è il potenziale della specie – questa è la base soggettiva di una società senza classi. La sua realizzazione presuppone una trasformazione radicale degli impulsi e dei bisogni degli individui: uno sviluppo organico all’interno della realtà storica e sociale. La solidarietà si troverebbe su un terreno molto incerto se non fosse radicata nella struttura istintuale degli individui. In questa dimensione gli uomini e le donne si confrontano con le forze psico-fisiche che devono fare proprie senza poterne sconfiggere la naturalità. Questa è la sfera degli impulsi primari: dell’energia libidica e distruttiva. La solidarietà e la comunità si basano sulla subordinazione dell’energia distruttiva e aggressiva all’emancipazione sociale degli istinti vitali. Il marxismo ha trascurato troppo a lungo il potenziale politico radicale di questa dimensione, sebbene il sovvertimento della struttura istintuale sia un prerequisito per un cambiamento nel sistema dei bisogni, il segno di una società socialista come differenza qualitativa».
Herbert Marcuse, La dimensione estetica. Un’educazione politica tra rivolta e trascendenza, a cura di Paolo Perticari, Guerini e Associati, 2002, pp. 22-23.
Da un lato Aristotele mantiene il concetto di dio che gli proviene dalla religione greca, cioè quello di vivente eterno e ottimo, ma dall'altro si serve di questo concetto per definire la natura del motore immobile, cioè del principio da cui dipende il movimento, e col movimento la vita e l'esistenza, di tutto ciò che è compreso nell'universo, vale a dire del principio supremo, trascendente e onnipotente, anche se non creatore. Pertanto può essere legittimo anche parlare di un Dio di Aristotele con l'iniziale maiuscola, purché si faccia riferimento alla nozione greca di dio e si tenga presente l'intera filosofia di Aristotele, la quale dimostra la necessità di un principio supremo e trascendente, dotato di caratteri personali, cioè di intelligenza e volontà, e dunque suscettibile di essere classificato nella specie degli dèi, ma al tempo stesso degno di meritare l'iniziale maiuscola, per il fatto di essere il principio supremo, il bene e il bello per eccellenza.
Il titolo di questo contributo mi è stato proposto da Maurizio Migliori e la mia prima reazione è stata di respingerlo, perché per Aristotele «dio» (theos) è un nome comune, cioè è il nome di una specie di esseri viventi, come «uomo» o «cavallo», perciò nella traduzione si dovrebbe scrivere con l’iniziale minuscola. Inoltre in Aristotele non c’è una nozione di Dio paragonabile a quella che sta alla base delle grandi religioni monoteistiche, e delle filosofie che da esse sono state ispirate, cioè quella nozione per cui c’è un solo Dio, creatore e signore del cielo e della terra. In questa concezione il nome «Dio» diventa quasi un nome proprio e, come tale, va scritto con l’iniziale maiuscola, indipendentemente dal fatto che colui che scrive sia o non sia credente. Alla fine però, dopo avere pensato a tutto quello che avrei potuto scrivere, ho deciso di conservare il titolo propostomi da Migliori, perché c’è un senso, come vedremo, in cui esso può risultare appropriato anche ad Aristotele. Prima di tutto desidero sgomberare il terreno da un’altra improprietà di linguaggio, che in parte dipende da un’interpretazione a mio avviso inaccettabile, cioè quella per cui si parla di una «teologia» di Aristotele, espressione che io stesso ho usato in varie circostanze e di cui ora, in un certo senso, mi pento. L’idea che ci sia una teologia di Aristotele è antica e deriva probabilmente dai commentatori antichi, probabilmente da Alessandro di Afrodisia, se non addirittura da Teofrasto. Essa ha dominato tutta l’antichità, il medioevo (sia arabo, sia bizantino, sia latino) e gran parte dell’esegesi moderna.
[…] Sostenendo che il motore immobile è causa efficiente naturalmente non intendo escludere che esso, e quindi «il dio», possa essere anche causa finale, ma ritengo che esso lo sia per l’uomo, non per il cielo. Ciò mi sembra risultare da un altro passo della stessa Etica Eudemea, dove Aristotele afferma, a proposito della parte cognitiva dell’anima, che
«il dio non la governa dando degli ordini, ma come ciò in vista di cui la saggezza (phronesis) ordina […], poiché quegli non ha bisogno di nulla. Perciò quella scelta e quell’acquisto dei beni naturali che produrrà più di tutto la conoscenza del divino (ten tou theou theorian), […] questa è la migliore e questo criterio è il più bello, mentre quella che per difetto o per eccesso impedisce di servire e di conoscere il dio (fon theon therapeuein kai theorein), questa è cattiva» (Ethica Eudemia, VIII, 3, 1249 b 13-21).
Il fine in vista del quale la saggezza ordina, in questo passo, è chiaramente indicato nella conoscenza del dio, e probabilmente anche nel culto pubblico di esso (therapeuein), come suggerisce Bodétis (R. Bodéus, Aristote et la théologie des vivants immortels, cit., pp. 269-270). Dunque in questo senso il dio è per l’uomo un fine. Ma ciò non conferisce all’etica di Aristotele un carattere teologico, come pretendeva Jaeger, perché il vero fine dell’uomo, in cui consiste la felicità, è in generale la conoscenza delle cause prime, tra le quali è compreso anche il motore immobile, e quindi il dio. Ciò è confermato dal passo dell’Etica Nicomachea parallelo a quello dell’Etica Eudemea appena citato:
«Ma neppure della sapienza (sophia) la saggezza è signora né della parte migliore dell’anima, come neppure della salute è signora la medicina, poiché questa non si serve di quella, ma guarda a come procurarla. La saggezza dunque ordina in vista di quella, ma non a quella. Inoltre sarebbe la stessa cosa se uno dicesse che la saggezza politica comanda sugli dèi, per il fatto che ordina intorno a tutte le cose che sono nella città» (Aristotele, Ethica Nicomachea, VI, 13, 1145 a 6-11).
La saggezza, dunque, ordina in vista della sapienza, la quale è il vero fine dell’uomo. Ma la sapienza è la conoscenza dei princìpi, cioè delle cause prime, fra le quali vi è anche il dio. Di conseguenza la saggezza dirige tutte le azioni dell’anima verso la conoscenza del dio, così come nella città la saggezza politica organizza tutte le cose, compreso il culto pubblico degli dèi. In questa concezione non vi è nulla di teologico: il vero fine dell’uomo, per Aristotele, resta la conoscenza in tutta la sua portata. Anche quando lo Stagirita afferma che l’uomo deve imitare gli dèi, la ragione di questa imitazione è soltanto il valore della conoscenza. Egli dice infatti:
«tutti suppongono che gli dèi vivano e siano in attività, poiché non possiamo supporre che essi dormano come Endimione. Ora, al vivente privo dell’azione morale e ancor più della produzione, che rimane se non la conoscenza (theoria)? Pertanto l’attività del dio, che si distingue per beatitudine, sarà di tipo conoscitivo (theoretike). E di conseguenza fra tutte le attività umane la più simile a questa sarà la più felice […]. Infatti per gli dèi la vita intera è beata, mentre per gli uomini lo è nella misura in cui sussiste una somiglianza con siffatta attività» (Ethica Nicomachea, X, 8, 1178 b 18-27).
Qui abbiamo ancora a che fare con la nozione di divinità accettata da tutti, ma essa è collocata nel quadro di un’etica tipicamente aristotelica, cioè finalizzata alla conoscenza dei princìpi e delle cause prime.
In conclusione, da un lato Aristotele mantiene il concetto di dio che gli proviene dalla religione greca, cioè quello di vivente eterno e ottimo, ma dall’altro si serve di questo concetto per definire la natura del motore immobile, cioè del principio da cui dipende il movimento, e col movimento la vita e l’esistenza, di tutto ciò che è compreso nell’universo,[1] vale a dire del principio supremo, trascendente e onnipotente, anche se non creatore. Pertanto può essere legittimo anche parlare di un Dio di Aristotele con l’iniziale maiuscola, purché si faccia riferimento alla nozione greca di dio e si tenga presente l’intera filosofia di Aristotele, la quale dimostra la necessità di un principio supremo e trascendente, dotato di caratteri personali, cioè di intelligenza e volontà, e dunque suscettibile di essere classificato nella specie degli dèi, ma al tempo stesso degno di meritare l’iniziale maiuscola, per il fatto di essere il principio supremo, il bene e il bello per eccellenza.
Enrico Berti, Il dio di Aristotele, in: Id., Nuovi studi aristotelici. V. Dialettica, fisica, antropologia, metafisica, Morcelliana, Brescia, 2020, pp. 250, 266-267.
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[1] Cfr. De caelo, I, 9, 279 a 28-30: «di là dipendono anche per le altre cose, per alcune in modo più preciso e per altre in modo più indiretto, l’essere e il vivere».
Enrico Berti, Professore emerito dell’Università di Padova, dove ha insegnato Storia della filosofia. È socio nazionale dell’Accademia dei Lincei, membro della Pontificia Accademia delle scienze, presidente onorario dell’Institut International de Philosophie. Tra le sue numerose pubblicazioni: Introduzione alla metafisica (2017), la traduzione italiana della Metafisica di Aristotele (2017), Aristotelismo. Tradizioni di pensiero (2017), Tradurre la «Metafisica» di Aristotele (2017), Contraddizione e dialettica negli antichi e nei moderni (2016), La ricerca della verità in filosofia (2014), In principio era la meraviglia. Le grandi questioni della filosofia antica (20018), A partire dai filosofi antichi (con Luca Grecchi, 2009), Aristotele nel Novecento (2008), Incontri con la filosofia contemporanea (2006).
«La questione filosofica essenziale è dunque la totalità, che deve essere osservata da tutti i punti di vista. Così l’intuizione di Nietzsche è solo l’inizio di una ricognizione approfondita … il filosofo deve essere sorretto da un grande amore per l’ essere umano, la vita e la conoscenza: con un atteggiamento critico, non erudito, pluralistico o “panteistico” potrà cogliere l’individualità più profonda e la totalità, che è superiore alle singole parti, e potrà superare la frammentazione, le parti separate e la discontinuità del mondo».
Pierpaolo De Giorgi, Pizzica e armonia. Dallo sguardo di Dioniso al tarantismo. Una nuova filosofia e via terapeutica, Editori Congedo, Lecce 2018, p. 168.
Sergio Quinzio e la critica alla società del benessere, lo scopo inventato per coloro che non sperano più nella felicità. L’attività feconda del soggetto, è sostituita con il benessere materiale senza immaginazione. Chiunque lotti contro la desimbolizzazione della vita è un punto ottico di energia creativa che lievita e resiste al nulla.
Avere tutto, potere tutto, essere tutto. Soddisfare ogni possibile desiderio prima ancora che nasca, e inventarne di nuovi per il gusto di soddisfarli. Non conoscere limiti; vivere nel benessere e nella libertà edenici. Nel Vangelo secondo Giovanni Gesù, prima di cadere nella morte, pronuncia le sue ultime parole: consummatum est. Consumare come finire, dunque, come esaurire. La categoria oggi dominante del consumare è la categoria del finire, il sigillo della storia del mondo.
La vera minaccia sta nel fatto che il processo tende all’insoddisfazione assoluta, all’annullamento del valore delle cose e degli uomini ridotti a cose, in definitiva al consumo e alla distruzione della realtà.
Ma che rapporto c’è fra il benessere e la felicità? Benessere è lo scopo inventato per coloro che non sperano più nella felicità, come nevrosi è la condizione di coloro che non osano più sapere che esiste il dolore.
La parola felicità, che nel suo significato etimologico indica l’attività feconda del soggetto, è sostituita con il benessere materiale senza immaginazione.
La società del benessere è un’idea che nasce dalla tecnica produttivistica.
La morte di dio coincide con la morte della verità, per cui chiunque lotti contro la desimbolizzazione della vita è un punto ottico di energia creativa che lievita e resiste al nulla, all’olocausto della verità.
Oggi è necessario unire le forze critiche, ascoltare la multifocalità delle prospettive altre, per formare la comune consapevolezza del male che avanza. Il male è l’infantilismo di massa indotto con cui sussumere fasce sempre più vaste di popolazione cristallizata in un’eterna adolescenza senza identità e progetto.
Consumare-finire Sergio Quinzio, filosofo e teologo di difficile collocazione, pur in una prospettiva altra rispetto alle sinistre marxiane e marxiste, analizza lo stato presente nella sua apocalittica e misera problematicità. La chiesa ha spesso cavalcato lo spirito del mondo: l’altare, associato al trono, è stato parte del processo di sussunzione e dominio. Quinzio analizza le metamorfosi delle forme di sussunzione. Nei suoi testi la religione ed i valori cristiani sono paradigmi con cui denunciare il capitalismo assoluto: la disumanità come sistema. La responsabilità umana ed il male sono parte integrante della visione cristiana di Quinzio. La responsabilità umana è l’altro volto della kenosi[1], dello svuotamento dell’onnipotenza di Dio, che permette la libertà degli esseri umani e con essa la possibilità del male. Il giudizio sul capitalismo assoluto non conosce appello: esso è il ribaltamento del bene, imita e perverte la pienezza del bene con il feticismo delle merci. Il consumo onnivoro divora anche il vero eden-bene, lo cancella, lo assimila col fremito immaginifico dell’abbondanza delle merci. Consumare non è un atto neutro: consumare significa annichilire l’essere, fagocitarlo. Consumare significa derealizzare il mondo e la realtà fino alla realizzazione minacciosa ed integrale del nulla. L’onnipotenza del consumo divora la categoria della possibilità, della vita, al suo posto vi è l’unidirezionalità meccanica del gesto esiziale che preannuncia la sua fine:
«Avere tutto, potere tutto, essere tutto. Soddisfare ogni possibile desiderio prima ancora che nasca, e inventarne di nuovi per il gusto di soddisfarli. Non conoscere limiti; vivere nel benessere e nella libertà edenici. È ancora l’idea del regno dei cieli, in un adattamento e in una trasposizione dove ogni aspetto trova il suo corrispondente. Anche il consumare. Nel Vangelo secondo Giovanni Gesù, prima di cadere nella morte, pronuncia le sue ultime parole: consummatum est. Dagli altri vangeli queste parole non sono state tramandate: le riporta solo l’ultimo degli evangelisti, quello al quale è attribuita la rivelazione della fine dei tempi e del giorno del Signore contenuta nell’Apocalisse. Consumare come finire, dunque, come esaurire. La categoria oggi dominante del consumare è la categoria del finire, il sigillo della storia del mondo».[2]
Disincanto Colui che è nella trappola del consumo, dipende dalle cose, è trainato con violenza da agenti esterni, è il triste complice dell’apocalisse di un intero pianeta. L’accumulo non garantisce la felicità, anzi il consumo è inversamente proporzionale alla felicità: il consumo smodato delude sempre. Il consumatore assoluto, figura antropologica del turbocapitalismo, vive in un clima di perenne conflitto, l’atmosfera relazionale è appestata dalla sfiducia e dalla violenza dei concorrenti. Il consumatore assoluto è sul mercato della violenza, ne è parte, ma non la percepisce, consuma, ma è consumato dal disincanto che il feticismo delle merci gli comunica:
«L’americano Vance Packard proclama allarmato che la continua dilatazione dei consumi, favorita allo scopo di far crescere di pari passo la produzione, non può durare all’infinito, perché si giungerà prima o poi al limite di saturazione, e cioè a una condizione finale di blocco. Questa morte per affogamento nel proprio grasso è la previsione avanzata da insigni cultori della scienza economica e appassionatamente negata, in nome della stessa scienza, da altri esperti non meno illustri, come Walter Heller. Sia come sia, l’apocalisse è molto meno scientifica e molto più radicale. È probabile che esistano infiniti universi di beni da inventare e da produrre – dal momento che la loro utilità non è affatto in gioco – e che abbia quindi ragione la scienza ottimista e torto quella pessimista (sempre che l’ottimismo non sia destinato a ricevere qualche grosso contraccolpo dall’esterno del sistema). Ma la vera minaccia sta nel fatto che la soddisfazione, o magari la felicità, ricavata dalla fruizione dei singoli beni economici diminuisce con l’aumentare globale dei consumi, e che quindi il processo tende all’insoddisfazione assoluta, all’annullamento del valore delle cose e degli uomini ridotti a cose, in definitiva al consumo e alla distruzione della realtà».[3]
La merce come sostanza prima La società del consumo ha la sua sostanza prima e perversa: la merce. Ogni ente è posto sulla linea della merce da consumare. La merce è il mitico modello di fondazione a cui tutto eguagliare: gli esseri umani non sono che merce tra le merci, il pianeta è merce da consumare, il globo terrestre è solo un ampio mercato senza significato, tutto procede fatalmente; avendo il sistema fatalmente disperso ogni teleologia e logos, si autoriproduce secondo un perverso movimento:
«Come conseguenza dell’identificazione degli oggetti fra loro – privati di significato e ridotti tutti al minimo denominatore comune dell’essere oggetti – c’è il sussistere di istituti, concetti, prassi, tradizioni, formule che hanno esaurito da molto tempo il loro senso e il loro valore: in quanto liberati dalla necessità di adempiere ad altra funzione che non sia tutta nell’essere oggetti, continuano a vivere, o piuttosto a restare, dal momento che gli oggetti non vivono. Questa insperata salvezza nella comune dannazione è sopraggiunta, per esempio, sulla chiesa cattolica, e i luoghi di culto cristiani – proprio quando il culto è solo per gli oggetti – sono tornati a riempirsi. Perché dove la realtà è consumata non esiste più una possibilità di offrire oggetti senza che vengano automaticamente consumati. Tra queste sopravvivenze, o piuttosto permanenze, di cose svuotate di valore ci sono i princìpi sui quali si regge la società civile, gli ordinamenti e le leggi: poiché la diffusione del benessere e l’avvento della società opulenta discendono in modo quasi esclusivo dall’incremento della produttività determinato dallo sviluppo delle scienze e delle tecniche, e cioè dalla messianica possibilità di far tendere la produzione all’infinito e contemporaneamente i costi a zero, princìpi, ordinamenti e leggi sono in realtà impotenti a dirigerne o a mutarne o a modificarne il corso, scongiurandone la minaccia finale». [4]
Assimilazione regressiva La felicità promessa vive nell’illusione di un tempo a venire, nella ripetizione di un ciclo cosmico e pagano, in cui l’attimo presente è pregno della frustrazione di domani, della speranza irriflessa nella magia della merce. Il consumismo integrale con la sua circolarità temporale è una forma di paganesimo, la vita degli esseri umani diviene organica al tempo circolare, diviene parte dei cicli naturali. Il progetto esistenziale e collettivo è sostituito dall’assimilazione regressiva ai cicli temporali. Il consumo produce solo altro consumo, in un circuito di dipendenza senza scampo: i dannati degli ipermercati sono infecondi, perché la felicità è osmosi con il mondo, è relazione biunivoca, mentre la felicità delle merci è sterile, è ripetizione di un atto servile, è impotenza generalizzata venata di violenza acquisitiva:
«È strano che, in una società dinamica come la nostra, l’ideale inseguito sia statico: il benessere, lo star bene, la sazietà soddisfatta e conclusa. Mentre le antiche civiltà statiche proponevano l’ideale aperto della felicità, parola che con femina, fenus, fecundus, fetus deriva da felare (poppare, succhiare), con significato di fecondo, fertile. Ma che rapporto c’è fra il benessere e la felicità? Sembra che gli uomini del benessere subiscano l’imposizione di una identificazione obbligatoria: in qualche oscuro modo la felicità la vogliono, e tutto quello che viene offerto è invece il benessere, che non è una macchina più o meno adatta a produrre la felicità, ma una macchina che sta al posto della felicità, in sua vece. Un uomo che credesse ancora davvero nella possibilità di essere felice non riuscirebbe a concepire neanche l’idea del benessere, la parola stessa non avrebbe per lui nessun senso. Benessere è lo scopo inventato per coloro che non sperano più nella felicità, come nevrosi è la condizione di coloro che non osano più sapere che esiste il dolore». [5]
Le parole e l’ordine del discorso sono un perenne luogo di battaglia. Per avanzare il capitale assoluto deve ridistribuire le parole, modificarne il significato, sottrarre significati per impedire che le parole possano essere veicolo di alternative. La storia e la filosofia sono anch’esse ridimensionate e disposte nell’ottica del trionfo del liberalismo e della fine della storia: oltre il presente non vi è nulla, la gabbia d’acciaio è totalità sostanziale. La religione è tollerata solo come servizio di assistenza. La parola felicità (dal latino “femina”), che nel suo significato etimologico indica l’attività feconda del soggetto, è sostituita con il benessere materiale senza immaginazione, con la tracotanza dell’avere che costruisce barriere, atomizza, isola e rende il capitalismo assoluto fonte di verità e di affermazione indiscussa. Il postulato del consumare non è mai messo in discussione, è il dogma a cui ci si inchina a prescindere dalla posizione che si occupa nel modo di produzione. Si è così avvinti da forze che non lasciano scampo e che esigono il continuo olocausto di sé (holòkaustos, “bruciato interamente”), del mondo, in un bruciare che non è sono metaforico:
«La società del benessere non ha niente in comune con una società che si proponga di migliorare le condizioni materiali di vita degli uomini, è tutt’altra cosa. Nasce dal postulato che non esista altra realtà al di fuori della produzione e del consumo, che non esista altro significato al di fuori del disporre di moltissimi oggetti. Importanti sono gli oggetti in sé e per sé, in quanto feticci: gli stessi bisogni cadono quindi nell’ombra e non si sa neppure più cosa siano. Al benessere non si può sovrapporre la moralità, perché le idee non sono comunque sovrapponibili e reciprocamente penetrabili. La società del benessere è un’idea che nasce dalla tecnica produttivistica, e che ubbidisce quindi alla sua logica interna deducendone automaticamente una sua morale, l’unica che non la contraddica: la morale dell’efficienza e del suo successo messa in luce da Max Weber. Non si può fondere il bisogno di felicità naturale dei secoli pagani, la morale cristiana, il moderno stato di diritto, le tecniche produttivistiche contemporanee, e risolvere così un problema di scelta scegliendo tutto insieme. Di veramente caratteristico, nell’attuale società, c’è infatti il rifiuto delle scelte, che è stato battezzato civiltà pluralistica o del dialogo o, precisamente, del benessere. Questo tipo di società sceglie, di fatto, il benessere; ma è una strana scelta, perché il benessere implica l’accettazione indifferenziata di tutte le cose e di tutte le idee. Il presupposto implicito è che, non valendo nessun criterio di preferenza, il risultato auspicabile e necessario può aversi solo mediante l’incremento quantitativo». [6]
Produttivismo indifferenziato La critica di Sergio Quinzio si fa rilevante, coglie nelle alternative apparse nella storia del Novecento lo stesso male: la produzione senza misura. La storia non è stata maestra di vita, ha riprodotto lo stesso schema in contesti diversi: il produttivismo, il saccheggio, la sussunzione dei dominatori che in gioco di cambi di maschere ideologiche sono la riproposizione dello stesso tragico problema, ovvero il tentativo programmatico di negare il limite, la misura per l’onnipotenza della produzione. L’economicismo è dunque la cifra della modernità, l’alternativa non può che iniziare dal mettere il discussione la sacralità dell’economia. Marx, con il Capitale, ha teorizzato l’uscita dal paradigma dell’economia; il Vangelo ha parole lapalissiane verso la proprietà privata e la cattiva distribuzione dei beni, al punto che la Chiesa è stata l’istituzione che ne ha impedito la lettura rivoluzionaria:
«Ma il tragico è che non si vede che cosa si debba o si possa scegliere al di fuori del benessere che occupa tutto l’orizzonte, che sembra assorbire tutta la realtà. Il benessere, per esempio, ha deglutito tutto il movimento operaio, declassandolo da fatto capovolgente a fatto correttivo. Il guasto più profondo sta nell’incapacità di concepire scelte veramente alternative. Dal vangelo alla rivoluzione francese, dal socialismo alla società opulenta, dai testi eruditi ai fumetti c’è ormai un unico schieramento che incarna per definizione la civiltà e il progresso, la cui compattezza, essendo fondata sul benessere, è garantita dalla rinuncia a qualsiasi verità e insidiata soltanto dai conflitti di interessi istituzionalizzati. Di quanto si è allargata spazialmente la libertà formale, di tanto è diventata pesante e paralizzante l’illibertà sostanziale, coincidente con la preclusione di qualunque alternativa e speranza. L’accettazione del sistema è obbligata, e diventa perciò inutile qualunque riserva, qualunque protesta, qualunque accusa». [7]
La poietica (dal gr. poiētikós, der. di póiēsis “produzione”) è il nuovo fascismo della quantità: l’io desiderante è solo l’epifenomeno del mercato, che attraverso il condizionamento dei mezzi mediatici sostituisce l’io con una finzione dello stesso, con l’io minimo organico al mercato. Individualismo astratto che idolatra i consumi personali per astrarsi ed estraniarsi dalla cura del mondo.
Verità e tolleranza Consumare significa finire: il fine è sostituire la verità con l’indifferenza e rappresentare quest’ultima per tolleranza ed inclusione. Senza verità, il soggetto non ha più bisogni profondi, non parla con se stesso, è straniero a se stesso, il nulla avanza e rende l’io disabitato:
«Un altro infine, che funzionava spaventosamente bene ancora ieri, è già quasi del tutto seccato: convogliava l’intransigenza e l’intolleranza, il poco e il corrotto, cioè, che era rimasto della fede nella verità assoluta. L’indifferenza per la verità ha prodotto la tolleranza. Resta ancora qualche sedimento d’intolleranza, defluito dal piano delle fedi e poi delle idee a quello degli interessi personali contingenti, ma stiamo per diventare tutti opulenti e presto non avremo più né bisogni né interessi. Allora, nel nulla, non ci saranno attriti». [8]
Conclusione L’analisi di Sergio Quinzio è un appello all’agire e alla responsabilità umana che devono emanciparsi dal male, dall’eccedenza della sofferenza. L’essere umano non si salva da solo, ma è vocato alla responsabilità storica nel suo tendere verso la fine dei tempi. Il cristianesimo di Quinzio è una forma di umanesimo, poiché la fede non deresponsabilizza, e dinanzi allo svuotamento di Dio, al male che irrompe nella storia con l’inquietante consumo dell’essere e dell’esserci, l’umanità deve testimoniare che un altro modo di vivere è possibile.
La morte di dio coincide con la morte della verità, per cui chiunque lotti contro la desimbolizzazione della vita è un punto ottico di energia creativa che lievita e resiste al nulla, all’olocausto della verità. La comune critica da posizioni diverse contribuisce a chiarire la condizione storica presente. La fatica del concetto vive nella relazione tra identità, differenze. La critica è il lievito della prassi, la prepara, ne affina la consapevolezza. La complessità della globalizzazione necessita di più voci per essere compresa e per rispondere alle contraddizioni che la attraversano fatalmente. Il capitalismo contemporaneo si struttura e consolida nell’esproprio non solo dei beni comuni, ma, specialmente, nel rendere – mediante la pratica del consumo – gli esseri umani infantili, persone che non pongono il problema del senso e del limite. Pertanto oggi è necessario unire le forze critiche, ascoltare la multifocalità delle prospettive altre, per formare la comune consapevolezza del male che avanza. Il male è l’infantilismo di massa indotto con cui sussumere fasce sempre più vaste di popolazione cristallizata in un’eterna adolescenza senza identità e progetto, per poterle dominare:
«Più semplicemente: il capitale oggi non mira tanto ad alienare/estraniare cercando di imporre uno specifico modo, una determinata forma di vita, ma impedendo ogni cristallizzazione di un modo, ogni strutturazione di una forma di vita. Mira a lasciarci infanti, a non farci mai crescere, non vuole narrare una storia o impedirne la narrazione ma gettarci in un’apocalisse permanente. Non serve più distruggere un mondo, una storia, una cultura, una tradizione, se riesci a far sì che non possa mai costruirsene una, che il tempo non riesca mai a solidificarsi, che la tendenza non riesca mai a istituirsi, mettendo le mani sulla capacità di costruire, sulla facoltà di solidificare, sulla potenzialità di istituire. A che serve intaccare una qualche realizzazione e configurazione di “famiglia”, “stato”, “nazione”, “comunità”, “personalità”, “felicità”, se riesci a impedire che possa mai emergere un qualsiasi coagulo? A che serve radere al suolo tutto ciò che è stato edificato se riesci a impedire che possa più edificarsi qualcosa andando a distruggere giorno per giorno il cantiere aperto per riaprirne uno subito dopo? A che serve cucirti addosso una nicchia o una gabbia (fosse anche dorata), quando basta renderti un migrante senza fissa dimora? A che serve impedirti di fare questo o costringerti a fare quest’altro quando basta bombardarti di stimoli, di possibilità e di informazioni impedendoti così di strutturare qualsiasi atto, di articolare qualsiasi risposta, di tradurli in una qualche azione? Per tenerti fermo è più facile sollecitarti in infiniti modi che non impedirti un qualche movimento o richiedertene qualche altro». [9]
Dinanzi alla tragedia del presente è necessario l’ascolto di tutte le voci dissenzienti per rimettere in cammino le comunità.
Salvatore Bravo
***
[1] Kenosi parola greca da κένωσις, kénōsis, in italiano “kenosi” o “chenosi”, che deriva dall’aggettivo κενός, kenós, che significa “vuoto”. [2] Sergio Quinzio, Cristianesimo dell’inizio e della fine, Adelphi eBook, 2014. [3]Ibidem, p. 12. [4]Ibidem, p. 13. [5]Ibidem, p. 14. [6]Ibidem, pp. 15-16. [7]Ibidem, p. 16. [8]Ibidem, p. 24. [9] Giacomo Pezzano, Tractatus Philosophico-Anthropologicus. Natura umana e capitale, Petite Plaisance, Pistoia 2012, p. 87.
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