Ray Bradbury (1920-2012) – Sostanza (identificazione della vita), tempo per pensare (tempo di pensare a questa identificazione, di assimilare la vita), diritto di agire in base a ciò che apprendiamo. Rileggiamo “Fahrenheit 451”.

Bradbury

 

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Fahrenheit_451_(1966)_Francois_Truffaut

«[…] Sapete cosa fanno? Riempiono i crani della gente di dati non combustibili, li imbottiscono di “fatti” al punto che non possano più muoversi tanto sono pieni, ma sicuri di essere “veramente bene informati”. Dopo di che avranno la certezza di “pensare”, la sensazione del movimento, quando in realtà sono fermi come un macigno. […] Non daranno loro niente di scivoloso e ambiguo come la filosofia o la sociologia affinché possano pescare con questi ami fatti e idee che è meglio restino dove si trovano. Con ami simili, dicono, pescherebbero la malinconia e la tristezza. Chiunque possa far scomparire una parete TV e farla riapparire a volontà, e la maggioranza dei cittadini oggi può farlo, [riterrà di essere felice proprio perché deprivato del pensiero critico]. […] Sapete perché libri come questo siano tanto importanti? Perché hanno sostanza. Che cosa significa in questo caso “sostanza”? Per me significa struttura, tessuto connettivo. Questo libro ha pori, ha caratteristiche sue proprie, è un libro che si potrebbe osservare al microscopio. Trovereste che c’è della vita sotto il vetrino, una vita che scorre come una fiumana in infinita profusione. […] Capite ora perché i libri sono odiati e temuti? Perché rivelano i pori sulla faccia della vita. Viviamo in un tempo in cui i fiori tentano di vivere sui fiori, invece di nutrirsi di buona pioggia e di fertile limo nero. […] Questa è la prima cosa delle tre che ci mancano: sostanza, tessuto di elementi vitali.
La seconda è avere tempo per pensare. […] Il televisore vi dice lui quello che dovete pensare. Vi spinge con tanta rapidità e irruenza alle sue conclusioni che la vostra mente non ha tempo di protestare, di dirsi: “Quante sciocchezze!”.
Qualcuno dice che i libri non sono “reali”. Li si può almeno chiudere, dire: “Aspetta un momento”. Ma chi mai è riuscito a strapparsi dall’artiglio che v’imprigiona quando mettete piede nel salotto TV? Vi foggia secondo l’aspetto che esso più desidera! L’ambiente in cui vi chiude è reale come il mondo. Diviene e pertanto è la verità.
I libri invece possono essere battuti con la ragione. […] I libri potranno esserci di aiuto? Soltanto se potremo avere la terza cosa che ci manca.
La prima, come ho detto, è sostanza, identificazione della vita. La seconda, agio, tempo di pensare a questa identificazione, di assimilare la vita. La terza: diritto di agire in base a ciò che apprendiamo dall’influenza che le prime due possono esercitare su di noi. […]

[…] E quando ci domanderanno che cosa stiamo facendo, tu potrai rispondere loro: Ricordiamo. […] Per ogni cosa c’è una stagione. Sì. Il tempo della demolizione, il tempo della costruzione. Sì. Il tempo del silenzio e il tempo della parola […] E sull’una e sull’altra riva del fiume v’era l’albero della vita che dava dodici specie di frutti, rendendo il suo frutto per ciascun mese; e le fronde dell’albero erano per la guarigione delle genti».

Ray Bradbury, Fahrenheit 451, pubblicato nel 1951

 

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George Herbert (1593-1633) – O denaro, rovina della gioia e sorgente di dolore, da dove vieni mai, fresco e bello?

Herbert

avaro_grande

 

 

O denaro, rovina della gioia e sorgente
di dolore, da dove vieni mai, fresco e bello?
lo so che i tuoi natali sono bassi e volgari:
povero e sporco l’uomo t’ha trovato in miniera.
Certo tu hai tanto poco contribuito a questo
grande regno che adesso tu possiedi, che l’uomo
quand’eri miserabile dovette estrarti fuori
dalla caverna o grotta oscura in cui giacevi;
con la forza del fuoco poi ti rese lucente;
anzi, il volto dell’uomo tu hai assunto, ché abbiamo
con il nostro sigillo ceduto a te il diritto;
tu sei l’uomo, ed è l’uomo la tua scoria soltanto.
L’uomo t’ha fatto ricco, e ti chiama sua ricchezza:
e cade nella fossa che scava per estrarti.

George Herbert

 

 

Dumas

 


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Thomas Mann – La conoscenza umana e l’approfondimento della vita umana hanno un carattere di maggiore maturità che non la speculazione sulla Via Lattea. Il vero studio dell’umanità è l’uomo

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Nobiltò dello spirito

«Ma non è forse vero che la meditazione cosmologica, paragonata al suo opposto, a quella psicologica, ha in sé qualcosa di puerile? Dicendo questo rammento gli occhi tondi e luminosi, da fanciullo, di Albert Einstein.
È inutile: la conoscenza umana e l’approfondimento della vita umana ha un carattere di maggiore maturità che non la speculazione sulla Via Lattea: vorrei affermarlo con il più profondo rispetto.
“Libero ognuno” osservava Goethe “d’occuparsi di ciò che lo attrae, che fa piacere, che gli pare utile; ma il vero studio dell’umanità è l’uomo”».
Thomas Mann, Nobiltà dello spirito, Mondadori, Milano, 1977.

 


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Ilaria Rabatti – «Al fuoco della carità». Introduzione al libro di Margherita Guidacci, «Il fuoco e la rosa. I “Quattro Quartetti” di Eliot e Studi su Eliot»

Il fuoco della carità

«Al fuoco della carità»

 


Arde di carità
il tuo cuore e nel vincolo di fuoco
adombrando la rosa, trasfigura in giardini
tutta la tua intricata solitudine.
                                      
 M. Guidacci

«Questo libro che ripropone, a distanza di più di trenta anni dalla loro prima pubblicazione presso IPL , la traduzione dei Quattro Quartetti e tutti gli studi critici che Margherita Guidacci ha dedicato all’opera di T.S. Eliot, ha il senso di un necessario (e amorevole) atto di riconoscimento nei confronti di una donna che ha sempre inteso la letteratura come impegno e responsabilità etica a livello più alto e cosciente, e a cui – come sottolineava Fulvio Panzeri in un suo articolo  – la cultura italiana deve moltissimo.
Grande poeta del Novecento italiano, Margherita Guidacci è stata anche traduttrice di altissimo livello, certamente tra le migliori dei Quartetti, e critico di grande acume e sottigliezza, che, con i suoi numerosi interventi, ha dato un fondamentale contributo alla conoscenza ed alla interpretazione di Eliot, di cui ha fatto una lettura profonda in chiave non solo estetico-letteraria, ma soprattutto filosofico-esistenziale, ribadendo, in più di una occasione, la portata epocale della sua opera, ove convivono dantescamente, in un rapporto complesso, il mondo filosofico del pensiero e quello espressivo dell’arte.
Le traduzioni e gli scritti qui raccolti secondo un “umile” e “naturale” ordinamento cronologico – di gran lunga preferito dall’autrice ad un qualsiasi “sovraimposto” ordine “artificioso” – coprono un lungo arco di tempo e tracciano un itinerario di ricerca che abbraccia quasi l’intera vita della Guidacci. Per questo – come già autocriticamente appuntava la poetessa nella breve Nota introduttiva all’edizione del ’75 – al libro, che non obbedisce a un disegno preordinato, manca, per il salto negli anni e per la diversità di occasioni e di angolazioni, un’unità compositiva. Ciò nonostante, una profonda coerenza di fondo, oltre all’alto valore critico, giustificava allora e giustifica oggi la sua pubblicazione. Questa coerenza è data dalla continuità e sincerità di un interesse che, come sottolineava la Guidacci, «non si è mai affievolito verso la figura e l’opera di un poeta che ha impresso il suo segno nella letteratura del nostro secolo più profondamente, forse, di qualsiasi altro, ed a cui la mia generazione è particolarmente debitrice».


Copertina_ll fuoco e la rosa

Margherita Guidacci,

Il fuoco e la rosa.
I “Quattro Quartetti” di Eliot e Studi su Eliot,

Petite Plaisance, 2006.

indicepresentazioneautoresintesi

Eliot ha avuto dunque una parte privilegiata nella formazione poetica della Guidacci – come, del resto, in quella di molti intellettuali legati alla rivista fiorentina “Letteratura” (fondata nel ’37 da Alessandro Bonsanti per raccogliere l’eredità letteraria di “Solaria”, costretta fin dal ’34 a cessare le sue pubblicazioni per ragioni politiche)   – indicandole, per altro, nella ricerca del proprio linguaggio poetico, quella via che, attraverso il simbolismo francese,  l’avrebbe istintivamente ricondotta, per una sorta di profonda empatia, alla poesia metafisica inglese del Seicento ed all’amato John Donne (che insieme alla Dickinson, costituiranno un ben più sostanzioso nutrimento culturale e un costante riferimento in tutto l’arco del suo percorso creativo), e all’”adesione”, tutta interiore, assai controcorrente rispetto alle dottrine estetiche ermetiche allora imperanti, ad una poetica medievale dell’arte, non come pura liricità, ma come sintesi di “pensiero” e di “senso”.
In una intervista a Paola Lucarini Poggi, la Guidacci rievocando la significativa “rimozione” di quello, da lei stessa definito, come il suo “periodo francese”e ribadendo la propria intima congenialità, sia poetica che morale, con quella tradizione anglosassone della poesia metafisica d’ispirazione religiosa, che troverà appunto in Eliot il suo più grande rappresentante e continuatore, dirà: «Durante l’adolescenza mi sono avvicinata alla poesia francese contemporanea ricavandone solo il piacere della lettura, e invece per quanto riguarda quella inglese e americana ho sentito subito che mi nutriva. Soprattutto in Donne, Eliot e la Dickinson ciò che mi ha colpito di più è stato l’impegno intellettuale e al tempo stesso una grande forza di plasticità dell’immaginazione: la cosa che più mi piace della poesia è che parli tutt’insieme all’intelletto e ai sensi».
L’intensa riflessione critica condotta dalla Guidacci sull’opera di Eliot ha come termine post quem il 19469   – anno cruciale che segnerà la sua doppia vocazione di poetessa e traduttrice, con la pubblicazione sia de La sabbia e l’Angelo che delle traduzioni dei Sermoni di John Donne – e, non interrompendosi con il ’75 (l’anno di edizione presso IPL degli Studi su Eliot) si protrae fino alle soglie degli anni Novanta, a cui risalgono gli ultimi due articoli, Itinerario dalla Terra Desolata e Una lady silenziosa e dolcissima indica la rotta ai marinai, che mi è parso qui necessario accogliere per dare un quadro quanto più esaustivo del suo lavoro sul poeta americano.
Il fuoco e la rosa comprende dunque dieci saggi, tre in più rispetto all’edizione del ’75 (oltre ai due già citati articoli apparsi su “L’Osservatore Romano”, include anche il saggio Per una società cristiana, pubblicato il 25 novembre del ’48 su “L’Ultima”, prodromo del più ampio ed articolato Idea di una società cristiana, ed una breve recensione, pubblicata nell’aprile del ‘56 su “Il Ponte”, al volume Poesie minori di Eliot, curato da Roberto Sanesi) e la splendida traduzione dei Quattro Quartetti, posta, con un lieve spostamento rispetto all’originale collocazione, ad apertura di libro e con testo inglese a fronte…» [Continua a leggere nel PDF allegato]

Ilaria Rabatti,
Al fuoco della carità.
Introduzione al libro di Margherita Guidacci, «Il fuoco e la rosa»


Ilaria Rabatti – «La casa di carta», di Carlos María Domínguez

Ilaria Rabatti – Un libro di John Berger: «Da A a X. Lettere di una storia»

Ilaria Rabatti – Tra poesia e profezia: Il buio e lo splendore, l’ultima fase della poesia di Margherita Guidacci


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Paranormal Creativity: Giovani Vertigini Creative – Incontro con giovani artisti – Lettura e interpretazione di testi scritti da giovani esordienti – Mostra di Paolo Di Noto – Mostra di Nilowfer Awan Ahamede – Balli delle Chejà Celen coordinate da Vania Mancini e delle Ragazze di Spin Time coordinate da ICBIE Europa onlus

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sensibili_alle_foglie X

logoScrittaSENSIBILI ALLE FOGLIE e SPIN TIME LABS

propongono un incontro interamente gestito dai giovani
per valorizzare le forme espressive e i talenti delle nuove generazioni

Paranormal Creativity01

 

Giovedì 17 Marzo – Ore 18

presso

SPIN TIME LABS

Via Santa Croce in Gerusalemme, 59  – Roma

Incontro con giovani artisti

Giacomo Buonafede (attore)
Gertrude Cestiè (giornalista)
Alessandro Cicone (cantautore)
Cloe Curcio (scrittrice)
Francesco Ferrone (scrittore)
Alessio Imparato (poeta e rapper)
Simone Proietti Gaffi (attore)

Edilson Araujo (attore)
Marianna Arbia (attrice)
Silvio Impegnoso (attore)

leggono e interpretano testi scritti da giovani esordienti


Mostra di disegni di Paolo Di Noto


Mostra di fotografie di Nilowfer Awan Ahamede


Balli delle Chejà Celen coordinate da Vania Mancini

e delle Ragazze di Spin Time coordinate da ICBIE Europa onlus


 

Logo Adobe Acrobat Locandina Paranormal Creativity – Giovani Vertigini Creative

 

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Margherita Guidacci, Margherita Pieracci Harvell – «Specularmente. Lettere, studi, recensioni». A cura di Ilaria Rabatti

specularmente

252 ISBN

Margherita Guidacci – Margherita Pieracci Harvell

 

Specularmente. Lettere, studi, recensioni

A cura di Ilaria Rabatti

ISBN 978-88-7588-173-3, 2016, pp. 144, Euro 15, Collana “Egeria” [18].

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Margherita Guidacci ricorda così l’incontro con Margherita Pieracci Harwell, avvenuto a Firenze il 25 agosto 1988: «[…] a Firenze mi aspettava una mia amica che vive ed insegna in America e che perciò posso rivedere solo durante l’estate, quando torna in Italia in vacanza. Se il mio sogno americano non fosse tramontato, l’avrei rivista anche nel giro che dovevo fare fra un mese circa in alcune Università statunitensi fra le quali, naturalmente, era inclusa anche la sua (che è Chicago); ma almeno ci siamo riviste ieri. È una donna molto sensibile e intelligente e ha scritto su di me alcune delle pagine più penetranti che mi sia capitato di leggere. Ci vogliamo bene anche perché abbiamo fra di noi una certa “specularità” e quando ci salutiamo, ci par di salutare l’eco».

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Margherita Pieracci Harwell – In lode della lettura: si legge per veder meglio in sé, riflessi in un altro.

 


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Ilaria Rabatti – Tra poesia e profezia: Il buio e lo splendore, l’ultima fase della poesia di Margherita Guidacci

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M. Guidacci

M. Guidacci

Il buio e lo splendore

Il buio e lo splendore

Ilaria Rabatti, Tra poesia e profezia: Il buio e lo splendore, l’ultima fase della poesia di Margherita Guidacci [Articolo pubblicato su Le opere e i giorni, Periodico di cultura, arte, storia – Anno IX, NN. 1-3 – Gennaio/Settembre 2006 – Direttore responsabile: Carmine Fiorillo], pp. 21.

sintesi

 

Ma le notti alte dell’estate,
ma le stelle, le stelle della terra.
Oh esser morti una volta, e saperle all’infinito
tutte le stelle perché come, come, come dimenticarle!
R. M. Rilke

 

Ad identificare i contorni, dilatati in infiniti spazi di luce, dell’ultima stagione poetica guidacciana, sembrerebbe indispensabile mettere in campo una fortissima tensione verso il trascendente (quasi mistica preparazione al “viaggio” verso l’eterno, consumato e atteso ad ogni istante, drammaticamente avvertito come “confine tra l’incontro e l’addio”), oltre la “soglia” del tempo e dello spazio, in un’assorta, pascaliana contemplazione dell’universo stellare, da lei amato con una profonda conoscenza scientifica. Il tema cosmico-astrale – che nasce nella Guidacci come corollario contemplativo della tarda epifania amorosa – già ampiamente introdotto nell’Inno alla gioia, torna ancora più fulgido a campeggiare nel Liber fulguralis (1986) che del maggiore Il buio e lo splendore, pubblicato solo nell’89 da Garzanti, costituisce il significativo e prezioso anticipo. Nel Liber fulguralis, edito quasi “clandestinamente” a Messina, nella collana “La mela stregata”, curata dalla Facoltà di Magistero, sono riunite infatti (fiancheggiate dalla traduzione inglese di Ruth Feldmann) in un ideale ponte lirico tra passato e futuro, cinque poesie dell’Inno alla gioia (Supernova, Anche tu conosci i nomi delle costellazioni, Ubbidiente e fedele, Appuntamento di sguardi nella luna, Aratura) e dodici testi inediti che successivamente confluiranno nel libro garzantiano dell’89 (più esattamente, undici andranno a formare la sezione finale de Il porgitore di stelle, mentre uno, Sibilla Persica, arricchirà quella iniziale delle Sibyllae). [Leggi tutto, pp. 21]

Ilaria Rabatti,
Tra poesia e profezia: Il buio e lo splendore,
l’ultima fase della poesia di Margherita Guidacci

 


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Pablo Neruda (1904-1973) – È cosi che nasce la poesia: viene da altezze invisibili. Canto e fecondazione è la poesia: l’ho concentrata come prodotto vitale della mia stessa esperienza, circondato dalla folla adorabile, dall’infinita e ricca moltitudine dell’uomo.

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Antonio Melis, Neruda, Il Castoro, n. 38 del 1970

A. Melis, Neruda, Il Castoro, n. 38 1970


 

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«Andando molti anni fa per il lago Ranco verso !’interno mi sembrò di trovare la fonte della patria o la culla silvestre della Poesia, attaccata e difesa da tutta la natura.
Il cielo si stagliava tra le superbe chiome dei cipressi, l’aria agitava le sostanze balsamiche della macchia, tutto aveva voce ed era silenzio, il sussurro degli uccelli nascosti, i frutti e gli stecchi che cadendo sfioravano il fogliame, tutto stava sospeso in un istante di solennità segreta, tutto nella selva sembrava aspettare.
Era imminente una nascita e quello che nasceva era un fiume. Non so come si chiama, ma le sue prime acque, vergini e oscure, erano quasi invisibili, deboli e silenziose, cercando un’uscita in mezzo ai grandi tronchi morti e alle pietre colossali.
Mille anni di foglie cadute nella sua sorgente, tutto il passato voleva trattenerlo, ma imbalsamava soltanto la sua strada. Il giovane fiume distruggeva le vecchie foglie morte e si impregnava di freschezza nutritiva che sarebbe andato ripartendo nel corso del suo cammino.
lo pensai: è cosi che nasce la poesia. Viene da altezze invisibili, è segreta e oscura nelle sue origini, solitaria e fragrante, e, come il fiume, dissolverà tutto quello che cade nella sua corrente, cercherà una strada tra le montagne e scuoterà il suo manto cristallino nelle praterie. Irrigherà i campi e darà pane all’affamato. Camminerà tra le spighe. Sazieranno in essa la loro sete i viandanti e canterà quando lottano o riposano gli uomini. E li unirà allora e tra di loro passerà, fondando paesi. Taglierà le vallate portando alle radici la moltiplicazione della vita.
Canto e fecondazione è la poesia. Ha lasciato le sue viscere segrete e corre fecondando e cantando. Accende l’energia con il suo movimento accresciuto, lavora producendo farina, conciando il cuoio, tagliando il legno, dando luce alle città. È utile e si risveglia con bandiere ai suoi margini. Le feste si celebrano accanto all’acqua che canta.
Mi ricordo a Firenze un giorno in cui andai a visitare una fabbrica. Vi lessi alcune mie poesie agli operai riuniti, le lessi con tutto il pudore che un uomo del continente giovane può provare parlando accanto all’ombra sacra che li soprawive. Gli operai della fabbrica mi fecero poi un regalo. Lo conservo ancora. È un’edizione del Petrarca dell’anno 1484.
La poesia era passata con le sue acque, aveva cantato in quella fabbrica e aveva convissuto per secoli con i lavoratori. Quel Petrarca, che vidi sempre imbacuccato sotto un cappuccio da monaco, era uno di quei semplici italiani e quel libro, che presi nelle mie mani con adorazione, assunse per me un nuovo prestigio, era solo un arnese divino nelle mani dell’uomo».

Pablo Neruda, dal discorso pronunciato a Santiago il 12 luglio del 1954, in occasione del 50° anniversario dell’Università del Cile.

***

«Sincerità, in questa parola cosi modesta, cosi arretrata, cosi calpestata e disprezzata dal seguito sfavillante che accompagna eroticamente l’estetica, si trova forse definita la mia azione costante. Ma semplicità non significa un abbandono semplicistico all’emozione
o alla conoscenza.
Quando rifuggii prima per vocazione e poi per decisione qualsiasi posizione di maestro letterario, ogni ambiguità esteriore che mi avrebbe esposto al rischio continuo di esteriorizzare, e non di costruire, compresi in maniera vaga che il mio lavoro doveva prodursi in forma cosi organica e totale che la mia poesia fosse come la mia stessa respirazione, prodotto ritmato della mia esistenza, risultato della mia crescita naturale.
Per questo, se qualche lezione proveniva da un’opera cosi intimamente e cosi oscuramente legata al mio essere, questa lezione avrebbe potuto essere sfruttata al di là della mia azione, al di là della mia attività, e soltanto attraverso il mio silenzio.
Sono uscito in strada durante tutti questi anni, disposto a difendere principi di solidarietà con uomini e con popoli, ma la mia poesia non ha potuto essere insegnata a nessuno. Volli che si diluisse sulla mia terra, come le piogge delle mie latitudini natali. Non ho preteso che frequentasse cenacoli o accademie, non l’ho imposta a giovani emigranti, l’ho concentrata come prodotto vitale della mia stessa esperienza, dei miei sensi, che rimasero aperti all’estensione dell’amore ardente e del mondo spazioso.
Non pretendo per me nessun privilegio di solitudine: non l’ebbi se non quando mi fu imposta come condizione terribile della mia vita. E allora scrissi i miei libri, come li scrissi circondato dalla folla adorabile, dall’infinita e ricca moltitudine dell’uomo. Né la solitudine né la società possono alterare i requisiti del poeta e quelli che si richiamano esclusi vamente all’una o all’altra falsificano la loro condizione di api che costruiscono da secoli la stessa cellula fragrante, con lo stesso alimento di cui ha bisogno il cuore umano. Tuttavia, non condanno né i poeti della solitudine né gli altoparlanti del grido collettivo: il silenzio, il suono, la separazione e l’integrazione degli uomini, tutto è materiale adeguato affinché le sillabe della poesia si aggreghino precipitando la combustione di un fuoco incancellabile, di una comunicazione inerente, di un’eredità sacra che da migliaia di anni si traduce nella parola e si innalza nel canto.

Pablo Neruda, da La torre, Prado e la mia stessa ombra (Discorso pronunciato all’Università del Cile il 30 marzo 1962).

Pablo-Neruda

I testi sono publicati in: Antonio Melis, Neruda, «Il Castoro», n. 38, Febbraio 1970, La Nuova Italia, pp. 6-8.


 

AntonioMelis

Antonio Melis.

 

Antonio Melis è nato nel 1942, a Vignola (PD). È professore ordinario di Lingue e Letterature Ispanoamericane presso la Facoltà di Lettere e Filosofia di Siena, dove insegna anche Civiltà Indigene d’America. Presso la stessa Facoltà coordina il Master in Traduzione Letteraria e Editing dei Testi e dirige il CISAI (Centro Interdipartimentale di Studi sull’America Indigena). È professore onorario dell’Università Nacional Mayor de San Marcos di Lima. Fa parte del comitato di redazione della Revista de Crítica Literaria Latinoamericana e di In Forma di Parole. Ha fatto parte della giuria di numerosi premi letterari internazionali, tra i quali il Casa de las Américas, il Juan Rulfo, il José Donoso e il Premio Italo Calvino. A partire dallo studio di alcune figure centrali dell’esperienza letteraria contemporanea come José Carlos, Mariátegui, César Vallejo e José María Arguedas, la sua ricerca si è andata orientando progressivamente verso le radici precoloniali e coloniali della cultura andina, con lavori su Juan de Espinosa Medrano e Waman Puma. Alla letteratura peruviana contemporanea ha dedicato numerosi studi e le traduzioni di poeti come Martín Adán, Carlos Germán Belli, Alejandro Romualdo, César Calvo, Luis Hernández, Antonio Cisneros, José Luis Ayala.  Accanto a questo filone centrale ha condotto ricerche sull’area antillana, in particolare con lavori su José Martí, Fernando Ortiz e Alejo Carpentier. Ha tradotto buona parte dell’opera poetica di Ernesto Cardenal. Negli ultimi anni, insieme a Fabio Rodríguez Amaya e Tommaso Scarano, cura per la casa editrice Adelphi l’edizione italiana delle opere complete di Borges, di cui ha tradotto Finzioni. Lo studio delle culture indigene americane è stato sviluppato in direzione del rapporto tra oralità e scrittura e in riferimento alla problematica ecologica. Per la casa editrice Gorée cura la collana “Le voci della terra”, dedicata alla poesia indigena, e “Impronte di parole”, che si occupa delle forme dell’improvvisazione poetica nel Mediterraneo e nell’America Latina. Ha pubblicato saggi monografici su Pablo Neruda, Federico García Lorca ed Ernesto Che Guevara.


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Federico García Lorca (1898-1936) – Poeta a New York: «La luce è sepolta da catene e rumori in sfida impudica di scienza senza radici: qui non esiste domani né speranza possibile. Le monete a sciami furiosi penetrano e divorano bambini addormentati: sanno che vanno nel fango di numeri e leggi, nei giochi senz’arte, in sudori senza frutto».

Lorca, Poeta en Nueva York

 

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Edizione postuma (1940) di Poeta en Nueva York.
Si noti il nome di Antonio Machado sul frontespizio.

***

Federico García Lorca,
Poeta en Nueva York
(1929 – 1930)

***

L’aurora di New York ha
quattro colonne di fango
e un uragano di negre colombe
che sguazzano nelle putride acque.

L’aurora di New York geme
sulle immense scale
cercando fra le ariste
nardi di angoscia disegnata.

L’aurora arriva e nessuno la riceve nella sua bocca
perché qui non esiste domani né speranza possibile.
A volte le monete a sciami furiosi
penetrano e divorano bambini addormentati.

I primi che escono comprendono con le proprie ossa
che non ci saranno paradiso né amori sfogliati;
sanno che vanno nel fango di numeri e leggi,
nei giochi senz’arte, in sudori senza frutto.

La luce è sepolta da catene e rumori
in sfida impudica di scienza senza radici.
Nei suburbi c’è gente che vacilla insonne
appena uscita da un naufragio di sangue.

Federico García Lorca, Autoritratto a New York

F. G. Lorca, Autoritratto a New York.

Federico García Lorca, L’aurora, da: Poeta a New York, in Id., Tutte le poesie, a cura di Claudio Rendina, Newton Compton, 2002, 2 vol., vol. II, p.299.


Federico García Lorca, Un “Poeta a New York”:
la profezia e il dramma negli occhi del “niño”

 


***

Ce ne parla un altro poeta:

Rafael Alberti (1902 – 1999)

Rafael Alberti (1902 – 1999)

R. Alberti con Lorca

R. Alberti con Lorca

Poeta a New York
Quando, nella primavera del 1929 […] Federico García Lorca decide di partire per New York, è già uno dei poeti nuovi di maggior prestigio in Spagna. […] Tutto farebbe pensare che egli partisse per New York contento, desideroso di […] tuffarsi presto in quella città, che ancor prima di visitare – a quanto confessa da Granada in una lettera al suo amico cileno Carlos Moria – già gli sembra orribile. Ma quel viaggio […] è importante per la sua vita. Egli lo avrebbe compiuto in compagnia del suo vecchio maestro di Diritto, Fernando de los Rios, uno dei dirigenti più illustri del socialismo spagnolo. […] García Lorca se ne andava negli Stati Uniti anche perché scosso dagli avvenimenti spagnoli […]. E Federico proprio allora se ne va negli Stati Uniti – è la prima volta che esce dalla Spagna – e apre laggiù, alla sua poesia, una strana parentesi di confusione e di ombre. Alcune delle poesie iniziali del libro che più tardi sarà il Poeta a New York, apparvero su riviste di Madrid […]. Che profonda ferita nella gola del poeta di Granada! Quando arriva a giugno a New York nella Columbia University, dove lo accoglie la calda amicizia di uno dei suoi vecchi amici di Madrid, il professore Angel del Rio, che sarà poi il primo a descrivere questo strano periodo americano di Lorca. Federico entra nella mostruosa città come chi va a trascorrere «una stagione all’inferno». Luis Felipe Vivanco dice infatti, molto accortamente, che il libro scritto da Lorca in America potrebbe benissimo avere come titolo quello di Rimbaud. Il poeta granadino si scontra violentemente contro i duri spigoli di New ork, a cui, per cominciare, nega la gioia pura dell’aurora, il risveglio umano della gente:

L’aurora di New York ha
quattro colonne di melma
e un uragano di nere colombe
che sguazzano nelle putride acque.

Ed è tale la convulsione che Garda Lorca soffre nel suo intimo che egli, uscito da poco dalla drammaticità disinteressata, con accento andaluso di cante jondo, del suo Romancero gitano, assume d’un tratto la parte di accusatore di quel tremendo delitto tramutato in freddo cemento che si apre dinnanzi ai suoi occhi. E ormai il suo verso non scorre più con lo splendore di prima. Le metafore tendono in lui a offuscarsi sino a disperdersi e le stesse corde basse della sua chitarra finiscono per strapparsi di fronte al frastuono di dolore e crudeltà che egli vede e ode da ogni parte. È quello il paese della democrazia e New York il suo simbolo vivente? No, non è più così. I tempi dell’ottimismo del vecchio Whitman sono passati. Federico si rende conto che laggiù accade qualcosa, che vi è una gelida macchina che s’incarica di schiacciare tutto, di estrarre la linfa dal sangue, tramutando le persone in automi, i quali fin dall’alba

sanno che vanno al fango di numeri e leggi,
ai giochi senz’arte, a sudori senza frutto.

García Lorca inaugura con questi componimenti la sua poesia antiartistica. Non si preoccupa né della struttura rigorosa del componimento, né della bellezza verbale né della immagine. Il linguaggio è diretto. La città senza aurora riceve da lui una frustata in una serie di poesie scritte con una attenta coscienza ma insieme con una furia cieca, vicina nei suoi momenti migliori all’impeto quasi surrealista dei profeti biblici. Ed è allora che scopre Harlem, il quartiere dei negri. Ed entra in una delle visioni più angosciose della sua poesia. Sente l’oppressione di quegli antichi schiavi in mezzo a una civiltà che ancora di più li tortura e li umilia. E grida tutta l’amarezza, il sangue prigioniero di quel quartiere, dove il timore dell’ira, dell’odio dei potenti bianchi porta il povero negro a vivere con le porte socchiuse, sempre in attesa di qualsiasi prepotenza, che potrebbe concludersi in un linciaggio.

Ahi, Harlem l Ahi Harlem! Ahi Harlem!
Non c’è angoscia paragonabile ai tuoi rossi oppressi,
al tuo sangue rabbrividito entro l’oscura eclissi,
alla tua violenza scarlatta sordomuta in penombra,
al tuo gran re prigioniero, con abito da portinaio!

[…] È ancora New York, è ancora Wall Street con i suoi milioni di uffici che lo respingono e lo attraggono allo stesso tempo. Ed egli torna con più forza alla denuncia, alla denuncia di coloro che ignorano l’altra metà dei propri simili, alla denuncia del sangue sfruttato, gemebondo, che palpita al di sotto delle moltiplicazioni, degli oscuri e terribili affari che fanno precipitare il mondo in un abisso di miseria e di morte.
«Vi sputo sul viso», arriva a gridare disperato. Lorca, in conseguenza di questo urto brutale con la grande città disumanizzata, diventa un poeta del suo tempo e, senza saperlo, uno dei primi luminosi segni di tutta una poesia di carattere sociale e protestatario che sarebbe apparsa qualche tempo dopo. In primavera il poeta parte per l’Avana, dove recupera, alla sua luce travolgente e musicale, il ritmo preciso del suo sangue andaluso, del suo core già turbato e sempre sul punto di scoppiare durante quell’infernale stagione trascorsa nella città dei grattacieli.

Rafael Alberti, García Lorca, Compagnia Edizioni Internazionali, Milano, 1966, pp. 60-63.

 


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Curzio Malaparte (1898-1957) – L’uomo nella fortuna, l’uomo seduto sul trono del suo orgoglio, della sua potenza, della sua felicità; l’uomo vestito dei suoi orpelli e della sua insolenza di vincitore è uno spettacolo ripugnante.

Malaparte

Battibecco

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«Vi sono due modi di amare il proprio paese: quello di dir la verità apertamente, senza paura; sui mali, sulle miserie, sulle vergogne di cui soffriamo, e quello di nascondere la realtà sotto il mantello dell’ipocrisia, negando piaghe, miserie e vergogne, anzi esaltandole come virtù nazionali. Tra i due modi, preferisco il primo. Non solo perché a me sembra il giusto, ma perché la peggior forma di amor patrio è quella di chiudere gli occhi davanti alla realtà, e di spalancare la bocca in inni e in ipocriti elogi, che a nulla servono, neppure a nascondere a sé e agli altri i mali vivi e reali.
L’Italia in cui credo, in cui ho sempre creduto, per la quale ho combattuto in trincea, ho versato il mio sangue, ho sofferto la prigione e il confino, l’Italia per la quale son pronto, così oggi come ieri e come domani, a lottare e a soffrire, è la patria ideale dell’onore, della libertà, della giustizia, la patria di tutti coloro che hanno sofferto e soffrono per la verità, di tutti coloro che hanno dato la vita per combattere la menzogna: è l’Italia degli uomini semplici, onesti, buoni, generosi, chiusi da secoli in quella «prigione gratis» della miseria e della delusione,  […] dei privilegi di classe e della corruzione amministrativa».

Curzio Malaparte, Due anni di battibecco. 1953-55, Milano, Garzanti, 1955, pp. 18-20.


Kaputt

Kaputt01

«Ora che Hitler è morto già da alcuni anni, che il Nazismo è crollato, sarebbe cosa inutile, oziosa e stupida riparlar del Nazismo, se il Nazismo non mostrasse per molti segni non solo d’essere ancora vivo, ma di prepararsi a recitare, sotto altro nome e sotto altre bandiere, la stessa odiosa parte che ha recitato quando Hitler era ancora vivo. Non voglio essere profeta. E non si tratta qui di far profezie. Ma di veder chiaramente nel vostro avvenire. E poiché voi non avete il coraggio di dire la verità ai Tedeschi, perché avete paura del risorgimento del Nazismo, lasciate che sia un intellettuale a dir ciò che voi non osate dire».

Curzio Malaparte, Appendice ai Kaputt, ed. econ., Firenze, Vallecchi, 1966, pp. 411-12.


La pelle

«Non so quale sia piu difficile, se il mestiere del vinto o quello del vincitore. Ma una cosa so certamente, che il valore umano dei vinti è superiore a quello dei vincitori. Tutto il mio cristianesimo è in questa certezza, che ho tentato di comunicare agli altri nel mio libro La pelle, e che molti, senza dubbio per eccesso di orgoglio, di stupida vanagloria, non hanno capito, o hanno preferito rifiutare, per la tranquillità della loro coscienza.
In questi ultimi anni, ho viaggiato, spesso, e a lungo, nei paesi dei vincitori e in quelli dei vinti, ma dove mi trovo meglio, è tra i vinti. Non perché mi piaccia assistere allo spettacolo della miseria altrui, e dell’umiliazione, ma perché l’uomo è tollerabile, accettabile, soltanto nella miseria e nell’umiliazione. L’uomo nella fortuna, l’uomo seduto sul trono del suo orgoglio, della sua potenza, della sua felicità; l’uomo vestito dei suoi orpelli e della sua insolenza di vincitore, l’uomo seduto sul Campidoglio, per usare una immagine classica, è uno spettacolo ripugnante.
Non mi piace discutere con gente che non s’intende di quel che ragiona, o non sa ragionare, o di continuo travisa i fatti e i concetti. Né con gente che ingiuria, e dice cose in malafede, sol per aver l’aspetto della ragione, non la sostanza».

Curzio Malaparte, Appendice a La pelle, ed. econ., Milano, Garzanti, 1967, pp. 329-30.


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