Per ridare luce alle sue riflessioni in un periodo di buio inquietante illuminato solo da lampi di guerra, Salvatore Bravo ci parla di Massimo Bontempelli, filosofo e storico.

Salvatore Bravo

Massimo Bontempelli filosofo e storico

 

Il 31 luglio 2011 a Pisa Massimo Bontempelli filosofo, storico e docente veniva a mancare improvvisamente. Nel tempo del pensiero unico e del “capitalismo totale” Massimo Bontempelli osò divergere dalla “mediocrità imperante”. Tutta la sua opera è segnata dalla faticosa ricostruzione dell’universale. Il senso della filosofa è la verità con cui valutare la totalità del sistema socio-economico. La filosofia è nella storia, ma non si disperde in essa, poiché risponde ai problemi e ai drammi etici del proprio tempo. Le domande, i dubbi e le valutazioni onto-assiologiche devono portare a risposte fondate a livello teoretico. La filosofia non è l’anima bella che fugge dalla storia, ma la vive in ogni dimensione rischiando l’errore nell’elaborare soluzioni. Con il dialogo le risposte sono vagliate e gli errori in tal modo non divengono “violenza” e non si trasformano in “tragedia”. Massimo Bontempelli da hegelo-marxiano fu tutto questo. L’impegno politico si coniugò con la ricerca teoretica per trasformarsi in prassi. Fu educatore nei licei; in un’intervista nel 2012 Costanzo Preve nel ricordarlo affermò che egli fu un «professore di liceo felice» e che si occupò «sistematicamente di scuola»[1]. C. Preve ne riconobbe la profondità filosofica ostracizzata dal sistema.

La scuola in quanto istituzione etica fu sicuramente “il luogo di senso” in cui concentrò la sua azione sociale e politica. Ricordarlo come educatore significa rammentare il suo impegno per ricostruire nel tempo del capitalismo la “memoria etica” senza la quale la prassi è impossibile. La memoria etica è la storia degli uomini che hanno vissuto la storia, si sono confrontati con le sue contraddizioni e ne hanno colto le potenzialità per rendere il “progetto politico comunitario reale e razionale”.

Le condizioni storiche sono la miccia, ma senza gli uomini capaci di comprenderle e di usarle tatticamente nei tempi opportuni nulla è possibile. L’umanesimo di Massimo Bontempelli si rivela nella organica ricostruzione degli eventi storici nei quali le circostanze storiche diventano concetti per la prassi mediante il “pensiero agente” degli uomini. L’educazione storica è l’architrave fondamentale, in quanto la storia è il tempo degli uomini e delle donne nel quale l’umanità si rivela nella sua natura e nella sua progettualità politica. Da neoidealista di sinistra, mentre imperava lo specialismo, riaffermò la visione e la pratica olistica della cultura che forma alla ragione dialogante. Storia e filosofia non possono essere scisse, con tale pratica si degradono a meri strumenti senza profondità e senza visione della totalità sociale.

Insegnare storia significa ritrovarsi e trarre dall’esperienza di coloro che ci hanno preceduto la forza plastica per riprendere il cammino. La storia è materia viva da trasmettere, è il punto di mediazione e di contatto tra le generazioni e le dimensioni temporali del tempo.

 

Cultura della cancellazione e Rivoluzione russa

La storia è oggetto dei processi di cancellazione: il capitalismo totale deve espellerla dall’orizzonte comunitario per ipostatizzarsi. Alla guerra ideologica del capitalismo contro la storia Massimo Bontempelli “agì” facendo di essa uno dei capisaldi della sua riflessione. La sua produzione intellettuale annovera anche manuali di storia con i quali denunciò il graduale svuotamento dei contenuti e della ricostruzione degli eventi sostituiti dall’esemplificazione ideologica. Si disimpara così a pensare e, di conseguenza, il capitalismo totale può continuare la sua bruciante corsa nichilistica. La narrazione storica in Massimo Bontempelli è complessità che si delinea all’interno di innumerevoli variabili, le quali sono da contemplare-pensare per decodificare gli avvenimenti.

La rivoluzione russa del 1917, ne è un esempio, essa è trattata inanellando e coordinando tra di loro una serie di circostanze che prendono forma mediante i protagonisti della stessa. La rivoluzione non è mai necessaria, ma è umanesimo nella storia. Lenin potè innescare il processo rivoluzionario, in quanto comprese che gli eventi storici si disponevano ad uno scontro fatale dal quale poteva scaturire la rivoluzione. Pensò gli eventi che si presentavano a lui e al partito bolscevico per padroneggiarli e orientarli verso la rivoluzione:

 

«Nel settembre 1917, nella provoncia di Tambov si verificarono numerosi episodi di saccheggi e incendi di tenute nobiliari ad opera di torme di contadini che ne avevano occupato le terre, con ferimenti e omicidi di proprietari ed amministratori. […] Ma la contingenza decisiva è il ritorno nelle campagne di numerosissimi soldati congedati, o disertori, o appartenenti a reparti discioltosi, che portano l’abitudine alla violenza omicida acquisita in guerra nelle loro famiglie, indirizzandole a prendersi di forza le risorse di cui hanno bisogno. L’eccezionale genialità dispiegata da Lenin nel 1917 si rivela soprattutto nel settembre di quell’anno, quando egli solo comprende rapidamente che sta montando in Russia una gigantesca sollevazione contadina, e che le prospettive sociali e politiche del paese risultano radicalmente mutate: o le masse rurali in rivolta vedono le loro esigenze soddisfatte e incanalate in una nuova legalità da una rivoluzione proletaria, oppure creeranno un caos sociale contro il quale si leverà una dittatura repressiva. Kerenskij si sta già preparando al ruolo di repressore»[2].

 

Lenin soltanto comprese che la rabbia, la fame, l’inflazione e le stragi della Grande Guerra rimaste inascoltate dal governo Kerensky erano possibilità storiche irripetibili e che avrebbero condotto ad una radicalizzazione favorevole alla rivoluzione. Alla repressione e al disincanto del governo borghese bisognava dare, dunque, una forma progettuale rivoluzionaria e una speranza all’alteza dei tempi. La storia muta velocemente, pertanto nelle situazioni di crisi bisogna disporsi ad adattare i mezzi per raggiungere lo scopo:

 

«Lenin ritiene che la situazione russa si sia drammaticamente semplificata fino ad una alternativa secca: o dittatura borghese o dittatura proletaria. Con la rivolta contadina, con il rifiuto dei menscevichi e socialrivoluzionari di lottare per soddisfarne le esigenze, e con la scelta esplicitamente repressiva di Kerenskij, la prospettiva di uno sviluppo pacifico della rivoluzione, da lui ardentemente sostenuta qualche settimana prima, si è a suo avviso chiusa: un’opposizione puramente legalitaria dei bolscevichi non sarebbe ormai, in assenza di un governo democratico fondato sui soviet, e in presenza di una rivolta contadina, che una copertura della dittatura borghese»[3].

 

Il linguaggio che utilizza Massimo Bontempelli non lascia spazio a dubbi. La cultura del pensiero si trasmette con un linguaggio fruibile a un pubblico vasto pur conservando la qualità della ricostruzione genealogica della storia. Qualità e quantità si armonizzano nello stile vivace finalizzato a far entrare il lettore nel turbinio storico. Riprendiamo la dinamica rivoluzionaria. Lenin ha compreso che la rivoluzione è nella storia, ma necessita di essere resa atto reale e razionale. Al comitato del partito bolscevico Lenin dimostra che la “grande occasione” è dinanzi a loro. Il popolo non è ancora pronto per l’isurrezione che sarà condotta da un manipolo di esperti. La precisione con cui Massimo Bontempelli descrive i momenti nodali si fa tagliente: indica il giorno esatto alla fine del testo, in modo che il lettore viva il magma della rivoluzione che prende forma nel tempo e mentre legge e può immergersi in esso:

 

«La fatica maggiore che Lenin deve compiere è infatti paradossalmente quella di convincere il comitato centrale del partitio bolscevico ad intraprenndere l’insurrezione. L’insurrezione, poi, affidata a un comitato militare rivoluzionario istituito dai soviet di Pietroburgo sotto la guida di Trotzskij, si compie facilmente in un solo giorno con la fuga di Kerenskij e la vittoria degli insorti. Il giorno è il 7 novembre 1917»[4].

 

Il Comitato generale dei soviet nel 1918 entra direttamento in contraddizione con l’Assemblea costituente. Il comitato generale dei soviet approva i decreti per rendere la Russia uno Stato comunista, ma l’Assemblea costituente rifiuta di convalidare i decreti. I due poteri si confontano ed entrano in conflitto. La rivoluzione accelera, ma rischia di arenarsi dinanzi all’Assemblea costituente. Le elezioni dell’Assemblea costituente si tennero la domenica del 25 novembre 1917 col sistema proporzionale, la maggioranza relativa era dei socialrivoluzionari. Ancora una volta solo una iniziativa veloce ed efficace consente a Lenin di superare lo scoglio della Costituente. L’Assemblea eletta a suffragio universale respinse la limitazione dei suoi poteri, per cui il conflitto si risolse con la chiusura dell’Assemblea e con l’instaurarsi nei fatti della dittatura comunista leninista:

 

«Così l’Assemblea costituente è stata privata, prima ancora di aver cominciato le sedute, di gran parte degli effettivi poteri costituenti, in quanto la configurazione essenziale dei rapporti economici e sociali è stata disegnata dai decreti governativi seguiti alla rivoluzione d’Ottobre, e punti fondamentali del’assetto dello Stato sono stati predisposti dall’accordo tra socialrivoluzionari e bolscevichi. Nella sua prima riunione, tenutasi venerdì 18 gennaio 1918 il palazzo di Tauride a Pietroburgo, l’Assemblea costituente respinge ogni limitazione ai suoi poteri»[5].

 

Nella storia

Il 19 gennaio 1918, un sabato, il capo delle guardie rosse Anatolij Zeleznjakov[6] chiuse l’Assemblea costituente. Massimo Bontempelli riporta il giorno della settimana e i nomi degli uomini che furono protagonisti. La storia per renderla concreta e poterla pensare ha bisogno di dettagli che favoriscono la sua visione nel pensiero. Logica, documenti e analisi del contesto devono ritrovarsi nella rappresentazione della medesima. Filologia e filosofia sono sempre in relazione proficua.

Lo scioglimento dell’Assemblea non suscitò grandi reazioni, poiché i decreti per la ridistribuzione delle terre e la statalizzazione dei mezzi di produzione erano stati emanati dal Comitato centrale del partito bolscevico e incontrarono l’approvazione di contadini poveri e degli operai. Ora incombeva il pericolo tedesco. Anche in questo caso Lenin comprese che non c’era alternativa alla “pace oscena” come lui l’aveva denominata. Per salvare la rivoluzione bisognava accettare la pace tedesca. I bolscevichi erano ostili alla “pace oscena”, ancora una volta il suo genio solitario vide prima dei suoi compagni che non c’era alternativa. I tedeschi ripresero l’offensiva che avrebbe potuto far crollare la rivoluzione, e dunque ci si convinse che la scelta di Lenin era l’unica praticabile:

 

“La Germania , però, rifiutando la richiesta bolscevica di una pace generale senza annessioni, pretende proprio ciò che i bolscevichi avevano escluso, vale a dire una pace separata e annessionistica fino alla rapina. Lenin ritiene tuttavia tragicamente necessario accettare la pace voluta dai tedeschi, essendo impensabile la continuazione della guerra con un esercito in disfacimento, con soldati che non vogliono più assolutamente combatterla, con la produzione delle armi ridotta, con una drammatica penuria di viveri che non consentirebbe l’approviggionamento alimentare di milioni di armati, e dopo aver vinto la rivoluzione agitando la parola d’ordine pace ad ogni costo. Il comintato centrale bolscevico respinge ripetutamente la proposta di Lenin di sottoscrivere quella che lui stesso definisce “la pace oscena”, e la accetta soltanto quando i tedeschi, ripresa l’offesnsiva militare, travolgono facilmente ogni tentativo di resistenza, devastano territori, e minacciano la capitale. La pace stipulata a Brest Litovsk tra la Russia e gli imperi centrali domenica 3 marzo 1918 impone alla Russia la rinuncia della Polonia, della Lituania, della Volinia, della Podolia, della Lettonia, dell’Estonia e dell’Ucraina»[7].

 

Ancora una volta per dare rilevanza e materialità all’evento Massimo Bontempelli indica il giorno della settimana in cui cade l’evento che salva la rivoluzione, i cui costi sono evidenti. Tra il 6 e il 9 marzo al settimo congresso del partito bolscevico si approvò il trattato di pace e il partito bolscevico divenne “partito comunista”. Si deliberò il passaggio della capitale da Pietroburgo a Mosca, in quanto Pietroburgo era troppo vicina all’area del conflitto e si decise l’istituzione di squadre annonarie con il compito di prelevare le risorse alimentari da ridistribuire nelle città. La rivoluzione non poteva che sopravvivere che con la svolta autoritaria, poiché era sotto assedio.

 

Psicologia e storia

Massimo Bontempelli procede con il profilo psicologico di Lenin, in modo da comunicare al lettore che la storia vive non solo nelle relazioni strutturali ma anche nella biografia dei suoi attori.

La famiglia reale è sterminata il 17 luglio 1918. Nicola II con la zarina Alessandra e i cinque figli concludono la loro esistenza fucilati, mentre le truppe bianche erano in procinto di liberare la città in cui sono prigionieri. Il comitato centrale decise per la strage in modo da impedire che diventassero una forza catalizzatrice della reazione. Dietro tale decisione non ci sono solo ragioni di carattere storico e di opportunità politica. Il fratello di Lenin fu impiccato nel 1887 per aver partecipato all’attentato contro lo zar Alessandro III. La famiglia Lenin subì la marginalizzazione del governo zarista. La cicatrice non era mai stata superata da parte di Lenin che colse l’occasione per vendicarsi.

Egli ormai era parte di un contesto di violenza, sempre più si identificava con il Partito, unica ancora di salvezza, in una realtà instabile e aggressiva. La dittatura si configurava in un clima feroce. Le potenza capitalistiche attaccarono la Russia da ogni parte. Il 26 maggio 1918 con l’occupazione della città di Celiabinsk negli Urali iniziò la guerra civile. Tutto era violenza e la rivoluzione non poteva che usare la stessa per difendersi e sopravvivere:

 

«Si è anche scoperto che l’eccidio di Ekaterininburg, è stato invece deciso dal comitato centrale del partito, da tempo impegnato a discuterne l’opportunità o meno, e dotato di una linea diretta di comunicazione con i dirigenti degli Urali. Lenin ha voluto l’eccidio non soltanto per eliminare il polo di influenza controrivoluzionaria rappresentato dalla famiglia reale, ma anche per vendicarsi dell’uomo che gli aveva sconvolto l’adolescenza facendo impiccare il suo venerato fratello maggiore, e, in lui, anche tutto l’ambiente monarchico che aveva emarginato la sua famiglia dopo l’esecuzione di suo fratello, costringendolo ad abbandonare la sua città natale. La violenza da cui Lenin si lascia prendere nasce in un contesto storico di feroci scontri sociali, di totale instabilità dei rapporti di potere, e di gravissime minacce armate alla rivoluzione. In questo contesto egli non ha alcun altro punto d’appoggio, per fronteggiare difficoltà inaudite e respingere attacchi tremendi, che il partito comunista, e ciò lo induce ad identificare la salvezza della rivoluzione con la conservazione del potere da parte del partito comunista»[8].

 

Per leggere la storia è necessario lo spirito di finesse; il lettore degli eventi storici deve entrare nella psicologia degli attori storici. Si impara così a decentrarsi e ad entrare in una cornice storica altra e nel contempo ci si conosce. Massimo Bontempelli accompagna sempre le sue analisi degli eventi storici con l’esame delle motivazioni psicologiche delle azioni nei contesti storici. Nel testo sulla resistenza italiana si sofferma sulle motivazioni che condussero Mussolini ad accettare la dipendenza da Hitler dopo la sua liberazione:

 

«Ma perché, allora, Mussolini sceglie di rientrare nella grande politica al servizio di Hitler come suscitatore di guerra civile, quando non soltanto è un uomo stanco e avvilito che sente un gran bisogno di tranquillità, ma viene subito messo al corrente del terribile prezzo personale che dovrà pagare per tale scelta, quello cioè di farsi assassino di suo genero? La risposta giusta l’ha data Giorgio Bocca nel suo bel libro La Repubblica di Mussolini e cioè che Mussolini ha una necessità interiore di recitare una parte nella grande politica, di vivere da politico nella politica, per sopravvivenza identitaria, essendo, come uomo normale, troppo inconsistente e vuoto»[9].

 

La storia invoca i “nostri perché” senza i quali siamo solo delle comparse sul palcoscenico della storia. Il potere, spesso, ha la sua ragion d’essere in circostanze storiche nelle quali personalità “di superficie” trovano le condizioni per esprimere massimamente il vuoto. La loro tragedia personale diventa la sofferenza di interi popoli condotti al macello da menti irrazionali. Riconoscere il pericolo di tali personalità è fondamentale; la studio della storia è un valido ausilio per i popoli, i quali imparano a difendersi con analogie critiche ed analisi.

 

Perché studiare la storia?

Studiare la storia è uno dei modi per umanizzarsi. Conoscere la storia favorisce la consapevolezza individuale e collettiva di ciò che è stato e ciò non può che chiarire il percorso da intraprendere verso una società a misura d’uomo. Massimo Bontempelli così definisce il senso dello studio della storia rimosso dal capitalismo totale:

 

«Perché viviamo in una società che, interamente dominata e incessantemente riplasmata dagli automatismi di mercato e della tecnica, non ha più alcun baricentro che la preservi da mutamenti umanamente devastanti. Perché, quindi, l’educazione di cui la società ha oggettivo bisogno è un’educazione all’autonomia di pensiero e al valore della personalità spirituale dell’uomo. Perché l’asse culturale più congruo a questa finalità educativa è rappresentato dalla conoscenza storica, in quanto si tratta di una conoscenza particolarmente in grado di far emergere possibilità antropologiche cancellate dall’attuale sviluppo sociale, ma custodite nella memoria del passato»[10].

 

Nell’introduzione a Il respiro del Novecento Massimo Bontempelli ribadisce tre criteri per pensare e produrre la storia: la narratività, l’organicità e l’espressione sociale. La narratività è il racconto degli eventi storici “presentandoli con il colore della concretezza vissuta”. Si evita, così, l’effetto estraniante. L’organicità si occupa della ricostruzione degli eventi secondo una “concatenazione significativa”, mentre l’espressività sociale riporta il singolo episodio al contesto di cui è espressione, esso è “una tappa” di un processo dinamico.

 

Rileggere Massimo Bontempelli è il modo migliore per far rivivere un filosofo e uno storico di spessore indigesto al tempo della mediocrità che prepara la barbarie. Quest’ultima non è inevitabile, possiamo trarre energia etica dall’impegno di coloro che non sono passati invano. Gli esseri umani sono intessuti di storia, sono storia vivente, essi possono pensare la storia,e questa è la libertà che la storia ci insegna faticosamente a riconquistare e a cui, se rinunciamo, non siamo dissimili dagli enti che subiscono l’azione meccanica del caso. Massimo Bontempelli ci invita a ripensare il nostro rapporto con la storia e non possiamo che disporci ad ascoltare la sua passione politica e filosofica che continua a dialogare con noi nei suoi testi. Il capitalismo totale è una visione del mondo, non è solo pratica economica e crematistica. Ad esso è necessario opporre un modello culturale radicale e altro che possa palesare “la miseria etica del capitalismo”. Il neoidealismo di Massimo Bontempelli si presta a tale operazione di verità e da ciò deduciamo le ragioni dell’ostracismo che grava sul suo pensiero. A noi il compito di ridare luce alle sue riflessioni in un periodo di buio inquietante illuminato solo da lampi di guerra.

[1] https://youtu.be/4iJiXBuLzig

[2] Massimo Bontempelli, Il respiro del Novecento, Percorso di storia del XX secolo, Volume I (1914-1945), C.R.T. 2002 Pistoia, pp. 118-119.

[3] Ibidem, p. 119.

[4] Ibidem, p. 121.

[5] Ibidem, p. 129.

[6] Ibidem, p. 130

[7] Ibidem, pp. 130 131.

[8] Ibidem, pp. 131 132.

[9] Massimo Bontempelli, La Resistenza italiana Dall’8 settembre al 25 aprile Storia della guerra di liberazione, CUEC Cagliari 2009, p. 39.

[10] Massimo Bontempelli, Il respiro del Novecento, Percorso di storia del XX secolo, Volume I (1914-1945), C.R.T. 2002 Pistoia p. 5.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Il rilievo ontologico dello studio delle forme  di organizzazione della personalità.  Attenzione a coloro  che dicono che non c’è  “sostanza metafisica”  nell’umanità dell’uomo


La contraddizione
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Arianna Fermani – «Pentagramma aristotelico. Anche qui ci sono dèi ». Una silloge che prova a far risuonare le varie “corde” del sistema del Filosofo come una sinfonia. Gli Antichi, e Aristotele nello specifico, ci insegnano che per essere felici dobbiamo «saperci suonare” e imparare a realizzarci “in molti modi”. Il libro si offre ad un’armonica riflessione, come in un pentagramma, con cinque movimenti.




Premessa

 Se c’è una costante nel pensiero aristotelico, al di là delle sue innumerevoli declinazioni e delle sue infinite modulazioni, essa va rinvenuta nell’attenzione al dato fenomenico, ovvero a ciò che appare, a quello che si vede. Come si legge in Topici I, 11, 105a5-7, infatti, in un passo dotato di grande realismo e bella espressione di un sano “atteggiamento economico”: «quelli che sono in dubbio sul fatto che la neve sia bianca oppure no hanno semplicemente bisogno di guardarla».

Analogamente, nell’Etica Nicomchea1, il Filosofo stigmatizza la teoria socratica secondo la quale è impossibile fare consapevolmente il male, ricordando che: «un tale ragionamento contraddice i fatti in modo lampante». Si tratta di affermazioni che restituiscono a pieno quello che è stato giustamente definito come un tratto tipico della forma mentis greca: «i Greci si distinguono per un atteggiamento realistico-pragmatico nei riguardi della vita. Essi si confrontano con il mondo così come è fatto»2.

Questo “pentagramma aristotelico” prova, dunque, a far risuonare le varie “corde” del sistema del Filosofo a partire dalla presa d’atto che la riflessione dello Stagirita non si può comprendere se non a partire dalle sue “sane e profonde radici nella vita”.

Un sistema ricco e articolato, quello di Aristotele, fatto di numerose distinzioni ma mai di “separazioni”, costantemente “aperto” alla “provocazione” e sempre all’ascolto di tutte le note del reale, anche di quelle dissonanti, sempre pronto ad accettare le “sfide del visibile”, disposto ad osservare da vicino il mondo in tutte le sue pieghe, “deangolando” costantemente lo sguardo tra prospettive diverse e scorrendo su e giù tra i piani dell’“in sé” e del “per noi”.

In questa raccolta di scritti si prova a spaziare da questioni di carattere metodologico (come nel saggio dal titolo Quale “sistema” e quale “sistematicità” in Aristotele?), a riflessioni sul possibile intreccio dei due piani dell’immanenza e della trascendenza all’interno della riflessione etica del Filosofo, all’indagine sul senso e sui limiti di quella fondamentale dimensione utopica che, anche in Platone, aveva rappresentato uno dei nodi teorici e problematici più significativi, per approdare, da un lato, a una indagine sull’attualità del pensiero di Aristotele e sull’ineludibilità della ricerca filosofica e, dall’altra, a uno scavo del fondamentale tema della σχολή, ovvero di quel tempo, parimenti, libero e decisivo della (e per la) nostra esistenza.

All’interno di tali tematiche e di tali linee teoriche generali, che si muovono sul terreno ontologico e metafisico, gnoselogico-epistemologico, etico e politico, si situano riflessioni sull’intreccio tra le dimensioni del visibile e dell’invisibile, di divino e umano, ideale e reale, intero-parti, assoluto e relativo, necessario e bello.

Tale “pentagramma” prova a restituire, sulla scorta di quel paradigma del Multifocal Approach che già su molti terreni ha trovato conferme e verifiche, alcuni tratti della polifonia di una riflessione, come quella aristotelica, in cui la pluralità delle prospettive non solo non viene mai soffocata o anche solo semplicemente ridotta, ma in cui convivono, in modo non contraddittorio, prospettive opposte. Tra di esse, solo per citare un esempio, l’invito ad “immortalarsi”, da un lato, e a “umanizzarsi” dall’altro, a nutrire la propria “fame di cielo” e, insieme, quello a soddisfare l’esigenza del proprio radicamento a terra. «Questo, peraltro, è esattamente ciò che fece nella sua prassi e nella sua esperienza quotidiana di scienziato lo stesso Aristotele, il teorizzatore del motore immobile, l’elaboratore di una teoria elevatissima come quella di un Dio come “pensiero di pensiero” e, insieme, il collezionista di pesci, l’acuto osservatore della natura in tutte le sue manifestazioni, il ricercatore insaziabile»3.

D’altronde, come ci ricorda Diogene Laerzio, «il sapiente amerà, parteciperà alla vita po­litica, si sposerà»4. Si tratta di un dato apparentemente banale ma, in realtà, essenziale per la comprensione e per la riuscita della nostra esistenza: come una sinfonia non può nascere da un solo suono, così, come ci insegnano gli Antichi e Aristotele nello specifico, per essere felici dobbiamo “saperci suonare” e – facendo riferimento anche all’insegnamento del mio indimenticabile maestro Maurizio Migliori –, imparare a realizzarci in molti modi.

1 Aristotele, Etica Nicomachea VII, 1145 b 27-28.

2 U. Wolf, Die Suche nach dem guten Leben, Rowohlt Taschenbuch, Verlag GmbH 1996; trad. it. G. Mancuso: La filosofia come ricerca della felicità, Raffaello Cortina Editore, Milano 2001, p. 22.

3 Cfr., in Pentagramma aristotelico, p. 84.

4 Diogene Laerzio, Vite dei Filosofi, V, 1, 32.


L’autrice

Arianna Fermani insegna Storia della Filosofia Antica all’Università di Macerata. Tra le sue pubblicazioni: Aristotele, Il giudizio etico. Imparare a distinguere il bene e il male per vivere felici, a cura di A. Fermani, Morcelliana, Brescia 2023; Virtù, Unicopli, Milano 2021; Aristotele e l’infinità del male. Pa­timenti, vizi e debolezze degli esseri umani, Morcelliana 2019; Vita felice umana. In dialogo con Platone e Aristotele, prefazione di S. Natoli, Eum 2019; L’etica di Aristotele. Il mondo della vita umana, Morcelliana 2012; By the Sophists to Aristotle through Plato. The necessity and utility of a Multifocal Approach, E. Cattanei, A. Fermani, M. Migliori (eds.), Academia Verlag 2016. Ha tradotto integralmente le Etiche di Aristotele (Aristotele, Le tre Etiche, Bompiani 2008, Giunti 2018, più volte riedito), Topici e Confutazioni Sofistiche (in Organon, Bompiani 2016). Insieme a Maurizio Migliori ha curato il manuale Filosofia antica. Una prospettiva multifocale, Morcelliana Brescia 2020. Con “petite plaisance” ha già pubblicato, tra gli altri, Equità e giustizia dal volto umano. Aristotele tra νόμος e φρόνησις; Economia e felicità. Del buon uso della ricchezza in Aristotele (2023); Concedetemi di diventare bello dentro. Viaggio alato nel Fedro di Platone; Desiderio. Navigazioni filosofiche tra le parole greche di desiderio (2024)

 Ecco, cliccando qui, l’elenco delle sue pubblicazioni


Alcuni dei libri di Arianna Fermani


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Carlo Rovelli – «Che cos’è la scienza. La rivoluzione di Anassimandro». Anassimandro cambia la grammatica della comprensione dell’universo e ci dice: «il mondo è diverso da come ci appare».


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Università di Macerata e Scuola di Musica “Scodanibbio” di Macerata – La bellezza e i suoi segni: dialoghi al tramonto su musica e armonia. Corso di «Educazione alla Bellezza». Scriveva Arnold Schönberg: «L’impulso più nobile, quello della conoscenza, ci impone il dovere della ricerca. La nostra coscienza, in virtù della forza immaginativa, può percepire le cose in ogni posizione … Uno dei compiti più nobili della teoria è di risvegliare l’amore per il passato e di aprire, nello stesso tempo, lo sgardo verso il fututo».


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Sergio Arecco – Microfiction I. Il racconto breve in 200 film. Da Stanlio e Ollio a Cinico TV.

Sergio Arecco,
Microfiction 1. Il racconto breve in 200 film. Da Stanlio e Ollio a Cinico TV.
ISBN 978-88-7588-376-8, 2024, pp. 328, , Euro 30
In copertina: Elizabeth Lee Miller sotto le apparenze di una statua grecizzante, in Le sang d’un poète, di Jean Cocteau, Francia, 1930.

Descrizione

Non il romanzo, bensì il racconto nella sua accezione più ampia – memoria rapsodica dell’altro, apprensione di momenti di essere altrimenti perituri, resi inaccessibili dalla sommaria percezione del vivere oggi dominante – può restituirci una dialettica dell’ascolto diciamo pure socratica. All’interno della quale diventa importante l’interpellanza di testimoni autorevoli del nostro tempo, capaci di sublimare la narrazione del vissuto, comico o tragico che sia, a metafora dell’universalmente umano. L’azione simultanea anziché l’azione parallela, per citare la celebre locuzione di Robert Musil, uno scrittore che le ha declinate entrambe con la stessa intensità progettuale, frequentando sia il romanzo sia il racconto. Istanze che, cinematograficamente parlando, e considerando qui la stagione del sonoro (1930-2024), corrispondono rispettivamente al lungo e al cortometraggio, speculari alle specifiche sensibilità dei cineasti – in Microfiction 1, l’arco temporale va dai primi anni Trenta agli ultimi anni Ottanta del Novecento; in Microfiction 2, dagli anni Novanta a oggi. Duecento film programmatici, suggerisce il sottotitolo, e poco importa che la silloge ne annoveri anche qualcuno in più. Importa che essa sia esaustiva di un periodo storico e di una cifra espressiva, nel segno di una singolarità – il corto sovente seminale di un regista celebre in cui sia già riconoscibile uno stile, un’inventiva personale – che ne anticipa figurativamente il divenire, lo statuto, l’emblema. 

 




Indice

Premessa

 

The Brats (James Parrott, USA, 1930, 21’)

Le sang d’un poète (Jean Cocteau, Francia, 1930, 51’)

Daïnah la métisse (Jean Grémillon, Francia, 1931, 48’)

On purge bébé (Jean Renoir, Francia, 1931, 45’)

Zéro de conduite (Jean Vigo, Francia, 1933, 47’)

Treno popolare (Raffaello Matarazzo, Italia, 1933, 59’)

Les affaires publiques (Robert Bresson, Francia, 1934, 25’)

Jofroi (Marcel Pagnol, Francia, 1934, 52’)

Une partie de campagne (Jean Renoir, Francia, 1936, 40’)

Bon Voyage (Alfred Hitchcock, Gran Bretagna, 1944, 25’)

Aventure Malgache (Alfred Hitchcock, Gran Bretagna, 1944, 30’)

Chi è Dio? (Mario Soldati, Italia, 1945, 11’)

Le tempestaire (Jean Epstein, Francia, 1947, 22’)

Un chant d’amour (Jean Genet, Francia, 1950, 25’)

Présentation ou Charlotte et son steak (Eric Rohmer, Francia, 1950-1951, 12’)

Return to Glennascaul (Hilton Edwards, Irlanda, 1951, 23’)

L’invidia (Roberto Rossellini, episodio di I sette peccati capitali, Italia, 1952, 19’)

Il delitto (Michelangelo Antonioni, episodio di I vinti, Italia, 1952, 35’)

K (Lorenza Mazzetti, Gran Bretagna, 1953, 27’)

Crin Blanc. Le cheval sauvage (Albert Lamorisse, Francia, 1953, 47’)

La patente (Luigi Zampa, episodio di Questa è la vita, Italia, 1953, 14’)

Anna (Luchino Visconti, episodio di Siamo donne, Italia, 1953, 20’)

Agenzia matrimoniale (Federico Fellini, episodio di L’amore in città, Italia, 1953, 16’)

Il ventaglino (Mario Soldati, episodio di Questa è la vita, Italia, 1953, 14’)

Funeralino (Vittorio De Sica, episodio di L’oro di Napoli, Italia, 1954, 13’)

Le coup du berger (Jacques Rivette, Francia, 1956, 28’)

Assassini (Andrej Tarkovskij, Ubijtsy, URSS, 1956, 19’)

Rentrée des classes (Jacques Rozier, Francia, 1956, 24’)

Charlotte et Véronique ou Tous les garçons s’appellent Patrick (Jean-Luc Godard, Francia, 1957, 21’)

Les mistons (François Truffaut, Francia, 1957, 18’)

Une histoire d’eau (Jean-Luc Godard e François Truffaut, Francia, 1958, 18’)

Due uomini e un armadio (Dwaj Ludzie & Szafa, Roman Polanski, Polonia, 1958, 15’)

Non cadranno foglie stasera (Andrej Tarkovskij, Segodnja uvol nenja ne budet, URSS, 1959, 47’)

L’occhio strappato (Jerzy Skolimowski, Oko wykol, Polonia, 1960, 3’)

Il grasso e il magro (Roman Polanski e Jean-Pierre Rousseau, Le gros et le maigre, Francia, 1960, 16’)

L’amour existe (Maurice Pialat, Francia, 1960, 21’)

Il rullo compressore e il violino (Andrej Tarkovskij, Katov i skripta, URSS, 1960, 46’)

Aprile (Otar Ioseliani, Aprili /Aprel’, URSS, 1961, 45’)

Les fiancés du pont Mac Donald (Agnès Varda, Francia, 1961, 5’)

Abbasso il zio (Marco Bellocchio, Italia, 1961, 12’)

Ginepro fatto uomo (Marco Bellocchio, Italia, 1962, 43’)

Il lavoro (Luchino Visconti, episodio di Boccaccio ’70, Italia, 1962, 46’)

Renzo e Luciana (Mario Monicelli, episodio di Boccaccio ’70, Italia, 1962, 43’)

Antoine e Colette (François Tuffaut, episodio di L’amore a vent’anni, Francia-Italia-Polonia, 1962, 25’)

Varsavia (Andrzej Wajda, Warszawa, episodio di L’amore a vent’anni, Francia-Italia-Polonia, 1962, 26’)

Borom Sarret / L’homme à la charrette (Ousmane Sembène, Senegal, 1962, 22’)

La boulangère de Monceau (Eric Rohmer, Francia, 1962, 26’)

La jetée (Chris Marker, Francia, 1963, 27’)

La nobile arte (Dino Risi, episodio di I mostri, Italia, 1963, 17’)

La ricotta (Pier Paolo Pasolini, episodio di RoGoPaG, Italia, 1963, 35’)

La caccia (A caça, Manoel de Oliveira, Portogallo, 1963, 18’)

Il professore (Marco Ferreri, episodio di Controsesso, Italia, 1964, 38’)

Film (Samuel Beckett e Alan Schneider, Gran Bretagna, 1964, 25’)

Non riconciliati (Jean-Marie Straub, Nicht versöhnt, RFT, 1964-1965, 50’)

La Muette (Claude Chabrol, episodio di Paris vu par…, Francia, 1965, 16’)

Birreria “Il Mondo” (Věra Chytilová, Atomat Svet, episodio di Perline sul fondo, Cecoslovacchia, 1965, 23’)

Simon del deserto (Simón del desierto, Luis Buñuel, Messico, 1965, 42’)

L’uomo dei 5 palloni (Marco Ferreri, episodio di Oggi, domani, dopodomani, Italia, 1965, 30’)

Boy and Bicycle (Ridley Scott, Gran Bretagna, 1965, 27’)

La donna della neve (Masaki Kobayashi, Yuki-onna, episodio di Kwaidan, Giappone, 1965, 40’)

Freiheit (George Lucas, USA, 1966, 3’)

Patriottismo (Yukio Mishima, Yûkoku / The Rite of Love and Death, Giappone, 1966, 30’)

Il piccolo caos (Rainer Werner Fassbinder, Das kleine chaos, RFT, 1966, 9’)

Anémone (Philippe Garrel, Francia, 1966-1968, 53’)

I bambini (Edgar Reitz, Die Kinder, Germania, 1967, 11’)

The Big Shave (Martin Scorsese, USA, 1967, 5’)

Il perfetto essere umano (Jørgen Leth, Det perfekte menneske, Danimarca, 1967, 13’)

Concerto di desideri (Krzysztof Kieslowki, Koncert zyeczen, Polonia, 1967, 16’)

La Terra vista dalla Luna (Pier Paolo Pasolini, episodio di Le streghe, Italia, 1967, 31’)

Che cosa sono le nuvole? (Pier Paolo Pasolini, episodio di Capriccio all’italiana, Italia, 1967, 22’)

The Burning (Stephen Frears, Gran Bretagna, 1967, 31’)

Le Horla (Jean-Daniel Pollet, Francia, 1967, 38’)

Toby Dammit (Federico Fellini, episodio di Tre passi nel delirio, Italia-Francia, 1968, 40’)

Il fidanzato, l’attrice e il ruffiano (Der Bräutigam, die Komödiantin und der Zuhälter, Jean-Marie Straub e Danièle Huillet, RFT, 1968, 23’)

Argilla (Argila, Werner Schroeter, RFT, 1968, 31’)

Storia immortale (Orson Welles, Une histoire immortelle, Francia, 1968, 58’)

Le partant (Guy Gilles, Francia, 1968, 9’)

Saute ma ville (Chantal Akerman, Belgio, 1971, 13’)

La cicatrice intérieure (Philippe Garrel, Francia, 1971-1972, 58’)

La ricreazione (Abbas Kiarostami, Zang-e tafrih, Iran, 1972, 11’)

Galim 2 / Wave 2 (Amos Gitai, Israele, 1976, 5’)

Children (Terence Davies, Gran Bretagna, 1976, 43’)

Un appuntamento (Claude Lelouch, C’était un rendez-vous, Francia, 1976, 9’)

Il boxeur (Stanley Donen, Dynamite Hands, episodio di Il boxeur e la ballerina [Movie Movie], USA, 1978, 50’)

Salomè (Salome, Pedro Almodóvar, Spagna, 1978, 11’)

Guernica (Emir Kusturica, Iugoslavia-Cecoslovacchia, 1978, 19’)

Panic (James Dearden, Gran Bretagna, 1978, 18’)

Germania in autunno (Rainer Werner Fassbinder, Deutschland in Herbst, RFT, 1978, 26’)

Hotel Magnezit (Béla Tarr, Ungheria, 1980, 12’)

Drimage (Silvio Soldini, USA, 1982, 20’)

Il coro (Abbas Kiarostami, Hamsorayan, Iran, 1982, 16’)

Grand Huit (Cyril Collard, Francia, 1982, 33’)

Peel (Jane Campion, An Exercise in Discipline – Peel, Australia-Nuova Zelanda, 1982, 9’)

Alta marea (George A. Romero, Something to Tide You Over, episodio di Creepshow, USA, 1982, 23’)

Thriller (John Landis, USA, 1983, 14’)

Masculins singuliers (Paul Vecchiali, episodio di L’Archipel des amours, Francia, 1981-1983, 7’)

Quartetto per la fine del tempo (Quarteto para el fin del tiempo, Alfonso Cuarón, Messico, 1983, 17’)

Colloquio con la madre (Paolo e Vittorio Taviani, episodio di Kaos, Italia, 1984, 23’)

A Girl’s Own Story (Jane Campion, Australia-Nuova Zelanda, 1984, 26’)

Doña Lupe (Guillermo Del Toro, Messico, 1983-1985, 33’)

Carmen (Alexander Payne, USA, 1985, 18’)

Coffee and Cigarettes / Strange to Meet You (Jim Jarmusch, USA, 1986, 6’)

Scherzi domenicali (Robert Glinski, Niedzielne igaszki, Polonia, 1983-1988, 56’)

Charlie e Gerri (Antonio Capuano, episodio di Polvere di Napoli, Italia, 1988, 24’)

La steppe (Emmanuel Parreaud, Francia, 1988, 14’)

Lo straniero (Thomas Heise, Der Ausländer, DDR, 1988, 37’)

Peccato nero (Jean-Marie Straub e Danièle Huillet, Schwarze Sünde, RFT, 1988, 40’)

The Cowboy and the Frenchman / Le Cow-Boy et le Français  (David Lynch, episodio di The French as been by… /  Les Français vus par…, USA-Francia, 1988, 26’)

Lezioni di vero (Martin Scorsese, Life Lessons, episodio di New York Stories, USA, 1989, 44’)

Romagnolo (Daniele Ciprì e Franco Maresco, Italia, 1989, 3’)

 

 

Indice dei nomi


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Salvatore Bravo – Trasgressione, Filosofia, Vita. Essere felicemente inadeguati al conformismo del politicamente corretto, facendo della vita che ci accomuna un’opera d’arte filosofica

Salvatore Bravo

Trasgressione, Filosofia, Vita

Essere felicemente inadeguati al conformismo del politicamente corretto,

facendo della vita che ci accomuna un’opera d’arte filosofica

 

La filosofia, per sua struttura epistemica ed etica, è trasgressiva. Essa sovente disorienta, in quanto pone in discussione dogmi e verità sclerotizzate che alla luce del logos si svelano “ideologiche”. In ogni tempo è in tensione feconda con le strutture di dominio e, dunque, con l’egemonia di classe che determina linguaggi e visioni della realtà. Filosofare è anche arte politica ed è impegno etico. Ma nel nostro tempo storico – dominato dal monologo culturale fondamentalmente narcisistico –, la filosofia è oggetto di una precisa operazione ideologica finalizzata a renderla irrilevante: per i potentati può e deve essere soltanto mero onanistico compiacimento della propria servile attività, deprivata programmaticamente di ogni possibilità – dialogica e comunitaria – di flusso vitale. Innumerevoli sono i festival della filosofia e gli interventi nei media da parte di cultori, di studiosi, di specialisti di “materia” filosofica, ma lo scopo è sempre il medesimo: rendere la filosofia impotente. Nel migliore dei casi essa è presentata come la disciplina che pone sì domande, ma solo in un circolo di infinite problematizzazioni che non approdano mai alla verità. Disciplina, dunque, che rafforza e affina soltanto le capacità retoriche. Insomma, essa prepara agli artifici linguistici con cui si conquistano posizioni nel mercato del lavoro, nel mercato delle merci e nel migliore posizionamento possibile in una carriera fondata esclusivamente sul merito postulato dai centri di potere. Fin quando la filosofia sarà soltanto ossequioso ospite nei salotti “bene” e sarà soltanto chiacchiera “colta” per signori e signore annoiati, al più potrà essere usata per consolidare le capacità linguistiche dei futuri venditori delle merci globalizzate. Sarà alienata, quindi, da un sistema economico e sociale che ha nella reificazione la sua forza perversa.

In questa cornice di violenza organizzata occorre preparare, nel presente, la critica radicale della autentica filosofia, quale premessa per disegnare e progettare una nuova realtà politica conforme alla natura sociale e comunitaria dell’essere umano. Il dominio avanza, ma il suo potere non è mai totale, poiché vi sono uomini e donne che resistono e pensano il presente storico. Concettualizzare il tempo storico è gesto linguistico con cui si denuncia l’innaturalità del capitalismo e si tenta di aprire brecce verso il futuro. Luca Grecchi è filosofo del nostro tempo, felicemente inadeguato al conformismo del politicamente corretto. Leggere le sue opere significa sospendere le grammatiche conservatrici del capitalismo per riorientarsi verso la verità. La filosofia da salotto può anche formalmente esaltare il filosofare, ma nella sostanza nega alla verità il suo cammino veritativo, proprio benedicendo il politeismo delle opinioni senza fondamento comune. Senza verità nessuna progettualità è possibile. Riportare la filosofia al suo senso profondo non può che condurre ad affermare che la filosofia non è un inutile girovagare di parole: essa si pone di fronte ai problemi per poter cercare le risposte. Se il capitalismo – oltre che le domande – cerca di neutralizzare le risposte che tentano di immaginare modalità di vita diverse da quelle attuali, Luca Grecchi invece pone di nuovo al centro del filosofare le risposte veritative che ne possono scaturire come momento dialettico senza il quale il problematizzare domandante si dissolve nel pulviscolo desertificante del niente:

 

«Col passare degli anni il desiderio di un sapere vero e buono continua in effetti, nel philosophos, a rimanere il fine della propria esistenza, la quale consiste sempre in una ricerca fatta per trovare, ossia per raggiungere un risultato utile per sé e per gli altri».[1]

 

Filosofia e verità

La filosofia non è una eterna ideale aspirazione alla verità, essa è un ricercare per trovare. Nessun filosofo, certo, possiede completamente la verità assoluta, ma proprio il suo lungo e paziente ricercare è approdo alla verità. Egli partecipa in modo comunitario alla definizione della verità. La filosofia che pone problemi ma non dà risposte è coccolata, in quanto è rassicurante. Luca Grecchi ha deviato da tale infruttuoso percorso. Rappresentare la filosofia come una eterna ricerca senza risultato è un abile modo per disinnescarne il potenziale rivoluzionario e gestaltico:

 

«Nella sua opera, Platone afferma più volte che gli anthropoi non possono divenire compiutamente sophoi, in quanto, pur desiderando assimilarsi al divino, per i loro limiti naturali non possono riuscirvi. Malgrado questo, l’anthropine sophia, per quanto non totale, comprende contenuti importanti di verità. […] La sophia ricercata dalla philosophia, infatti, è per Platone questione di gradi, sicchè può, in parte piccola o grande, essere posseduta da tutti, nonché continuamente incrementata».[2]

 

La verità non può che comportare la definizione di “bene”. La filosofia da festival non osa pronunciare ad alta voce la parola “bene”, e men che meno l’espressione “bene comune”, la quale è il più delle volte consegnata alla cultura della cancellazione. Il capitalismo ha convertito il contenuto umanistico di “bene” in calcolo degli interessi privati, e oscurando il “bene” si oscura la “verità”: così più facilmente costoro possono sottrarsi ed eludere il compito e l’impegno derivanti dalla valutazione etica. Con tale procedura ideologica il “bene” è parola misconosciuta dai padroni del discorso. Solo riportando il “bene” al centro del filosofare la filosofia potrà scorrere nell’alveo fecondo del suo corso:

 

«Quando l’episteme caratterizza la philosophia, essa viene a costituire un sapere che comprende, oltre a contenuti ontologici essenziali per la conoscenza del vero, anche contenuti assiologici essenziali per la realizzazione del bene».[3]

 

Il filosofare autentico non è un astratto vagheggiare (non pochi presentano così la filosofia), ma è ricerca inesausta della verità da parte dell’uomo nella sua storia di essere umano che si umanizza. L’arma della calunnia fu usata contro Socrate: oggi è utilizzata contro la struttura veritativa della filosofia. Il sistema le permette di sopravvivere ma solo come esoscheletro spettrale di se stessa, mutila della sua essenza umana e della sua reale finalità. A tal scopo i filosofi sono presentati con l’espressione – usata come denigrante –  di “metafisici”, cioè alla ricerca di impossibili verità astratte che non conducono a nulla. La verità non sarebbe da ricercare, perché non c’è. Si usa la stessa filosofia per dimostrare che l’oggetto della sua ricerca (la verità) è solo una chimera del passato. Luca Grecchi, invece, dimostra e smaschera la falsità di tale postura ideologica.

Sì, la filosofia ricerca la verità, ma ha ben presente che l’essere umano deve soddisfare in primis i bisogni primari, i quali però non gli sono sufficienti per essere “umano”; ecco dunque che deve ricercare la verità della totalità in cui è implicato per potersi umanizzare. La verità, poi, non è un possesso, ma una prassi che rende l’esistenza individuale e comunitaria qualitativamente migliore. Quantità e qualità sono, di conseguenza, in felice connubio:

 

«Dopo aver soddisfatto le necessità materiali della vita, il bisogno di philosophia, per un ente razionale-morale come l’anthropos, che necessita di attribuire un senso ed un valore alla realtà, costituisce appunto l’attività primaria, ossia la più utile. Essa soltanto consente, infatti, di condurre nella maniera migliore la vita, realizzando la sua essenza nel modo più eccellente verso il fine naturale della verità. Per questo la sophia, per Aristotele, deve non solo essere posseduta, ma compiutamente utilizzata. È il fine del raggiungimento in atto della sophia, del resto, a muovere la potenza insita nel philosophein».[4]

 

Filosofia dell’educazione

Il “bene” è pratica, per cui la filosofia è pratica paideutica. Essa insegna il difficile cammino dell’umanizzazione. Il “bene” è prassi sociale ponendo in essere l’eccellenza dell’essere umano: l’indole comunitaria e sociale. Ma senza una adeguata paideutica delle emozioni e dei bisogni la finalità universale è profondamente imperfetta. La filosofia, sin dalle origini, insegna a contenere le spinte irrazionali e crematistiche mediante la chiarezza della verità e del bene, che devono essere testimoniati e vissuti, affinchè portino all’armonia interiore e sociale. Da ciò deduciamo la motivazione dell’avversione del capitalismo alla filosofia. Il capitalismo, per sopravvivere, esige il disordine delle emozioni e l’oblio del logos, quale razionalità etica capace di disciplinare le emozioni e di favorire le buone relazioni comunitarie nel segno del discernimento tra “essenziale ed inessenziale”:

 

«La philosophia, disciplinando le emozioni, risulta utile per orientarsi fra i problemi più rilevanti conducendo verso le soluzioni migliori, svolgendo in tal modo un compito fondamentale per l’essere umano».[5]

 

La filosofia delle Accademie universitarie insegue e si adatta al mondo, frammentandosi così in formalistiche iperspecializzazioni incapaci di cogliere l’approccio olistico che la connota. La filosofia è sapere teoretico concreto. Educa a ricomporre le parcellizzazioni che hanno smarrito il profondo sguardo con cui “mirare” la realtà. Teoria e prassi sono un corpo unico e vivente in perenne osmosi:

 

«La mera conoscenza pratica infatti, per lo Stagirita, non può sostituire la philosophia, che in tutte le sue parti si presenta come una episteme, ossia anche come un sapere teoretico. Per deliberare bene sul piano politico è in effetti necessario un orientemento filosofico, che nemmeno phronimos può trascurare completamente».[6]

 

La filosofia non è, dunque, un vuoto chiacchiericcio: essa ha un carattere epistemico ben saldo e chiaro. La filosofia è ricerca veritativa dell’intero, valutazione assiologica e metodo dialettico. Filosofare è ragionare per martellare la qualità veritativa delle “proposizioni”. La dialettica non è un mero parlare, è la struttura metodologica con la quale si approda alla verità e alla valutazione etica dell’intero:

 

«In base, infatti, a quanto finora argomentato, essendo la philosophia una ricerca dialettica della verità dell’intero avente come fine la buona vita degli esseri umani, tali elementi strutturalmente intrecciati, dunque separabili solo per esigenze didattiche – risultano essere: a) l’orizzonte veritativo dell’intero; b) la finalizzazione della buona vita; c) il metodo dialettico».[7]

 

Filosofia, scienza e religione

La filosofia si differenzia dalla religione, in quanto è sapere veritativo fondato a livello dialettico e argomentativo, ma anche dalla scienza, poiché quest’ultima si astiene dalla valutazione etica, si limita a descrivere i fenomeni e a matematizzarli. L’economicismo scientista è il vero nemico della filosofia. Lo scientismo asservito all’economia e agli affari è una forma di riduzionismo gnoseologico che struttura trasversalmente l’Occidente. Esso è ateo, in quanto rimuove volutamente la verità, in modo da proliferare e depredare l’umanità e l’ambiente:

 

«Come insegnano sia Platone che Aristotele, la prima operazione da compiere, per la definizione di philosophia, è, esattamente come per gli altri enti, la differenziazione della medesima dalle altre “specie” del “genere” comune, ossia del sapere. Erano in effetti presenti già in epoca presocratica molteplici forme di sapere simili alla filosofia, quali in primo luogo, come detto, le religioni e le scienze definite da alcune differenze specifiche. Le religioni, infatti, a differenza della philosophia, non sono caratterizzate né da un approccio veritativo, né da un metodo dialettico […], così come le scienze non sono caratterizzate né da un approccio interale, né da una finalizzazione valoriale […]».[8]

 

La filosofia è “sapere di non sapere”. Il capitalismo estrapola con il consenso del mondo accademico talune frasi e le trasforma in Totem con cui manipola il fine della filosofia. Nella logica “stile baci perugina” Socrate è un eterno ricercatore di verità, è condannato ad un’esistenza accostabile al mito di Sisifo: un lavoro continuo ma senza soddisfazione alcuna. La filosofia, come detto, è invece pacata e razionale soddisfazione del bisogno di verità in una cornice amicale nella quale chi è sconfitto ha fatto un passo in avanti verso la verità:

 

«Il clima dialogico-amicale, unito alle note affermazioni del Socrate storico di “sapere di non sapere” – o meglio, di sapere di non sapere tutta la verità in maniera assoluta, rimanendo dunque sempre aperto alla possibilità della confutazione –, ha dato tuttavia luogo ad alcuni equivoci ermeneutici sul suo pensiero. Frequenti sono tuttora, infatti, gli studiosi che interpretano Socrate come un mero fautore del dialogo, come se fosse impossibile, alla philosophia, trovare il sapere (la sophia), ma fosse possibile solo cercarlo, per amore del medesimo (la philia, appunto)».[9]

 

L’essere umano è comunitario e veritativo per sua natura, ricerca il senso della sua esistenza nella totalità della comunità. Universale e particolare sono inscindibili:

 

«L’essere umano è in effetti, per il prevalente pensiero greco, un ente che si realizza in maniera compiuta cercando di conoscere con verità e di agire bene. Per questo necessita della philosophia per la realizzazione della propria umanità. Nessun altro sapere, infatti, oltre la philosophia, si occupa della verità e del bene».[10]

 

La prassi del bene-verità

Per uscire dal politicamente corretto dobbiamo riconquistare il sapere filosofico e sulle orme dei filosofi dobbiamo reimparare a valutare la totalità sociale nella quale possiamo fiorire o sfiorire. La valutazione è responsabilità politica, in quanto invoca la partecipazione a migliorare qualitativamente la totalità. La filosofia, dunque, è impegno nella comunità e deserta i salotti:

 

«Per lo Stagirita, infatti, per quanto concerne la realtà umana, non basta descrivere le cose per come effettualmente si sono svolte, al fine appunto di conformarsi alla physis dell’essere umano. Si tratta peraltro di un compito in certo senso naturale, dato che per natura quelle modalità, se non impedite tendono a realizzarsi in quanto “le cose vere e giuste sono più forti delle loro contrarie”. Nella considerazione dello Stagirita, infatti non vi è mai opposizione, bensì complementarietà fra fatti e valori, così come fra teoria e prassi, le quali vengono quasi sempre analizzate in connessione. Aristotele parla per questo anche di una “verità pratica”, che si dà quando un ragionamento vero ispira, appunto, una scelta buona».[11]

 

Dobbiamo ricercare i motivi per ricominciare a leggere filosofi ed autori che hanno trasgredito il linguaggio dell’impero e che non usano tale prospettiva come uno strumento di affermazione personale, ma per sollevare domande vissute che “osano dare risposte”. Nel nostro tempo tutto è possibile, tranne essere autenticamente umani con i limiti e le contraddizioni che queste comportano, per cui riprendiamoci la nostra umanità-verità che il sistema ci nega con la sua hybris nichilistica.

La risposta al dramma etico in cui ci troviamo ad essere, Luca Grecchi l’ha elaborata con la Metafisica umanistica. L’essere umano è l’assoluto che pone la storia, ma quest’ultima ritrova il suo senso nella prassi finalizzata al bene e alla verità. Dobbiamo riprenderci la storia che il capitale vuole curvare ai suoi interessi mediante una progressiva opera di cancellazione di essa:

 

«Il fatto che l’Uomo costituisca un Assoluto solo secundum quid, non un Assoluto simpliciter, non deve far dubitare del suo ruolo di Fondamento. L’Uomo non è l’Assoluto simpliciter, dunque non è il Principio, semplicemente in quanto la sua esistenza è sottoposta sul piano fisico ad alcune condizioni, che sono appunto quelle del Principio. Ciò nonostante, l’Uomo è il suo Fondamento sul piano metafisico, poiché è, come ormai più volte ricordato, il solo ente in grado di conferire significato trascendentale alla Realtà».[12]

 

L’Umanesimo filosofico riconduce la storia al suo fondamento, l’essere umano, il capitalismo, invece, pone al centro la merce e il dispositivo tecnocratico. La storia è il luogo e lo spazio dell’impossibile, ma affinchè l’impossibile possa realizzarsi l’essere umano deve riprendersi la storia con la prassi del pensiero.

Salvatore Bravo

 

[1] Luca Grecchi, Il concetto di philosophia dalle origini ad Aristotele, Scholé, Morcelliana, Brescia 2023, p. 30.

[2] Ibidem, p. 89.

[3] Ibidem, p. 106.

[4] Ibidem, p. 184.

[5] Ibidem, p. 191.

[6] Ibidem, p. 223.

[7] Ibidem, p. 35.

[8] Ibidem, p. 82.

[9] Luca Grecchi, Verità, Unicopoli, Milano 2023, p. 103.

[10] Ibidem, p. 23.

[11] Ibidem, pp. 212-213.

[12] Luca Grecchi, Metafisica umanistica, petite plaisance, Pistoia 2023, p. 89.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Enrico Crivellato, Medico e docente di Anatomia Umana e di Storia della Medicina presso l’Università degli Studi di Udine, commenta il libro di Florian Steger, «Introduzione alla storia della medicina antica. Dal Vicino Oriente antico a Bisanzio», Edizione italiana a cura di Vincenzo Damiani, “petite plaisance”, 2024.





M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Salvatore Bravo – Afghanistan della disinformazione. La guerra per l’oppio.

Salvatore Bravo

 

Afghanistan della disinformazione

 

 

L’infosfera dell’Occidente turbo-capitalista è finalizzata alla disinformazione manipolata. Il suddito-consumatore aggiogato al mainstream ha la percezione di essere informatissimo, in realtà il sistema mediatico ripete in modo ossessivo informazioni filtrate a priori. La decadenza della democrazia è nell’impossibilità di ricostruire eventi e circostanze in modo reale e razionale. Si vive, di conseguenza, in una realtà semi-onirica, in cui le parole e le immagini, in un numero volutamente ingestibile, sembrano farci vivere in una democrazia trasparente e realizzata. Siamo nella gabbia d’acciaio della disinformazione e non ne abbiamo, in genere, la consapevolezza. L’Italia nel 2024 risulta essere al 46 posto per la libertà d’informazione. Si finanziano le guerre per i diritti umani, ma in patria vi è un deficit notevole di diritti, di informazione e di cultura politica.

In questi decenni a liberismo integrale, in cui i diritti sociali sono stati tagliati e la formazione dei cittadini europei è drammaticamente curvata ai voleri della classe al potere, la vera protagonista è stata la guerra. Il neocolonialismo si è mascherato con la propaganda dei diritti umani, e in nome della democrazia e dei diritti umani propagandati dai trombettieri delle oligarchie si è proceduto a devastare intere aree geografiche e a massacrare i popoli indisponibili ad entrare nell’Eden occidentale. La religione unica del mercato e del denaro non tollera le differenze, esse sono vissute come una minaccia alla verità dell’economicismo. La superiore civiltà dell’Occidente ha divorato un numero non indifferente di popoli: Serbia, Libia, Iraq, Siria, Afghanistan ecc. La democrazia è arrivata a suon di bombe e ha lasciato paesi devastati e popoli nel dolore. In questo clima vi sono testi che possono esserci d’ausilio per comprendere la pericolosa direzione verso cui l’Occidente si sta posizionando. Il saggio di Filippo Rossi è una fonte di informazioni, spesso diretta, sul conflitto in Afghanistan. Ci svela la verità sull’operato NATO abilmente occultato dai mainstream, i quali si soffermano esclusivamente sulla condizione femminile, la quale è diventata lo strumento mediatico per strappare un facile e irriflesso consenso e per celare la realtà tragica di questi anni terribili di guerra. L’autore specifica nel testo che cosa intenda per Occidente. Non sono i popoli occidentali ad essere responsabili, ma le oligarchie anglofone, le quali occultano la verità in Occidente, rendendo i cittadini sudditi. Le plutocrazie sono le responsabili di una serie di guerre che non hanno eguali per la conduzione spregiudicata e per le tecnologie messe in campo:

 

«Bisogna, invece, intendere l’Occidente come sistema di governo, di controllo finanziario, come politica neocolonialista e imperialista che domina, invade e opprime chiunque non la pensi come desiderato dal potere, e cerca di imporre con mezzi subdoli e con tecniche avanzate la propria visione del mondo per cercare di modificarlo a piacimento e renderlo sempre più omologato, abbattendo frontiere culturali, barriere e usi sociali per arrivare a creare un essere umano ibrido (ciò che, nella sua accezione fenomenologica, può essere considerato transumanesimo). E l’opera è già in stato avanzato, anche se barcollante. Questo avviene senza tenere minimamente conto di ciò che la popolazione occidentale pensa di queste azioni e di questa espansione».[1]

 

Compelle intrare

Le guerre di rapina sono venate da un razzismo occultato dalla fumisteria dell’uguaglianza. La civiltà occidentale è la migliore possibile, pertanto bisogna radere al suolo le altrui civiltà per portare l’irenica pace dell’Occidente. L’Occidente è divenuto con la sua religione-missione della civilizzazione, ad ogni costo, la laica e pericolosa religione del nostro tempo. Si tratta di ideologia, in quanto la retorica della religione dei diritti cela l’occupazione e il saccheggio quali fini reali delle missioni di pace. Il capitalismo è il “bene assoluto” per cui va imposto ai popoli retrogradi che bisogna costringere ad entrare nel mondo della superiore civiltà del dollaro nella quale l’uguaglianza è divenuta eguagliamento:

 

«In Occidente si parte dal presupposto che almeno in Europa e negli Stati Uniti la struttura della propria società sia la migliore al mondo. Da qui il bisogno di doverla proporre con le “buone o le cattive” agli altri. La cosa più sconcertante è che spesso sono gli ambienti della cosiddetta “sinistra” a difendere questi diritti inalienabili imponendola a tutti senza accorgersene».[2]

 

“Compelle intrare” è il motto che distingue la democrazia occidentale, coloro che resistono devono essere indotti a suon di bombe ad entrare nel mercato e a “condividere le loro risorse con i liberatori”. Caduta l’unione Sovietica, la NATO ha cominciato ad estendersi sempre più ad Est. Il crollo delle torri gemelle ha decretato la contrazione della democrazia in Occidente in nome della sicurezza. Si esporta la democrazia dei diritti, mentre in Occidente la stessa si contrae:

 

«Oltre alla guerra, il progetto di creare più ostacoli ed erodere le libertà dei cittadini funzionò alla perfezione con l’introduzione del Patriot Act, firmato e introdotto i 26 ottobre del 2001. Si fece credere al cittadino comune che meno libertà garantiva più sicurezza. La dittatura nascosta raggiungeva un alto livello in tutto il mondo, essendo tutti gli Stati in un qualche modo soggiogati dallo strapotere della finanza USA».[3]

 

 

La realtà-verità della guerra

Le ragioni della guerra in Afghanistan e della sua democratica occupazione non sono da individuare nell’attacco alle Torre gemelle, ma nella sua posizione e nelle ingenti risorse minerarie. La democrazia è esportata solo dove vi sono risorse minerarie a cui le oligarchie occidentali sono particolarmente sensibili. Il capitalismo occidentale può sopravvivere solo mediante la predazione delle risorse minerarie che non possiede:

 

«L’Afghanistan non solo si trova in una posizione strategica molto importante per l’attraversamento di risorse come il gas e petrolio dalle vaste e ricche pianure centrasiatiche verso l’Oceano Indiano, ma possiede lui stesso ingenti risorse naturali sul suo territorio. Non solo petrolio e gas ma anche uranio e litio, per citarne alcune. Possiede però qualcosa di speciale e più allettante ancora: l’oppio, l’eroina, l’efedrina. Il narcotraffico, un mercato miliardario per chi lo controlla. Più di quanto sia stato rilevato».[4]

 

Il sangue dell’Occidente è il denaro. Il capitalismo si connota per il suo sviluppo ipertrofico, e a tal scopo necessita di denaro. Si forma un ciclo vertiginoso in cui si investe denaro per ottenerne altro ed espandersi senza limiti e confini. Il “deserto della crematistica” avanza ad un ritmo ingestibile, e specialmente, è occultato alla vista cognitiva e politica degli ordinari cittadini occidentali. L’Afghanistan è il più grande produttore d’oppio, pertanto l’Occidente ha gestito la produzione per ricavarne denaro da investire nelle guerre di “liberazione” prima dai sovietici e poi da Talebani:

 

«L’Afghanistan e il Pakistan però, sono passati da centri di piccola produzione locale a veri e propri centri di grande produzione, con l’inizio dell’invasione sovietica in Afghanistan alla fine degli anni Settanta. La CIA cominciò a sostenere la resistenza dei mujahidin, i quali necessitavano di supporto logistico e bellico fornito attraverso i canali pakistani e sauditi. L’oppio divenne perciò indispensabile per riciclare il denaro e fornire ancora più supporto alla continuazione della lotta fornendo armi senza essere tracciabili».[5]

 

L’oppio ha una doppia valenza produce denaro e distrugge i popoli che ne fanno largo uso. Le due Guerre dell’oppio dell’Inghilterra per conquistare la Cine nell’Ottocento (dal 1839 al 1842 e dal 1856 al 1860), sono un fulgido e tragico esempio. La storia si ripete in modo simile nei nostri anni. L’oppio è uno strumento per dominare i popoli e indebolirli politicamente e nel medesimo tempo si ottengono guadagni da investire nella politica di potenza e di dominio:

 

«La grande potenza distruttrice dell’oppio risiede nella dipendenza che ne consegue dopo il consumo (sia oppio che eroina raffinata ecc.). Difatti, secondo molti analisti, ancora oggi l’oppio commerciato dall’Afghanistan ed esportato con l’aiuto dell’occupazione NATO, è usato come arma appositamente per distruggere le popolazioni iraniche, russe e cinesi non solo con la dipendenza ma anche con l’aumento del crimine e delle malattie veneree come l’AIDS».[6]

 

La guerra alle piantagioni dell’oppio è stata propaganda, in quanto come si rileva nel saggio, la distruzione dei campi di oppio e dei laboratori ha avuto lo scopo di far lievitare il prezzo dell’oppio[7]. Il mercato ha le sue leggi.

 

 

Effetti collaterali

Il disprezzo degli occupanti ha portato a una serie incalcolabile di bombardamenti ed eventi luttuosi durante l’occupazione NATO. Gli afgani portano ancora oggi nella carne e nella psiche le tracce delle violenze dei “liberatori”. Per gli innocenti che hanno subito violenze inenarrabili, mentre la NATO era a caccia di Talebani, la guerra non è finita. I casi di innocenti ammazzati durante i bombardamenti sono innumerevoli. Ogni giorno essi rivivono in una nazione ridotta in macerie la guerra e questo impedisce loro di immaginare il futuro. Molti afgani sono prigionieri del tempo della guerra:

 

«Said Abdullah non riuscì più ad andare a scuola per i problemi di concentrazione e i forti mal di testa. Rimase analfabeta, ancora oggi, anche se lui vorrebbe uscirne e diventare dottore. Tuttavia, il suo futuro, per ora, è coltivare campi e il grano per sopravvivere. E tutti si sono dimenticati di lui, dei fatti di Granai e dei danni indelebili che le forze internazionali hanno fatto».[8]

 

La frettolosa ritirata dall’Afghanistan nel 2021 dopo vent’anni di guerra è sospetta. Si può ipotizzare che la ritirata sia stata concordata, ovvero che i Talebani al potere in qualche modo siano legati all’Occidente. Nulla è come appare, il semplicismo manicheo non è la categoria da utilizzare per comprendere eventi che ad uno sguardo cognitivo più attento appaiono stranamente sorprendenti. Tutti i popoli desiderano la pace e il rispetto della loro identità, solo su queste fondamenta si può elaborare una nuova fratellanza nel segno del concreto rispetto delle differenze. Siamo lontani dalla pace e dalla fratellanza che può esserci solo se impariamo a riconoscere l’altro e a non depredarlo. Nulla è impossibile, malgrado il periodo storico, la prassi della speranza è ciò che ci umanizza, pertanto informarsi per capire è passo fondamentale verso una prospettiva storica semplicemente umana. I versi di Alda Merini ci guidino verso la speranza, nessuno si salva da solo; la pace non si costruisce con le armi come ci raccontano i cinici cantori della guerra. Ognuno di noi può diventare una scialuppa di salvataggio verso l’esodo. Non bisogna rinunciare ad immaginare un mondo diverso che inizi nel presente:

 

 

Una volta sognai

 

Una volta sognai

di essere una tartaruga gigante

con scheletro d’avorio

che trascinava bimbi e piccini e alghe

e rifiuti e fiori

e tutti si aggrappavano a me,

sulla mia scorza dura.

Ero una tartaruga che barcollava

sotto il peso dell’amore

molto lenta a capire

e svelta a benedire.

Così, figli miei,

una volta vi hanno buttato nell’acqua

e voi vi siete aggrappati al mio guscio

e io vi ho portati in salvo

perché questa testuggine marina

è la terra che vi salva

dalla morte dell’acqua.

 

[1] Filippo Rossi, NATO per uccidere, Arianna editrice, Bologna 2024, pp. 56-57.

[2] Ibidem, pag. 40.

[3] Ibidem, pag. 68.

[4] Ibidem, pag. 71.

[5] Ibidem, pag. 92.

[6] Ibidem, pag. 99.

[7] Ibidem, pp. 117-120.

[8] Ibidem, pag. 179.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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