In ricordo di Antonio Melis. Testimonianze di: Antonio Prete, Riccardo Badini, Maurizio Masini, Daniela Brogi, Mauro Chechi, Antonella Cancellier, Martha Canfield, Romano Luperini, Pietro Clemente, Giovanni Preto, Giovanni Bartolomei, Flavio Fiorani, Manuel Plana, Guido Melis.

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Ricordo di Antonio Melis – Antonio Prete

Antonio Prete

Antonio Prete

«Antonio Melis è stato un ponte sempre attivo, sempre transitabile, un ponte con una serie di culture, non una cultura, ma le tante che il mondo latino americano raccoglieva in sé … Antonio era un tessitore … di relazioni culturali e intellettuali, ed era conosciutissimo in questo suo tessere relazioni … Questa sua conoscenza così plurale, così diffusa, la teneva con leggerezza: mai un atto di supponenza, o neppure di orgoglio. Per lui, studioso di letterature latinoamericane, lingua latinoamericana, ma di culture latinoamericane, era normale che tenesse rapporti, conoscenze e amicizie con quel mondo, sia invitando il più possibile questi personaggi, sia entrando in relazione con loro, sia traducendoli. Antonio è stato un grande traduttore, ha tradotto moltissimo, ha fatto conoscere in Italia grandi scrittori … e le sue conoscenze non erano soltanto quelle cosiddette letterarie ufficiali della cultura e della lingua ispanica, erano le conoscenze che andavano “oltre”, andavano verso le radici di quel mondo, le radici precolombiane: andavano verso le culture e le lingue indigene. E era straordinario come si muovesse verso questo orizzonte sepolto, cancellato, represso. Non solo conosceva il quechua, e traduceva dal quechua, ma ha imparato rapidamente una lingua nuova, la lingua dei Mapuche, del popolo della terra, per poter tradurre una poetessa, che lui ha invitato, che ci ha fatto conoscere … Rayen Kvyeh, che era la prima poetessa (poetisa de la tierra) di lingua mapuche. E Antonio ha imparato questa nuova lingua per tradurre questa poetessa. Luna dei primi germogli[1] è un libro di questa poetessa tradotto in italiano… Antonio era sorprendente in queste navigazioni, in queste relazioni … E il suo lavoro non si fermava a questo, ma continuava sempre con grande rigore …»

Antonio Prete,

14 settembre 2016, Giardino della Biblioteca Umanistica della Università di Siena

[1] Un popolo che lotta per la libertà della propria cultura e che riscopre l’orgoglio di radici antichissime attraverso il canto della poesia: è il popolo mapuche del Cile. Attraverso i versi della poetessa cilena Rayen Kvyeh. Antonio Melis è il curatore e traduttore del volume, docente di lingue e letterature ispano-americane e civiltà indigene d’America all’Università di Siena. La raccolta di poesie Luna dei primi germogli è uscita per la prima volta in Germania – paese d’esilio di Rayen negli anni della dittatura cilena – nel 1991. Per molto tempo la cultura mapuche è stata soltanto orale, linguisti e antropologi hanno raccolto il repertorio di canti in lingua mapudungun trascrivendoli con i caratteri latini e usando l’alfabeto spagnolo castigliano. L’importanza della edizione italiana bilingue (aprile 2006) di Edizioni Gorée, sta nell’aver trascritto la lingua mapudungun senza passare dall’alfabeto castigliano e nel proporre una versione italiana che non è una traduzione dallo spagnolo, ma cerca di rispettare lo spirito del testo originale.

Luuna dei primi germogli

Luuna dei primi germogli



 

Ricordo di Antonio Melis – Riccardo Badini

Riccardo Bardini

Riccardo Badini

 

«Ci eravamo recati con Antonio sulla tomba di Gamaliel Churata, a Puno in Perù, sulla sponda occidentale del lago Titicaca. Antonio, rivolgendosi allo scrittore proprio come se fosse vivo lì davanti a lui, gli disse che avremmo pubblicato le sue opere in Italia, e in quel momento io ho sentito veramente una emozione, perché in qualche modo ho capito che il sapere si trasmette in tanti modi e che intenzioni prese dal qualcun altro, vengono poi portate avanti in altro modo da altri. Penso che questa sia stata una delle ultime, tra le tante, lezioni che Antonio mi ha dato».

Riccardo Badini


Maurizio Masini

Maurizio Masini

«La cosa più bella che mi ha insegnato è che mi ha insegnato a insegnare».

Maurizio Masini


Ricordo di Antonio Melis – Daniela Brogi

Daniela Brogi

Daniela Brogi

«Antonio diceva sempre sì alla vita …, ma era anche capace di dire no, con una fermezza, … con una vitalità assolute. Lui mi ha fatto capire che studiare è importante, ma non basta per avere la lode dei migliori. E di questa comprensione gli sarò sempre molto grata, e cercherò di tenere in vita il più possibile questa memoria, questa presenza di Antonio».

Daniela Brogi


Ricordo di Antonio Melis – Mauro Chechi

 

Mauro Chechi

Mauro Chechi

 

«Antonio era vestito come noi. Nessuno avrebbe detto che era un professore universitario. Parlava in modo molto semplice, ma con concetti molto profondi …».

Mauro Chechi


Ricordo di Antonio Melis – Antonella Cancellier

 

Antonella Cancellier

Antonella Cancellier

 

«Ho imparato da Antonio come avvicinarsi all’America Latina, con molta delicatezza … Lui ha lasciato il suo cuore nelle Ande che amava tantissimo …».

Antonella Cancellier


Ricordo di Antonio Melis – Martha Canfield

 

Martha Canfield

Martha Canfield

 

«Antonio è stato più che un collega, è stato un amico carissimo e molto vicino ad ognuno di noi e agli studenti… Ciò che desidero sottolineare di lui  è la sua straordinaria umanità che emergeva nei suoi rapporti… e anche il quel suo “umorismo” … Solo lui sapeva giocarein modo così stupefacente con l’italiano e lo spagnolo, che conosceva in maniera straordinaria … Aveva anche uno spiccato senso ludico del rapporto con la cultura. Il poeta peruviano Antonio Cisneros era amico di Antonio ed a lui ha dedicato una poesia, il cui tema è la memoria, dove la memoria non è legata a grandi eventi o a grandi cose, ma a piccole cose che costituiscono semplicemente la quotidianità e l’emotività. Antonio Cisneros parlando di Antonio Melis faceva appello in questa poesia a questo tipo di memoria, e credo che qui ci ritroviamo tutti a evocare qui anche il nostro Antonio …».

Martha Canfield

Antonio Cisneros

Antonio Cisneros

 


Ricordo di Antonio Melis – Romano Luperini

Romano Luperini

Romano Luperini

«Non credo che basti l’Università per definire il profilo di una persona, ed infatti i miei ricordi di Antonio sono soprattutto fuori dell’Università anche se con Antonio Melis e con Antonio Prete siamo stati tra i fondatori di questa Università… In primavera facevamo lezione all’aperto; tutte le cariche erano a turno: non c’era competizione, non c’era sopraffazione. Questa comunità di docenti e di studenti era una comunità, per dir così, innocente. Prima di quella società di oggi invece basata sul controllo reciproco, sulla sopraffazione, oppure sulla valutazione e sull’autovalutazione; prima della burocratizzazione che è avvenuta poi nell’Università. Ciò che importava era insegnare, divertirsi a insegnare, imparare, imparare insieme. Questa atmosfera oggi è letteralmente inimmaginabile. Antonio è stato uno dei protagonisti di questa comunità, pre-gerarchica. I miei ricordi più vivi … sono comunque fuori dell’Università … Ho conosciuto Antonio nel 1965 … quando io e lui avevamo 24-25 anni, e l’ho conosciuto ad una riunione indetta da Ferruccio Rossi-Landi, per la rivista Ideologie, dato che Rossi-Landi voleva fare un numero su Cuba … Melis ed io ci siamo trovati a collaborare insieme a questa rivista … E lo ricordo quando si è presentato ad una riunione con i pantaloni corti: parlava sommessamente, in questo suo modo mite e discreto, assolutamente alieno (ciò che me lo ha reso sempre caro) da qualsiasi forma di narcisismo … Non solo ha insegnato ad amare la cultura, ma ha insegnato a vivere, e questo è ancora più importante».

Romano Luperini


Ricordo di Antonio Melis – Pietro Clemente

 

Pietro Clemente

Pietro Clemente

«Nel modo di fare di Antonio c’era questa sistematica compresenza di una grandissima socievolezza e di un impegno, possiamo dire anche militanza, che era sempre leggero e ironico… Una delle caratteristiche di Antonio era di offrire in continuazione occasioni, cioè il contrario esatto dell’avarizia: Antonio era la generosità. Tutte le iniziative che intraprendeva, in qualche modo cercava di estenderle, le seminava, favoriva incontri… Antonio ha perseguito sempre un’idea della cultura non strettamente specialistica, un’idea secondo cui la cultura è qualcosa che dobbiamo diffondere, far comprendere, estendere a campi diversi per conoscere le connessioni tra i mondi che traversiamo. Antonio era un antropologo di per sé, come aveva imparato da José María Arguedas … Antonio ci lascia un po’ questo messaggio: concepire il nostro lavoro, la nostra intelligenza in un ambito della cultura in senso più generale … Lo spirito delle iniziative che si facevano per passione più che per mestiere universitario, continui ad essere presente intorno all’Università perché è il bagno d’acqua in cui vive, e si trasmette, e senza il quale rischia sempre di essere uno specialismo arido perdendo il rapporto con il mondo».

Pietro Clemente


Ricordo di Antonio Melis – Giovanni Preto

 

Giovanni Preto

Giovanni Preto

«Ho sempre apprezzato in Antonio il grande senso di umanità che aveva e la sua determinazione, il suo impegno politico e sociale».

Giovanni Preto


Ricordo di Antonio Melis – Giovanni Bartolomei

Giovanni Bartolomei

Giovanni Bartolomei

 

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Condor Melis

Per Antonio Melis

Un giorno Antonio perse braccia e mani
ma acquistò l’ali se se ne volò via.
Un Condor Pasa lasciò l’Illimani
e oggi ci sorvola per magia.
Magia della memoria degli umani
che quando quell’oscura lotteria
si porta via un amico od un maestro
di conservar l’essenza ha l’arte e l’estro.

Gli umani non son bestie da capestro,
la libertà gli guida nel cammino
e sanno liberarsi dal sequestro
che gli imprigiona a quel fatal destino.
L’irrazionale emisfero destro
ci fa sentire Antonio a noi vicino
e il razional sinistro man ci dà
a rammentar del Melis la realtà.

D’Antonio proprio tutto mancherà:
L’arguzia e la sapiente parlantina,
il suo ascolto attento, l’onestà,
la sua cultura obrera y campesina.
Lloran La Paz y Lima y Bogotà,
llora toda la América Latina.
Lo piangono gli amici ed i parenti,
lo piangono i compagni qui presenti.

Antonio io lo so che non mi senti
ma so che ognuno un po’ della tua essenza
porta con sé, sicché se state attenti
voi garantite qui la sua presenza.
Il sol dell’avvenire par che stenti
a sorgere ma sento l’incombenza
di dire che ogni uomo nasce eguale
cantando in coro l’Internazionale.

 

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Giovanni Bartolomei da Prato
14 settembre 2016

 


Ricordo di Antonio Melis – Guido Melis

Guido Melis

Guido Melis

«Desidero lasciarvi, come mio ringraziamento, il ricordo che ho quando con il mio papà e insieme a mia sorella, eravamo allora piccoli, dopo la scuola e, dopo il pranzo, andavamo in sala e mettevamo un disco, e lo ascoltavamo dall’inizio fino alla fine: questo per dirvi quanto per lui la musica fosse qualcosa di importante che permeava tutta la sua curiosità verso il sapere».

Guido Melis

 


L'Internazionale, per Antonio Melis

Ricordo di Antonio Melis – L’Internazionale

 

 


 


In ricordo di Antonio Melis

 

Testimonianze di

Martha Canfield

Università di Firenze

Flavio Fiorani

Università di Modena

Manuel Plana

Università di Firenze

 

In ricordo di Antonio Melis_Locandina

 



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Tommaso Labranca (1962-2016) – Andy Warhol era un coatto. Decise di fare più soldi possibile con i suoi quadri coatti, la cui ispirazione nasceva nei supermercati. Andy come coatto era comunque un numero uno, una specie di capo banda. Ed incontrò Ronald Trump.

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Andy Warhol era un coatto

«Andy Wharol mi sta molto simpatico. Cerco di leggere tutto ciò che lo riguarda con la stessa passione con cui cerco di evitare ogni esposizione di sue opere.
Un tempo non era così: nel 1989, per esempio, andare a visitare la mostra Le cento opere di Andy Warhol fu per me d’obbligo come un pellegrinaggio al Divino Amore. Ma nonostante l’equivalenza nella devozione al Palazzo della Permanente di Milano il miracolo non si verificò. Cento opere: pensavo di dover camminare per ore attraverso sale e sale. Mi ero anche portato i panini avvolti nella stagnola. E invece la mostra era concentrata in un unico stanzone tutto diaccio e umido. Fu in quell’occasione che iniziai a detestare le mostre su Wahrol. Mi aggiravo per la sala e mi sentivo inappagato. Anche appoggiando il naso contro il vetro che proteggeva una Marilyn non provavo alcuna impressione. Sfiorai fugacemente e di nascosto dai custodi la superficie serigrafata di un Mao. Ancora nulla. Lo stesso brividozero che provo appoggiandomi, in metropolitana, a un manifesto della Philips
sapendo di poterlo ritrovare identico in tutte le stazioni, da Molino Dorino a Sesto F.S. Rifeci un’altra volta il giro dell’esposizione, tanto per dare un senso alle 5.000 del biglietto, e mi resi conto di una cosa: quasi rovinato dagli anni di scuola e da certi atteggiamenti accademici, tra quei quadri colorati simili alle pubblicità di tinte per capelli nei coiffeurs pour dames, io cercavo l’Artista aulico e non la sua vera essenza Insomma, volevo trovare i quadri e convincermi a ogni costo che quelle non erano pubblicità di tinte per capelli da coiffeurs pour dames. Per fortuna mi salvai in tempo. Lanciai una rapida maledizione all’Assessorato alla Cultura del Comune di Milano che aveva rinchiuso la forza pop in un ambiente asettico e prestigioso e capii che in Warolh (ma dove va l’h?), al di là di tutte le pose, cuore e corpo coincidevano. Mi resi soprattutto conto di quanto, dentro e fuori, Wharol fosse meravigliosamente coatto (sostituire le ultime sei lettere con maranzo se si è a Lodi, tamarro se si è a Milano e dasai se si è a Tokio).
Il suo cognome per noi due volte esotico (il ceco Warhola americanizzato in Warhol) non nascondeva che una consistenza spirituale da apprendista edile bergamasco. Checché ne dicano i non-revisionisti, Andy non era figlio di Duchamp. Hwarol era fratello di Eros Ramazzotti, del quale condivideva, per fortuna, l’atteggiamento antiintellettualistico.
La Weltanschauung di Warolh era la stessa dei seguaci del primo Jovanotti, riconducibile alla formula lavoro-paga-discoteca-sesso.
Certo il lavoro di AW oggi è esposto nei musei, la paga era scritta con una $ seguita da numeri a molti zeri, la discoteca era l’esclusivo Studio 54 dei tempi d’oro e cambiava specularmente l’oggetto del sesso. Ma la filosofia di base era quella.
Come doveva godere il nostro artista pop quando si patinava (diceva proprio così) e arrivava in qualche posto con la limousine presa in affitto, in compagnia di Debbie Harris o di Grace Jones! Esattamente come gode il coatto celebrato dagli 883 in Sei un mito che, cosparso di deodorante musk acquistato alla Coop, arriva con i tappetini nuovi e l’arbre magique nella Golf, al fianco di una commessa ben zinnuta e con le calze a rete.
Insomma Andrea era un provincialotto, tale e quale il suo concittadino Vudi Alen e i giornalisti dei quotidiani di NY, per i quali il resto del mondo deve essere fantascienza. Ripensandoci, forse Andy era ancora meno di un coatto. Per esempio, viveva in una zona ben determinata dell’urbanistica newvorchese dalla quale usciva poco volentieri. Aveva notizie frammentarie di ciò che avveniva all’estero. Almeno i coatti nostrani d’estate vanno in Grecia o a Ibiza. Uorol parlava solo l’inglese, e anche piuttosto male. Un coatto, al confronto, è quasi un poliglotta: oltre all’italiano e al dialetto locale conosce l’inglese quanto basta per dire Dis is de ritm of de nait e per affrontare disinvoltamente anche le canzoni straniere nei locali karaoke.
Allo stesso modo dei coatti, però, Warhol non aveva prospettiva storica, non sapeva con precisione cos’era avvenuto prima di lui. Così, non potendo ispirarsi a un passato storico, si ispirò a un passato di verdura, quello della Campbell’s. Ne derivò un’ingente fornitura di zuppe in scatola, un successo mondiale e numerosi tentativi di imitazione. D’altronde, se date in mano una matita a un coatto credete che vi sforni una Madonna con Bambino? No. Disegnerà un’auto, un personaggio televisivo, una scatola di dadi.
Andy partiva dallo stesso livello, ma grazie alla sua profonda conoscenza dell’imbecillità dei critici, decise di fare più soldi possibile con i suoi quadri coatti, la cui ispirazione nasceva nei supermercati e dalla stampa. Ce la fece benissimo perché era un grande. Perché Andy come coatto era comunque un numero uno, una specie di capo banda, quello con l’auto più veloce e il car stereo più potente. Quello che tutti cercano di imitare. Negli ultimi anni di vita, ci fanno sapere i suoi Diari, Warol (tolgo l’h e non ci penso più) era angustiato dall’AIDS. Proprio come i coatti che vanno in giro col condom nel portafogli. Ma, invece di diventare sieropositivo, Andy divenne Xeroxpositivo, ossia oggetto di infinite imitazioni. Peccato che tutti questi emulatori trascurino il suo aspetto più vero e amabile, quello borgataro. Anzi, insieme a chi gli dedica le mostre, i cataloghi e le analisi storico-artistiche, quegli emulativo falliti fanno di tutto per creargli (e crearsi) un ingiustificato alone di aulicità e internazionalità, intellettualismo e raffinatezza. Una volta ho visto persino una Campbell’s Soup Can usata come illustrazione di copertina per un libro di saggi di Roland Barthes…».

Tommaso Labranca, Andy Warhol era u  coatto. Vivere e capire il trach, Castelvecchi, 2005.

 

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Tommaso Labranca,
Andy Warhol era u coatto. Vivere e capire il trach

 

Quarta di copertina
Il trash, o cultura di serie B, o spazzatura, è un fenomeno dalle molte facce, e non sempre è possibile circoscriverlo: sono trash le ragazzine che imitano Madonna, i presentatori delle Tv locali che si rifanno a Pippo Baudo, ma anche il Tg4 quando emula i notiziari in diretta della Cnn. Cos’è che li accomuna? È, in sintesi, il fallimento nell’imitazione di un modello «alto», quale che esso sia. Il trash è un’erba che attecchisce ovunque, e nessuno di noi può dirsene immune: qualunque cosa facciamo o diciamo, ci sarà sempre chi è «più a Nord di noi», pronto a deriderci. Che fare, dunque? Abbandoniamo il pregiudizio estetico, la boria accademica, l’illusione della purezza: come ci ha insegnato il genio «meravigliosamente coatto» di Andy Warhol, nel supermarket della cultura di massa possiamo sopravvivere solo se, non badando alle marche, alle firme o ai prezzi, compriamo liberamente ciò che ci piace.

 

 

La firma di Warhol sul dollaro.

La firma di Warhol sul dollaro.

«Fare soldi è un arte, lavorare è un arte.

Un buon affare è il massimo di tutte le arti»

 

                                                                      Andy Warhol

 

Andy Warhol e Donald Trump

Andy Warhol e Donald Trump.

Two dollars (Declaration of independence) Cartamoneta da 2 dollari 4 pezzi Firmata da Warhol

4 pezzi da 2 dollari 4 con firma di Warhol.

The Art History of Donald Trump, From Disappointing Christie’s to Becoming Warhol’s Bête Noire

 

Rappresentazione di Warhol della Trump Tower

Rappresentazione di Warhol della Trump Tower.

 

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«Fare soldi è un arte, lavorare è un arte.

Un buon affare è il massimo di tutte le arti»

                                                                      Andy Warhol

 


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Salvatore Bravo – La filosofia è nella domanda di chi ha deciso di guardare il dolore del mondo. Responsabilità della filosofia è il riposizionarsi epistemico per mostrare la realtà della caverna e rimettere in azione la storia.

Giorgio Agamben 02
Quel che resta di Auschwitz. L'archivio e il testimone

Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone

 

 

Quel che resta di Auschwitz

Giorgio Agamben, in Quel che resta di Auschwitz, mette in pratica la virtù filosofica dell’eterotopia. Il termine, coniato da M. Foucault per indicare un processo di destrutturazione dei linguaggi consolidati, consente di analizzare secondo una nuova prospettiva il significato dei campi di sterminio. Pone al centro un problema che si tende ad eludere, a non osservare, perché parla di noi, dell’occidente e della sua storia. La Gorgone è ciò che non si può guardare, è il fondo a cui ci trascina la visione dell’impossibile che diventa possibile, dopo Auschwitz l’impossibile diverrà possibilità realizzata. L’impossibile può accadere. La filosofia è nella domanda di chi ha deciso di guardare il dolore del mondo.[1] Che nel “fondo” dell’umano non vi sia altro che una impossibilità di vedere – questa è la Gorgona, la cui visione ha trasformato l’uomo in non-uomo. Ma che proprio questa non umana impossibilità di vedere sia ciò che chiama e interpella l’umano, l’apostrofe da cui l’uomo non può distrarsi – questo, e non altro è la testimonianza. La Gorgona e colui che l’ha vista, il musulmano e colui che testimonia per lui, sono un unico sguardo, una sola impossibilità di vedere.

Il movimento della domanda, l’eterotopia, inquieta ed invita a nuove domande, a nuovi livelli di coscienza a cui non ci si può sottrarre. La domanda che pone Agamben è nell’orizzonte del “nerbo” di Auschwitz; lo sguardo posato sull’impossibile vorremmo respingerlo, ma, come l’Angelus novus di Benjamin, solo se lo sguardo regge la prospettiva della Gorgone la speranza potrà dimorare tra noi. Il nerbo di Auschwitz non ha testimoni, non ci sono le parole di coloro che furono oggetto di un esperimento antropologico. In assenza di una natura umana razionalmente condivisa, il nulla, il nichilismo realizza la sua opera. Uomini senza storia, senza nomi, ridotti a pura vita biologica, sono la testimonianza priva di parole del campo di sterminio. Tra l’umano e l’inumano, vi sono uomini che non appartengono all’umanità, ma non sono cose, sono enti indefiniti ed indefinibili. Sono in una linea nella quale si dipana e compare la violenza del nichilismo. Il musulmano descritto da Levi nei suoi testi, è un uomo ripiegato su se stesso, non ha relazione con se stesso e con gli altri, è solo carne esposta alla violenza della storia. Il campo di sterminio è la realizzazione assoluta della razionalità senza logos. Per cui, sottratto il logos, non resta che un uomo minimo, un sottouomo, riconoscibile nella sua umanità dalla solo forma biologica: il musulmano. Il motivo per cui si decise di chiamarli in tal modo non è chiaro, probabilmente per la posizione che assumevano, somigliante ad un musulmano in preghiera.

Il campo di concentramento svela un’altra verità: l’abitudine allo stato di eccezione. L’intera realtà del campo era stata capace di trasformare l’eccezionale in quotidiano. La linea di confine tra diritto e stato di eccezione si era estinta nella quotidiana tragedia del nichilismo, nella irrisione ad ogni limite[2]. Auschwitz è precisamente il luogo in cui lo stato di eccezione coincide perfettamente con la regola e la situazione estrema diventa il paradigma stesso del quotidiano. Ma è proprio questa paradossale tendenza a ribaltarsi nel suo opposto che rende interessante la situazione-limite. Finché lo stato di eccezione e la situazione normale vengono, come avviene di solito, mantenuti separati nello spazio e nel tempo, allora essi, pur fondandosi segretamente a vicenda, restano opachi. Ma non appena mostrano apertamente la loro connivenza, come oggi avviene sempre più spesso, essi si illuminano l’un l’altro per così dire dall’interno. Ciò implica, tuttavia, che la situazione estrema non può più fungere, come in Bettelheim, da discrimine, ma che la sua lezione è piuttosto quella dell’immanenza assoluta, dell’essere “tutto in tutto”. In questo senso, la filosofia può essere definita come il mondo visto in una situazione estrema che è diventata la regola (il nome di questa situazione estrema è, secondo alcuni filosofi, Dio).

Lo stato di eccezione a cui tanto pericolosamente oggi ci stiamo abituando, assottiglia la differenza tra normale stato di diritto e sospensione degli stessi da parte di un non identificabile potere sovrano. L’economia con i suoi provvedimenti eccezionali continui, metafisica presenza, sottrae, con i diritti sociali, il logos, per restituirci un’umanità da “io minimo” sempre più china sul biologico. Il testo di Agamben si presta ad un’ulteriore eterotopia: i musulmani sono finiti con i campi, o nuove forme si stanno materializzando nell’omologazione delle voglie che sostituiscono i desideri. Generazioni schiacciate sull’utile da sistema rischiano di perdere il loro sentire consapevole che consente la relazione tra il dentro ed il fuori. L’autismo emotivo caratterizza i nuovi musulmani. La nuova caverna del capitalismo assoluto ha i suoi musulmani che non vogliamo vedere per non scoprirci uomini della zona grigia. Responsabilità della filosofia è il riposizionarsi epistemico per mostrare la realtà della caverna e rimettere in azione la storia.

Salvatore Bravo

[1] Giorgio Agamben, Quel che resta di Auschwitz, Bollati Boringhieri, Torino 1998, p. 30.

[2] Ibidem, p. 28

 

 


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Romeo Castellucci – Scandalo è una parola abusata e perlopiù misconosciuta. In senso greco l’etimologia è «la pietra d’inciampo». E’ qualcosa che ti arresta, solo per un momento, ma che ti rende presente il tuo cammino. La provocazione è stupida, avvilisce l’intelligenza.

Romeo Castellucci
Epopea della polvere, Ubulibri, 2001

Epopea della polvere, Ubulibri, 2001

«Scandalo è una parola abusata e perlopiù misconosciuta. Lo scandalo nell’arte non solo può succedere ma direi che è il destino, l’orizzonte di ogni opera: non si dà opera d’arte senza scandalo. Scandalo però in senso greco; l’etimologia è “la pietra d’inciampo“: quando tu inciampi sei costretto a riformulare il tuo passo; è qualcosa che ti arresta, solo per un momento, ma che ti rende presente il tuo cammino. ne divieni cosciente. Lo scandalo è un interruttore.
Poi. ovviamente. c’è un uso “giornalistico” di questa parola … ma non c’entra più niente, lì diventa provocazione, rientra a far parte di un vocabolario completamente diverso.
La provocazione è stupida, avvilisce l’intelligenza non solo di chi la fa ma anche quella delle persone a cui viene rivolta; è avvilente, è una tecnica pubblicitaria: miserabile perché troppo semplice, si smaschera inunediatamente.
Lo scandalo invece è qualcosa di molto più profondo e nascosto.
Un’opera scandalosa non necessariamente ha dei toni forti. Lo scandalo può essere sepolto molto all’interno, può essere un elemento estremamente soffice, quasi invisibile.
Mi viene in mente H6lderlin, uno dei poeti. degli artisti più scandalosi della storia.
Un altro è Robert Walser, nella sua opera tutto quanto è grazioso. eppure c’è uno scandalo profondissimo. lo scandalo della vita che viene nascosto sotto una patina di borotalco.
Queste sono tra le esperienze più radicali che mi vengono in mente. Bisogna capirsi attorno alla parola “scandalo”. che comunque è molto importante».

Romeo Castellucci

Intervista a cura di Matteo Marelli, pubblicata su il manifesto, 03-03-2017, p. 12.

A te, giovane artista ignoto, Bononia University Press, 2015,

A te, giovane artista ignoto, Bononia University Press, 2015,

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Epitaph, Ubulibri, 2000

Epitaph, Ubulibri, 2000


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Federico García Lorca (1898-1936) – La poesia è qualcosa che cammina per le strade. Il teatro è sempre stato la mia vocazione. Adesso sto lavorando a una nuova commedia. Gli uomini non riusciranno mai a immaginarsi l’allegria che esploderà il giorno della Grande Rivoluzione. Non è vero che sto parlando proprio come un socialista?

Federico Garcia Lorca 25

F. G. Lorca, Poeta en Nueva York

 

«La poesia è qualcosa che cammina per le strade. Che si muove, che passa accanto a noi. Tutte le cose hanno il loro mistero, e la poesia è il mistero che hanno tutte le cose. Si passa accanto a un uomo, si guarda una donna, si percepisce l’incedere obliquo di un cane, e in ciascuno di questi oggetti umani c’è la poesia».

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«Adesso sto lavorando a una nuova commedia. Non sarà più come quelle precedenti. Adesso è un’opera della quale non posso scrivere nulla, nemmeno una riga, perché si sono liberate e vagano per l’aria la verità e la menzogna, la fame e la poesia. Mi sono sfuggite dalle pagine. La verità della commedia è un problema religioso e socio-economico. Il mondo è immobile di fronte alla fame che devasta i popoli. Finché ci sarà squilibrio economico, il mondo non potrà pensare. Ne sono sicuro. Due uomini camminano sulla riva di un fiume. Uno è ricco, l’altro è povero. Uno ha la pancia piena, l’altro insozza l’aria con i suoi sbadigli. E il ricco dice: “Che bella barca si vede sull’acqua! Guardi, guardi il giglio che fiorisce sulla riva”. E il povero dice: “Ho fame, non vedo nulla. Ho fame, tanta fame”. È naturale. Il giorno in cui la fame sparirà, si produrrà nel mondo l’esplosione spirituale più grande che l’Umanità abbia mai conosciuto. Gli uomini non riusciranno mai a immaginarsi l’allegria che esploderà il giorno della Grande Rivoluzione. Non è vero che sto parlando proprio come un socialista?».

Da un’intervista realizzata da Felipe Morales,
pubblicata su La Voz di Madrid
il 7 aprile 1936.

Traduzioine di Antonio Melis.

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Marco Aurelio (121-180) – Com’è breve il tempo dalla nascita alla dissoluzione. Che cosa dunque può accompagnarci nel vivere? Una sola e unica realtà: la filosofia.

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«Com’è breve il tempo dalla nascita alla dissoluzione, abisso prima della nascita, come ugualmente infinito dopo la dissoluzione» (IX, 32) .

«Il tempo della vita umana è un punto, la sua sostanza flusso, la sensazione è oscura, l’intero composto fisico facile a corrompersi, l’anima erramento, la sorte realtà indecifrabile, la fama incerta; per dire in breve, tutto quanto attiene al corpo è fiume, quanto riguarda l’anima è sogno e vanagloria, e la vita guerra e viaggio di uno straniero, oblio la fama presso i posteri»(II, 17)

«Che cosa dunque può accompagnarci nel vivere?
Una sola e unica realtà: la filosofia
» (II, 17).

Marco Aurelio, Pensieri.


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Omero – Come è la stirpe delle foglie, così quella degli uomini.

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«Come è la stirpe delle foglie, così quella degli uomini.
Le foglie il vento le riversa per terra, e altre la selva
fiorendo ne genera, quando torna la primavera;
così le stirpi degli uomini, l’una cresce e l’altra declina».

Omero, Iliade, VI, 180-184, traduzione di Guido Paduano, Mondadori, 2007

 

Omero

Ritratto immaginario di Omero, copia romana del II secolo d.C. di un’opera greca del II secolo a.C. Conservato al Museo del Louvre di Parigi.

 


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Robert Walser (1878-1956) – Con grande attenzione e amore colui che passeggia deve studiare e osservare ogni minima cosa vivente. Dovremmo capire, e sentire, che colui che veramente esiste è solo l’uomo interiore.

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Robert Walser, La passeggiata, traduzione di Emilio Castellani, Adelphi, 1999.

 

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«Con grande attenzione e amore colui che passeggia deve studiare e osservare ogni minima cosa vivente: sia un bambino, un cane, una zanzara, una farfalla , un passero, un verme, un fiore, un uomo, una casa, un albero, una coccola, una chiocciola, un topo, una nuvola, un monte, una foglia, come pure un misero pezzettuccio di carta gettato via, sul quale forse un bravo scolaretto ha tracciato i suoi primi malfermi caratteri.

[…]

Guardavo attento a quanto v’era di più piccolo, di più modesto, mentre il cielo pareva inarcarsi alto e scendere profondo. La terra si faceva sogno; io stesso ero divenuto interiorità e procedevo come dentro di essa  […]. lo non ero più io, ero un altro, ma appunto perciò più che mai me stesso. Nella soave luce d’amore credetti di dover capire, o di dover sentire, che colui che veramente esiste è solo l’uomo interiore».

Robert Walser, La passeggiata, traduzione di Emilio Castellani, Adelphi, 1999

 

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Risvolto di copertina

La passeggiata (1919) è uno dei testi più perfetti di Walser, il grande scrittore svizzero che ormai, soprattutto dopo la pubblicazione delle sue opere complete, viene posto accanto a Kafka, a Rilke, a Musil – ammesso cioè fra i massimi autori di lingua tedesca del nostro secolo. Ma La passeggiata ha anche un significato peculiare in rapporto a tutta l’opera di Walser: è in certo modo la metafora della sua scrittura nomade, perpetuamente dissociata e abbandonata agli incontri più incongrui, casuali e sorprendenti, come lo è appunto ogni accanito passeggiatore – e tale Walser era –, che abbraccia amorosamente ogni particolare del circostante e insieme lo osserva da una invalicabile distanza, quella del solitario, estraneo a ogni rapporto funzionale col mondo. In un décor di piccola città svizzera, e della campagna che la circonda, il passeggiatore Walser ci guida, con la sua disperata ironia, in un labirinto della mente, abitato da figure disparate, dalle più amabili alle più inquietanti. Da Eichendorff a Mahler, il vagabondaggio è stato un archetipo ricchissimo della più radicale letteratura moderna. Tutta quella grande tradizione sembra condensarsi, quasi clandestinamente, nella Passeggiata di Walser, a cui lo scrittore ci invita col suo irresistibile tono: «Lei non crederà assolutamente possibile che in una placida passeggiata del genere io m’imbatta in giganti, abbia l’onore d’incontrare professori, visiti di passata librai e funzionari di banca, discorra con cantanti e con attrici, pranzi con signore intellettuali, vada per boschi, imposti lettere pericolose e mi azzuffi fieramente con sarti perfidi e ironici. Eppure ciò può avvenire, e io credo che in realtà sia avvenuto».

 

Winfried Georg Sebald, Il passeggiatore solitario, Adelphi, 2006

Winfried Georg Sebald, Il passeggiatore solitario, Adelphi, 2006


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Pablo Neruda (1904-1973) – Amo i libri esploratori, ma odio il libro ragno in cui il pensiero ha disposto filo velenoso.

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Ode al libro

Ode al libro

«Amo i libri
esploratori,
libri con bosco o neve,
profondità o cielo,
ma
odio
il libro ragno
in cui il pensiero
ha disposto filo velenoso
perché là s’impigli
la giovanile e svolazzante mosca».

Pablo Neruda, Odi elementari.

Traduzione di Antonio Melis

 

Odi elementari

 


Pablo Neruda (1904-1973) – È cosi che nasce la poesia: viene da altezze invisibili. Canto e fecondazione è la poesia: l’ho concentrata come prodotto vitale della mia stessa esperienza, circondato dalla folla adorabile, dall’infinita e ricca moltitudine dell’uomo.

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Angelo Magliocco – Il dualismo bìos/zoè e lo stato d’eccezione in Giorgio Agamben.

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Angelo Magliocco

Il dualismo bìos/zoè e lo stato d’eccezione in Giorgio Agamben

Il testo di Giorgio Agamben, Homo sacer (Einaudi), sviluppa parallelamente due concetti, a prima vista irrelati, dimostrando successivamente un loro legame basato sulla fungibilità di uno rispetto all’altro.
Il primo è il concetto di eccezione, di cui Agamben analizza le formulazioni sociali, assieme alle radici logico-matematiche delle nozioni di esclusione/inclusione; il secondo quello di nuda vita, di zoè, vita meramente considerata sotto l’aspetto biologico, in contrapposizione alla vita di relazione e di società, bìos.
La superiorità del bìos rispetto alla zoè, nell’accezione antica, risulta chiaramente dalla figura di diritto romano dell’homo sacer, che designa un individuo punito con l’espulsione dal consesso sociale, cui è stata sottratta qualsiasi fisionomia civilis e divina, lasciando un residuo costituito da pura biologia (zoè), puro respiro del corpo. Tale soggetto diventa a quel punto inefficace a palesare in società le sue qualità civiles, come anche a santificare il divinus come soggetto passivo di sacrificio umano, risultando inadatto persino a questo compito. L’unica caratteristica che gli resta è dunque la vivibilità, curiosamente legata a filo doppio al suo contraltare, l’uccidibilità: lo si lasci pur vivere, ma chiunque, se vuole, ne provochi senz’altro la morte. Questi non sarà considerato responsabile di omicidio, in quanto una responsabilità in tal senso deriverebbe dal complesso di legami sociali (bìos), rispetto a cui una pura zoè è su un piano di antecedenza.
Tale esclusione sociale, peraltro, è integralmente contemplata a un livello pregiuridico, e come tale è inclusa nell’ordinarietà del complesso di relazioni sociali. Agamben riflette allora sul fatto che il complesso sociale è, in un certo senso, costitutivamente bipartito, o sarebbe meglio dire bipartizionante, prevedendo già in anticipo al suo interno una linea di demarcazione tra individui che, appartenendovi, sono da considerarsi inclusi in esso e di altri che, sempre e ancora appartenendovi, sono da considerarvi esclusi. Ricorrendo a nozioni di insiemistica e di logica, egli afferma che l’appartenenza logica a un insieme non coincide con l’inclusione: è naturale che tutti gli individui, anche gli esclusi, appartengano al complesso sociale, ma, appunto, da esclusi. Se non appartenessero ex ante al complesso sociale, non ci sarebbe bisogno di definirne i criteri di esclusione, e pertanto non può che affermarsi che l’esclusione abbia una funzione intra-sociale di manovra sul corpo sociale stesso.
Il termine manovra rimanda a un manovratore. È prerogativa del sovrano, se assoluto, o negli Stati democratici del potere che ne incarna la volontarietà pregiuridica (cioè di determinare la validità del diritto stesso) esercitare questa manovra, che si attua concretamente attraverso lo stato d’eccezione. È prerogativa del sovrano stabilire quando e in che modo si eccepisce alle condizioni di normalità sociale del bìos ricadendo nella mera zoè. A parere di Agamben, da un lato è molto semplice rilevare l’applicazione di questo stato di decidibilità, sia ad individuum che ad classem, sotto la reggenza di un sovrano assoluto, dall’altro tale stato permane comunque, ed è anzi più surrettizio in quanto meno palese, anche laddove la struttura sociale abbia espressamente escluso il governo di una sola persona, reimpostando l’intero paradigma sociale attorno al concetto di uguaglianza democratica. Altre forme di governo del sociale, mai dichiaratamente tali, concorrono allora ad attuare lo stato d’eccezione, con modalità rinnovate, ma analoghe a quelle che da tempo immemore la figura latina ha codificato: un esempio odierno può essere la genetica, o peggio l’eugenetica (il governo della pura zoè e della sua normalizzazione), un altro del passato recente il campo di concentramento (in cui una classe di individui è stata codificata come in-civilis).
Agamben afferma che tutti gli Stati, odierni e non, vedono una deriva che va a estendere lo stato d’eccezione, come in una sorta di entropia in costante accrescimento. Pertanto, il rapporto suddito/sovrano, quale che sia la morfologia in cui si esprima (ad es. democratica o non), deve ripartire dalla presa di coscienza di questa sua funzione inerentemente eccepente, inerentemente de-bìo-logizzante, che tende a trasformare la politica in biopolitica, e in ciò il richiamo a Foucault e alle tematiche da questi affrontate appare pieno ed evidente.

Angelo Magliocco

 

 

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Angelo Magiocco,
Il dualismo bìos:zoè e lo stato d’eccezione in Agamben

 


Quarta di copettina

Ogni tentativo di ripensare le nostre categorie politiche deve muovere dalla consapevolezza che della distinzione classica fra zoé e bios, tra vita naturale ed esistenza politica (o tra l'uomo come semplice vivente e l'uomo come soggetto politico), non ne sappiamo piú nulla. Nel diritto romano arcaico homo sacer era un uomo che chiunque poteva uccidere senza commettere omicidio e che non doveva però essere messo a morte nelle forme prescritte dal rito. È la vita uccidibile e insacrificabile dell'«uomo sacro» a fornire qui la chiave per una rilettura critica della nostra tradizione politica. Quando la vita diventa la posta in gioco della politica e questa si trasforma in biopolitica, tutte le categorie fondamentali della nostra riflessione, dai diritti dell'uomo alla democrazia alla cittadinanza, entrano in un processo di svuotamento e di dislocazione il cui risultato sta oggi davanti ai nostri occhi. Seguendo il filo del rapporto costitutivo fra nuda vita e potere sovrano, da Aristotele ad Auschwitz, dall'Habeas corpus alle Dichiarazioni dei diritti, il libro di Agamben cerca di decifrare gli enigmi - prima di tutti il fascismo e il nazismo - che il nostro secolo ha proposto alla ragione storica. Fino a vedere, nel campo di concentramento, il paradigma biopolitico nascosto della modernità in cui città e casa sono diventate indiscernibili e la possibilità di distinguere tra il nostro corpo biologico e il nostro corpo politico ci è stata tolta una volta per tutte.

 

Indice

Introduzione. – Parte prima. Logica della sovranità.Parte seconda. Homo sacer.Parte terza. Il campo come paradigma biopolitico del moderno. – Bibliografia. – Indice dei nomi.

 


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