Giovanni Casertano – L’interessante saggio di Enrico Crivellato su quell’universo culturale della Grecia antica che non cessa ancora oggi di stupirci e di destare la nostra ammirazione

Enrico Crivellato, Disvelare l’inosservabile. La scienza greca di fronte all’invisibile,
petite plaisance, Pistoia 2023, ISBN 978-88-7588-338-6.

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M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Menandro – «Com’è piacevole l’uomo, quando è uomo». Cecilio Stazio dirà che «l’uomo per l’uomo è un dio, se conosce il suo dovere». E Plinio il Vecchio aggiunge: «Essere dio, per un mortale, significa aiutare un altro mortale». Udiamo qui l’eco della filosofia di Aristotele e della sua etica.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Lewis Mumford – La paideia è dare forma allo stesso atto di vivere; essa considera ogni occasione della vita come parte del processo di conversione dei fatti in valori, dei processi in scopi, delle speranze e dei progetti in adempimenti e realizzazioni. La paideia non è un semplice apprendere, ma è creazione e formazione. L’opera d’arte a cui essa cerca di dare forma è l’uomo.


Uno scolaro assistito da un pedagogo, dettaglio da La scuola di Atene di Raffaello (1509).
Recita di poesie da parte di un giovane accompagnato da un musico (rilievo funerario risalente all’incirca al 420 a.C.), Gliptoteca di Monaco


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Salvatore Bravo – Il fine della «Metafisica umanistica» è rispondere ai processi di disumanizzazione, è intenzionalità veritativa che si storicizza nella difficile pratica del bene e della cura, è la risposta filosofica all’indifferenza del nichilismo crematistico.

V. Van Gogh, “Un paio di scarpe”.


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Gli scritti di Foucault testimoniano un’attenzione rara alla vita che scorre ai margini: folli, mendicanti, prostitute, omosessuali, oziosi popolano molti dei suoi saggi, in particolare Storia della follia e Sorvegliare e punire.

Vi è uno spostamento della prospettiva attraverso cui leggere il potere; tradizionalmente il potere risiede in una figura (ad es. il sovrano), una classe, un’istituzione. L’analisi tradizionale del potere individua il soggetto attivo depositario del potere, si pensi al Principe di Macchiavelli, ed un soggetto che ne subisce l’azione: il suddito.

Il potere è studiato mediante la ‘posizione della rana’, affermazione del filosofo. Il potere è analizzato da Foucault nel suo costituirsi, non dal vertice ma dalle forze interagenti dal basso il cui effetto è il potere.

 


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Il modello di razionalità è parte integrante della prassi di una comunità, la riflessione su di esso è necessaria per un’operazione “archeologica” di consapevolezza, ovvero le strutture cognitive sono segnate nella lingua come nei modelli di comprensione. La pastorale dell’incontro, tanto in voga riesce solo parzialmente a portare nuova vita nell’atto del pensare, tale operazione dev’essere completata con un’analisi-riflessione dei fondamenti del pensiero. L’interrogativo a cui dovremmo rispondere è il perché tanto sapere critico abbia prodotto risultati tanto parziali, finanche a volte reazionari.

 


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La fame dei desideri, l’assenza continua di una pienezza ontologica, spinge in modo compensativo molti alla fame di cose, di un tempo vuoto, ripetitivo e riproduttivo da colmare con spazi ingombri di materia. La fame denuncia un’assenza, è la perversione di una fame di giustizia ed autenticità resa perversa dall’impazzimento razionale della crematistica. Il compito che spetta alla filosofia, come afferma Ernst Bloch, è ridare speranza, reintrodurre con la speranza l’utopia e dunque trasformare la fame delle cose in una spinta trasformatrice collettiva della storia.

La storia non è terminata e l’impensabile è nel presente, sbiluccica nei malesseri dell’umanità ricca come in quella deprivata di tutto: il futuro non è fatalità, ma sistema aperto che attende tutti.

L’impegno è restituire dinamicità alla storia e con essa reintrodurre la categoria della speranza non come attesa messianica ma come attività progettante radicata nell’attualità:

 

“Lì dove l’orizzonte prospettico è tralasciato, la realtà si manifesta soltanto come divenuta, come realtà morta, e sono i morti, cioè i naturalisti e gli empiristi, che qui seppelliscono i loro morti. Dove invece si ha costantemente di mira anche l’orizzonte prospettico, il reale si manifesta come ciò che esso è in concreto: come intreccio di processi dialettici, che si svolgono in un mondo incompiuto, in un mondo che non sarebbe assolutamente mutabile senza il gigantesco futuro della possibilità reale in esso” (E. Block Il principio speranza, Garzanti, 2005, p. 262).


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Il depotenziamento del linguaggio è attuato dalla globalizzazione capitalistica, nel suo allontanamento dalla persona e dalla comunità. L’epoca attuale destina ricchezza materiale ai pochi e povertà linguistica ai molti: povertà lessicale, manomissione dei significati delle parole, riduzione della parola a funzione calcolante, aggressione culturale imperialistica alle lingue nazionali. La povertà lessicale non è semplicemente una forma di regressione culturale legittimata dalla cultura del fare, della didattica breve, del problem solving, ma trova la sua ragion d’essere nel liberismo globale, per il quale ogni riflessione eccedente i bisogni dell’economia è già un limite per le logiche mercantili. La lingua deve tracciare il suo senso nella sola produttività, nell’immediatezza della sua spendibilità, dev’essere funzione dell’illimitatezza della valorizzazione. Ogni linguaggio non immediatamente spendibile è stigmatizzato come inutile. Diviene così funzione, calcolo per previsioni consumistiche, diventa la pietra di confine conficcata nella terra dei consumi oltre la quale vi è il nulla. Novello Crono, il capitale divora – con i figli – le parole, al fine di colonizzare ogni comunità e renderle atomizzate e dominabili. La comunità politica è sostituita dal modello azienda, ed ha il suo centro nella competizione.

La neolingua si struttura nell’atomizzazione dei pensieri, delle frasi, che si articolano in modo da perdersi nell’emozione dell’immediato della compravendita delle pseudo relazioni virtuali. Il nichilismo di massa è alimentato e vive attraverso l’incompetenza linguistica che derealizza la realtà in monconi fonetici. Il riduzionismo politico filosofico si sostanzializza attraverso un linguaggio la cui articolazione logica arretra per lasciare spazio unicamente alla naturalizzazione del solo presente.

 


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Il cacciatore globalizzato nel capitalismo assoluto è onnivoro, ha smarrito la strada del bene e del male, è solo interno al visibile, alla merce ed alle sue immagini che ne colonizzano la carne privandola della sensibilità della comunicazione. Vive nell’immediatezza, consuma ogni prodotto nell’irrilevanza critica ed etica: ha fatto dell’attimo consumante l’ontologia della consolazione. Il mercato è il fondamento ontologico che si rispecchia nel suo pensiero. È l’automa cartesiano realizzato, privo di anima ma pronto all’azione imitativa. Vive l’imperio del caos, insegue i flussi dell’economia diventandone parte fino ad esserne parte indifferenziata, non pensa il suo tempo, lo insegue, lo annusa in cerca di selvaggina: la merce.

La vita allora si disfa in una temporalità segnata dal tempo liturgico del consumo senza limiti, e la chiamata al consumo non conosce soste. Vive l’incontro solo come occasione per soddisfare i suoi biologici interessi, divora l’altro.

Con questo saggio l’autore vuole contribuire a pensare l’epoca presente, a porre delle domande sul dominio del nulla sull’essere, sempre più incombente, sull’avanzare del deserto spirituale, nel dolore silenzioso dei tanti senza voce, senza destino. E chiama in causa la necessità di elaborare una filosofia capace di progettualità sociale e comunitaria.

 


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La metafora assume una polisemia di significati formativi: è l’immagine che porta al concetto; è configurazione di tensioni concettuali dal forte contenuto emozionale, non estranee alla razionalità nella sua processualità radicata in piani differenti. È totalità umana: fantasia, sentimento e razionalità sono un trittico imprescindibile per l’uomo teoretico. La metafora “trasporta” il concetto, è libertà antitetica alla riduzione dell’essere umano ad ente senza autentica progettualità, è l’affacciarsi dell’essere umano fuori dal corpo. La metafora educa al possibile. La metafora è bussola concettuale per guardare oltre l’orizzonte dell’angusto presente. Creare e ripensare concetti con la metafora rompe la successione sempre eguale della linea del tempo. «Noi apprendiamo soprattutto dalle metafore», in quanto esse hanno il ruolo fondamentale di «portare l’oggetto sotto gli occhi» (Aristotele,  Retorica, III, 10, 1411a).

 


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L’ospite inquietante, il nichilismo, è fra di noi.

Perché possa esserci vita degna d’essere vissuta è necessario riportare il fondamento veritativo nella vita degli esseri umani. Costanzo Preve ha fatto dell’esodo dal nichilismo economicistico il telos del suo filosofare. Dalla periferia in cui si è posto ha guardato la complessità del problema e il suo volto meduseo, senza distogliere lo sguardo. Ha testimoniato con la vita e le opere che il nichilismo non è un destino, ma una condizione trasmutabile. Sentiamo l’assenza di uomini dalla passione durevole.

Questo testo è dedicato a Costanzo Preve e a coloro che vogliono accostarsi al problema avendo deciso di non distogliere lo sguardo, di non voler più vivere nell’indifferenza, in un mondo di sole merci.


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Massimo Bontempelli, professore di liceo, è stato filosofo olistico: l’originalità della sua teoretica è nel tenere assieme filosofia, storia e pedagogia, al fine di orientare la paideia sul fondamento veritativo che coniuga l’asse ontologico-assiologico all’azione educativa. Ha avvertito l’incombere plumbeo del nichilismo sul destino dell’Occidente, guardando con gli occhi della mente il dramma in cui è impigliata la cultura occidentale ormai planetaria. Trascendere il nichilismo ha significato per lui interpretarlo, inseguirlo nei meandri della sua genealogia, per sfidarlo, e quindi, ricostruire il percorso verso la verità. La sofferenza teoretica per lo stato presente, si è sublimata in pensiero e pratica educativa. Filosofo dalla passione intellettuale per il presente, con l’impegno rivolto fortemente al futuro, ha teorizzato l’alternativa al nichilismo consumistico dei nostri giorni. Ha rielaborato il pensiero teoretico e po­litico di Hegel mediandolo col pensiero di Marx. Con Hegel ha condiviso l’urgenza della metafisica, senza la quale il soggetto è lasciato alla sua accidentalità e dissolto nel pulviscolo del conflitto economico. Il suo stile filosofico ed educativo ha un significato simbolico e sostanziale: l’essenziale è la parola, veicolo della qualità contro la quantità. Ci ha lasciati eredi non solo della sua attività teoretica, ma della sua esperienza umana vissuta fuori dalla caverna della società dell’immagine e della pornografia mediatica spacciata per trasparenza.

 Questi i temi discussi

Prologo / L’uroboro / Nichilismi / La tirannia del presente: l’isola di Pasqua / Il verme nel nocciolo / Il pensiero debole / Massimo Bontempelli / L’olismo come paradigma irrinunciabile / La bicicletta di Bontempelli / La metafora della caffettiera / Concreto ed astratto / Lo sguardo contro il nichilismo / Destra-Sinistra / Pedagogia della passività / Le categorie della quantità e della qualità / La categoria della quantità e la morte / Modelli metafisici / Il regno dei lupi / La libertà / La derealizzazione / La sussunzione / Il bene / Il narcisismo-derealizzazione / Perché educare? / A scuola di nichilismo / Filosofia e Storia / La storia come necessità / Tempo e memoria / Masssimo Bontempelli / Costanzo Preve / Narcisismo, concretismo e arbitrarismo / Le miserie dell’abbondanza / La metafora della valle / Verità e libertà / “Ex ducere” / Mutazione antropologica / La Storia come asse culturale / Il Gesù di Bontempelli / La società del disprezzo di sé / Bontempelli interprete di Marx / Marx ed Hegel / L’esperienza della decrescita / Umanesimo integrale.

 


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I filosofi ci accompagnano nel tempo della nostra vita, e imprimono svolte creatrici ai concetti che noi stessi formuliamo. Il presente testo è il risultato del tempo trascorso assieme agli scritti di Costanzo Preve, della sua presenza nelle mie riflessioni, del confronto dialettico e dello scontro vivo, alimento continuo e condizione sine qua non, perché emergessero i temi, le problematiche, le riflessioni sull’ordito del mondo storico. L’indugiare assieme con lo sguardo dialettico è la cifra del pensiero vivo, mai schematico o prefabbricato, e questo è realmente comunità. Mi piace ricordare la metafora dello sguardo della civetta con la sua profondità orizzontale e verticale, che tematizza il noto, e consente al reale di diventare razionale. Se tutto ciò manca, il pensiero resta spoglio, e l’essere umano animalizzato, involuto nel suo abbandono etico. Ciò che, invero, può consentire di trascendere tale tragica condizione è una maturazione del pensiero, di quello che si configura, prende forma, in maniera solare, dal caos latente che nutre le nostre azioni.

 

Prologo / Introduzione / Il tempo del gregge / La perversione di Spinoza / Il regno dello spazio-materia uniforme / La religione abramitica della merce / Empatia negativa / Il Sessantotto / Solo materia… / Il “no” che non fu detto / Pedagogismo senza pedagogia / La pedagogia della resistenza contro l’antiumanesimo del pedagogismo / La glebalizzazione della scuola / La scuola aptica / “Sinistra” di governo e globalizzazione / Pensiero cerimoniale e pensiero critico / Linguaggio e globalizzazione / Verstand – Vernunft / Verità – esattezza / La società del niente / PCTO / Formare alla plebe / Organico orientamento / Pensare come una macchina / Coding: la definizione degli esperti / Populismo pedagogico / Formazione alla complessità-difficoltà / Democrazia e formazione / La sussunzione linguistica / Emancipazione / Preside manager / A scuola di politicamente corretto / A scuola di Ponzio Pilato / Automatismi / Dignità del docente / Che cos’è la scuola? / Esodo / Educazione filosofica e filosofia dell’educazione / La scuola come presidio contro l’alienazione / Scuola “senza classi” / L’ontologia dell’essere sociale / Disumanizzare donne e uomini / Post-modernismo nichilista / Esemplificazione e dominio / Femminismo di tradizione / Femminismi / Inclusione / Post-femminismo / Maschile femminile / La compiuta peccaminosità / Capitalismo logofobico / Metafisica e politica / Il tempo includente / Che fare?


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Rileggere Pinocchio è come trovarsi palesate, senza per questo cadere nella disperazione e nel pessimismo, le armi più efficaci che il potere usa per dominare. Le avventure di Pinocchio sono le nostre avventure, sono l’inquietudine che non si rassegna ad una vita anonima, sono l’incessante tensione per uscire dalla “caverna platonica degli inganni”. Pinocchio, sintomo di un mondo disumanizzato, è altresì la vitalità di colui che cerca la guarigione. I processi di identificazione con il burattino favoriscono il riattivarsi di energie critiche, per cui rileggere Pinocchio può significare l’inizio di un processo di emancipazione dalla “banalità del male” in cui siamo immersi, e che spesso rimuoviamo per cedere agli automatismi senza concetto. Il testo di Collodi ci invoca al dialogo, ci sollecita ad affinare lo sguardo nella profondità del buio delle “caverne in cui siamo inconsapevoli prigionieri”. All’antiumanesimo del pessimismo è necessario contrapporre la forza storica della vita, la quale non si lascia prosciugare dal sole nero del potere, ma sa leggere il presente utilizzando le categorie del pensiero, generatrici di possibilità. Solo la parola libera: ne è testimonianza la storia di Pinocchio. Il burattino insegna a bambini e adulti che l’avventura della vita esige partecipazione, che la salvezza è sempre possibile, se si rinuncia ad un individualismo senza storia e bellezza. La maieutica filosofica necessita di simboli che favoriscano il logos. L’opera di Collodi, quindi, si presta ad esse­re un insospettato veicolo di consapevolezza comunitaria.


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La filosofia è una pratica ermeneutica. La ricostruzione genetica della particolare postura filosofica di Costanzo Preve è un’operazione complessa, e certamente esercizio quanto mai laborioso, a causa della copiosa produzione di scritti e dell’ordito di mezzi da lui scelti per portarla a noi. Malgrado tali difficoltà, può senz’altro affermarsi che la filosofia di Costanzo Preve è stata costantemente dialogica, aliena all’innalzamento di sterili palizzate ideologiche, poiché al contrario mirava – facendo leva sulla forza del concetto – a scanalare brecce nelle cinte fortificate di purismi e ideologie rinchiuse in se stesse. È questa una capacità che gli ha consentito di elaborare una sintesi tra tradizioni e filosofi differenti, divergenti, allo scopo di ritrovare un sentiero che conducesse fuori dalla palude del nichilismo. Tale genesi composita fa sì che l’addentrarsi nel suo pensiero sia un’esperienza di “straniamento”, perché egli sa mettere proficuamente in crisi le facili e sterili dicotomie su cui reggono quei poteri sclerotizzati nell’abitudine, assieme a quei pregiudizi ideologici che favoriscono il consolidamento dei totalitarismi ideali, siano questi confessi e riconosciuti o meno.


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La comunità è linguaggio, e senza lingua viva non vi è politica. Il conflitto politico è in tal senso dialettica generativa, crea nuovi linguaggi e struttura significati condivisi. Identità e saperi sono a loro volta codici, che si commisurano, integrano e completano l’un l’altro. Infine, l’Umanesimo è il filo d’Arianna linguistico dell’ingegno, sulla scorta del quale l’umanità dà forma alle pratiche della vita. Il regredire dei linguaggi e l’agorafobia per tale generatività connotano la fase apicale del capitalismo: la parola si ritrae, e da momento aurorale dello spirito degrada a semplice trasmissione dati. Il linguaggio è storia, poiché presenta concetti che rompono l’ossificazione dei saperi.

Al contrario la trasmissione dati è la negazione stessa della storia, poiché il dato economico è mera conferma del sistema e rifugge l’autentico, in una fobia della generazione di senso. Il dispositivo del potere lavora a neutralizzare la volontà veritativa dei saperi, per sostituirla con una coazione a ripetere dati. Svanendo una riflessione condivisa sul “ben vivere”, l’essere umano regredisce, e diventa più simile ad animali di altre specie, dotati della voce ma non del logos. Per emanciparsi dall’oblio della parola, occorre sottrarsi alla negazione del linguaggio, tallonando il dispositivo di dominio nella sua opposizione quotidiana ai linguaggi e contrastando la microfisica della guerra mossa al logos.


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Perché la Metafisica, e con essa la filosofia, sembrano scomparse dall’ordine del discorso? È questo il sintomo di una patologia cha attraversa il corpo sociale. La Metafisica pone al centro l’essere umano e la complessità concettuale e ambientale da cui emerge. Resecare la Metafisica significa porre la merce al centro e con essa lo scientismo con il quale l’economicismo trionfa. L’essere umano, addestrato al mero specialismo, non sa più porre in relazione le parti: la realtà così diviene irrazionale. La Metafisica strappa l’essere umano dalla passività: lo emancipa dal giogo delle passioni tristi. Insegna a correlare: solo dalla relazione può emergere il senso delle parti. La tempesta dell’irrazionale non lo abbatte, poiché media con il logos la realtà sociale e storica, ne scorge le contraddizioni, condizione prima per poter ridiventare attore della storia. La Metafisica insegna a guardare ciò che la quantificazione occulta, ricostruisce genea-logie e genetiche. L’irrazionale non è subìto, ma è riconfigurato con la categoria della totalità. Dove regna la separazione, il dominio trionfa. La Metafisica svela e rileva i processi di ipostatizzazione dell’economia e dello scientismo.


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Il nichilismo è crisi dell’immaginazione e della fantasia etica. Auschwitz non era solo un luogo di concentramento di assassini e di assassinati, ma un’immensa macchina atta a lavorare e a trasformare la materia. Anders descrive tale crisi scorrendo in parallelo le biografie contrapposte di A. Eichmann e C. Eatherly. Il primo rinuncia all’immaginazione etica, diviene adattivo con convinzione, abdica alla relazione con l’altro e con la storia. Come l’ultimo uomo descritto da Nietzsche, è manager dello sterminio, ed è l’emblema del modo in cui la tecnocrazia plasmi uomini deprivati di una grammatica interiore. Il secondo, invece, è testimonianza viva, per un verso, della capacità della mega-macchina tecnocratica di manipolare corpi, di calare una cortina di ignoranza presentandola come la verità, ma per un altro anche del fatto che l’essere umano conserva sempre un nucleo metafisico indistruttibile: il lògos. Il pensiero è immaginazione razionale, rottura della foschia opprimente del politicamente corretto, e consente un accesso a una rielaborazione della storia e una riapertura dei suoi chiavistelli. Eatherly trasforma la propria partecipazione al bombardamento atomico di Hiroshima in prassi politica ed etica: uomo dotato di immaginazione e fantasia etica, costui palesa la capacità umana di fuoriuscire dalla tagliola del sistema, di rischiare un nuovo inizio. La crisi nichilistica dell’immaginazione induce Anders ad elaborare vie di fuga dalla crisi metafisica che attanaglia l’Occidente, attestandosi su un livello etico all’altezza della crisi storica in cui siamo situati. A questo autore non è mai stato perdonato l’aver alzato il velo dell’ignoranza sul bombardamento atomico: chi ha l’immaginazione cui si accennava non dispone su variegate gerarchie le diverse vittime dei diversi totalitarismi, perché ogni essere umano incenerito dalla violenza totalitaria non può che indurci a una prassi di indignazione, conditio sine qua non per qualsiasi progettualità comunitaria.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Mario Vegetti – «L’io, l’anima, il soggetto». Se la crisi del soggetto moderno non sembra aver scalfito più che tanto un senso comune depositato e robustamente consolidato nella teoria aristotelica, l’uno e l’altra tornano a evocare, per contrasto, il vecchio e a più riprese sconfitto avversario platonico.

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Maurizio Migliori – «L’interiorità in Platone». Prefazione di G. Capasso, F. Eustacchi, A. Fermani, L. Palpacelli, F. Piangerelli: «Al nostro maestro. Reciprocità di un dono: vivere una vita degna di un essere umano».

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Ernst Casssirer – Il metodo di Platone non contempla alcuna “visione estatica”. La via platonica che conduce alla verità va cercata e protetta attraverso un paziente lavoro della mente umana, attraverso un lento e continuo progresso di pensiero da realizzare alla luce e sotto il controllo della ragione, e va raggiunta e conquistata attraverso un paziente e assiduo lavoro che abitui la ragione umana alla vista della verità.


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Giovanni Casertano – È possibile raggiungere la verità; ma bisogna conservare sempre la coscienza che, una volta raggiunta, essa non deve diventare soddisfazione acquietante, vano orgoglio, presunzione di sapienza, ma sempre stimolo a migliorarla, a perfezionarla, ad ampliarla, anche a cambiarla, nel costante dialogo con quegli altri uomini disposti a cercarla, a trovarla, a viverla.

Indice

 

Introduzione

Capitolo 1 – La verità senza le idee

1.1. Dove si dice che la verità, come Socrate, è zotica e ostinata

1.2. Qui ci si accorge che dire la verità è cosa diversa dal persuadere

1.3. Se gli dèi dicono sempre la verità, sono gli uomini a dimostrarla

1.4. Qui si scopre che il senso di un discorso non è nelle parole che esso usa

1.5. Dove si intravvede la difficoltà di invocare i fatti contro le parole, e si afferma che trovare la verità è questione di metodo

1.6. Dove si stabilisce la differenza tra dire il falso e mentire, e si scopre che la menzogna ha anche un risvolto politico

Capitolo 2 – La verità e i discorsi che la fondano

2.1. Dove si afferma che la verità ha poco a che vedere con le sensazioni corporee

2.2. Dove si scopre che la verità è comunque sempre legata all’opinione

2.2.1. Dove si afferma che l’importante non è solo avere una verità, ma credervi e testimoniarla

2.3. Dove si dice che la verità è l’orizzonte dei discorsi che la cercano

Capitolo 3 – Gli ambigui meccanismi della persuasione

3.1. Dove si scopre che la persuasione è propria della retorica ingannatrice, ma che anche la scienza non ne può fare a meno

3.2. Dove si scopre che si può discutere senza comunicare

3.3. Qui accade che quando Socrate ritiene di dire la verità, non convince nessuno

3.4. Dove si dice che per convincere qualcuno bisogna essergli amico,

3.5. … non solo, ma bisogna anche avere le sue stesse passioni

3.6. Qui si afferma che la verità è inconfutabile, è liberatoria, è bene comune e nutrimento dell’anima, ma non si dice “che cosa” essa è

3.7. Qui si scopre che i fatti non dimostrano nulla, perché ciò che conta è l’interpretazione dei fatti

3.8. Dove si scopre che ciascun interlocutore afferma la verità della sua opinione e non convince l’altro, né da lui è convinto: perché, in effetti …

3.9 …. la verità non è solo questione di logica, ma principalmente di scelta di vita

Capitolo 4 – Conoscere la verità o essere convinti della verità?

4.1. Dove si dice che la verità deve apparire anche verosimile, se vuole persuadere: e allora Socrate inventa un mito

4.2. Qui la verità si destreggia tra il senso delle cose, il senso del mito, e il ragionamento rigoroso

4.3. Dove si afferma che amore della conoscenza, esperienza e tecnica dialettica caratterizzano non il sapiente, ma il filosofo

4.4. Dove ci si chiede quale verità possiedono le convinzioni di colui che crede di conoscere la verità

Capitolo 5 – Linguaggio, discorso e verità

5.1. Qui si stabilisce una differenza tra giustizia e verità e tra orizzonte logico e orizzonte etico

5.2. Qui si delinea il problema di chi possa usare la menzogna utile, e perché; e si parla di derubati, di ammaliati e di violentati

5.3. Qui si apre al problema tra dimensione privata e dimensione pubblica della verità, …

5.4 …. e si parla della caverna e delle diverse verità che l’uomo incontra nel suo viaggio

5.5. Dove si opera una distinzione tra opinione vera e scienza, ma principalmente rispetto al bene

5.6. Dove si stabilisce il difficile rapporto tra dolori veri e piaceri (a volte) veri, tra opinioni (a volte) false e esperienza della verità

Capitolo 6 – Nome, immagine, discorso e verità

6.1. Qui appaiono due personaggi sconosciuti, e Socrate fa ammettere loro che, se un nome è vero, lo è perché fa parte di un discorso vero

6.2. Qui si sostiene che degli dèi non si sa nulla, e si inventa un costruttore di nomi

6.3. Qui Socrate dimostra che è ridicolo pensare che con un’indagine sui nomi si possa giungere alla verità

6.4 …. ma sostiene che è possibile tentare una scienza del discorso,

6.5 . … cioè una scienza dell’uso del linguaggio e dei nomi, cioè della comunicazione

Capitolo 7 – L’anima, la scienza, l’opinione e la verità

7.1. Dove Socrate affila (e trucca) le sue armi per confutare Protagora

7.2. Qui si afferma una continuità tra sensazione e ragionamento, e si dice che solo l’analogia ci permette di toccare la verità

7.3. Dove si scopre ancora che la verità è fondamentalmente uso di un metodo corretto e impegno di vita

Capitolo 8 – Verità è realtà

8.1. Dove si scopre che essere e non essere sono inseparabili

8.2. Qui uno Straniero di Elea confessa di non aver ucciso il padre Parmenide, ma solo di aver fatto progredire il suo discorso

8.3. Dove si dimostra che (una) verità è solo all’interno di un discorso che ne dichiara senso e relazioni

Capitolo 9 I piaceri, il bene, le opinioni e la verità

9.1. Dove Socrate riafferma la centralità del dialogo e dell’accordo a proposito della questione della verità, . ..

9.2. ... ribadendo che il bene e la felicità sono strettamente legati all’amore per la ricerca e per la verità

9.3. Qui Socrate afferma che anche i piaceri, come le opinioni, possono essere veri o falsi

9.4. Qui si parla di uno scrivano e di un pittore che alloggiano nelle nostre anime e che fanno qualche confusione tra vero, falso, buono e cattivo

9.5. E infine, continuando a parlare un po’ ambiguamente dei piaceri falsi, Socrate riafferma in effetti il primato della nostra facoltà di amare il vero

Capitolo 10 – La verità tra ricordi, aspettative e discorso sul tempo

10.1. Qui Solone racconta i miti dell’incendio del mondo e del diluvio universale; e il sacerdote egiziano gli obietta che racconta favole e non verità

10.2. Qui Crizia ricostruisce con la memoria un discorso vero, servendosi dei miti di Solone e di Socrate

10.3. Dove si vede che i discorsi sono imparentati con le cose, e si accenna a un’immagine mobile dell’eterno

10.4. Qui si parla delle parti, delle idee e dei numeri del tempo

10.5. Qui si stabilisce che il nostro discorso metodologico e razionale è vero, e il nostro discorso sulle esperienze è verosimile

Capitolo 11 – Verità, giustizia e vita

11.1. Dove si vede che l’uomo non sa la verità, ma può avere opinioni vere: e quando ciò accade, è la verità a impadronirsi di lui, e non viceversa

11.2. Qui, riaffermando il legame tra verità e giustizia, si parla di come bisogna mentire menzogne, e incantare per persuadere gli uomini a vivere con giustizia: perché questa è la verità più vera

Riferimenti bibliografici


Introduzione

È facile cedere ad una immagine di Platone che viaggia dall’antichità ad oggi, all’immagine cioè di una filosofia che stabilisce nettamente i confini e l’opposizione tra corpo e anima, tra sensi e ragione, tra cose e idee, tra opinione e conoscenza. Tra vero e falso. Ma bisogna resistere, anche, anzi principalmente, perché una lettura diretta e senza preconcetti della pagina platonica, inserita volta a volta nel singolo contesto di ogni singolo dialogo, non conferma mai quell’immagine.

Anche la verità platonica non è quella che vive in un ipotetico mondo delle idee, separato da ogni possibile contatto col mondo concreto e reale, così come l’amore platonico, il proposito platonico, e tutto ciò che, ancora oggi, qualifichiamo con quell’aggettivo, con l’esplicito proposito di individuarlo in termini di pura velleitarietà, inconcludenza, astrattezza.

La verità platonica ha a che fare esattamente col nostro mondo di incertezze, inquietudini, errori, fallimenti, ma anche col nostro mondo di relative certezze, di aspettative, di volontà di cambiamento; in una parola, col nostro concreto vivere in un mondo reale, col nostro concreto atteggiarci nelle molteplici prospettive entro le quali lo viviamo.

In questo studio mi sono proposto di inseguire l’idea della verità in tutti i dialoghi di Platone. E mi sembra, in primo luogo, di non aver mai trovato una definizione che dica “che cosa è” la verità. Se una delle caratteristiche della filosofia platonica, nel suo riallacciarsi, esplicitamente e drammaticamente rappresentato, a quella socratica, è appunto quella di cercare e di individuare il “che cosa è” di ogni cosa e di ogni idea, potrebbe sembrare strano non imbattersi mai in una definizione della verità.

Eppure, se riflettiamo a fondo sul testo platonico, questo fatto non è strano. Perché, in secondo luogo, scopriamo di essere sempre di fronte non alla verità, ma ad una serie di verità che si presentano nel vivo contesto del dialogare platonico. O meglio: siamo di fronte ad una complessità di caratteristiche diverse che connotano la nozione, o l’idea, di verità. Che si presenta, quindi, in maniera diversa a seconda dell’angolo prospettico dal quale guardiamo ad essa. Ed avremo allora una verità logica o gnoseologica, che si presenta nel “discorso vero”, questo sì definito da Platone, perché il discorso, quando condotto con metodo rigoroso (e il metodo corretto è, con Parmenide, una verità), e non il mito, né l’intuizione sovrarazionale, è l’unico strumento che l’uomo possiede per cercare la verità. Avremo una serie di caratteristiche della verità, come la sua necessità logica, la sua inconfutabilità, la sua universalità, anche la sua “scomodità”, che la inquadrano però solo formalmente, senza mai dirci “che cosa” essa è. E poi avremo, e principalmente, la sua caratteristica più importante, che è quella di contrapporsi alla falsità.

Ma qui il discorso platonico già si complica. Perché, se da un punto di vista logico c’è, e non ci può non essere, una netta contrapposizione tra vero e falso, questa contrapposizione si sfuma poi fino a perdere i suoi contorni. E questo avviene quando la verità si relaziona all’utilità: allora anche la menzogna può essere nobile, utile; e «mentire una menzogna», secondo la bellissima espressione delle Leggi, è esattamente la stessa cosa che dire la più pura delle verità. Perché, ed è fondamentale ricordarlo, quando Platone parla dell’utilità della verità (e quindi della menzogna), non si riferisce mai al “particulare” del singolo uomo, umile o potente che sia, ma ad un benessere di tutti gli uomini, della società umana nella sua interezza.

Dimensione quindi sociale, o politica, della verità: anche nel suo rapporto con la giustizia, la verità appare con una serie di sfaccettature difficilmente riassumibili in una formula. Anche perché legata ad una tra le più grandi affermazioni apparentemente paradossali di Platone, e cioè che l’uomo giusto e veritiero è sempre felice, e l’uomo ingiusto e falso è sempre infelice. Paradossale, perché va contro quella che è, da Platone ad oggi, l’opinione più largamente diffusa, e non solo tra le masse; apparentemente paradossale, perché il suo valore rivoluzionario risiede proprio nel non essere la piatta osservazione di quel che accade, bensì la rivendicazione di una serietà e di una vita altre rispetto alle tragedie dell’oggi.

Senso logico, senso politico, senso etico della verità. Quel senso che, se da un lato poteva essere identificato, per l’uomo che vive nella verità, nel condurre con giustizia la propria vita, ci viene presentato da Platone in tutta la complessità, e la tragicità, del concreto vivere degli uomini. Perché se c’è un pensatore antimetafisico, alieno dal parlare in astratto e con quei tremendi paraocchi costituiti dalle generalizzazioni facili e comode, attento sempre alla “dualità” ineliminabile che caratterizza l’uomo, fatto di mente e di corpo, inseparabili, questi è proprio Platone.

E qui si apre tutto quel campo complicato che è costituito, appunto, dai rapporti tra la verità e le opinioni e le passioni dell’uomo. Con una serie raffinatissima di riflessioni, Platone ci conduce ad indagare, nella diversità dei contesti dialogici attraverso i quali costruisce la sua filosofia, le sottili differenze che intercorrono tra il credere ad una verità, l’essere convinti di una verità, ed il sapere una verità, il conoscere una verità; come a dire tra dimensione psicologica e dimensione gnoseologica nel possesso di una verità. E quindi sulla differenza tra opinione (anche quando essa è, o appare, vera) e conoscenza. E quindi sul difficilissimo rapporto che si stringe sempre tra le verità che proclamiamo e le nostre passioni, i nostri sentimenti, le nostre aspettative. Sui quali basiamo anche, quando le abbiamo, le nostre capacità di persuadere gli altri: persuasione-verità è infatti un rapporto molto delicato, e che può assumere volta a volta, a seconda di come e con che fine ce lo giochiamo, risvolti negativi o risvolti positivi.

E poi c’è l’aspetto discorsivo, dialettico, della verità. Questa abita infatti solo ed esclusivamente nei discorsi che la annunciano; ed anche quando, per fini retorici o didascalici, Platone parla di una «verità dei fatti, delle cose, in se stessi» per contrapporla ad una verità solo apparente, quale viene fatta rilucere nelle parole degli imbonitori, dei maghi, o semplicemente dei furfanti, il discorso rimane il solo e l’unico palcoscenico sul quale si rappresenta la vita della verità. Il discorso, cioè il dialogo: nel quale le opinioni si scontrano, si confutano, ma possono trovare anche punti di convergenza, modificarsi, migliorarsi. Purché, ed è fatto che Platone non manca di sottolineare con forza, il discorso e il dialogo si svolgano tra uomini che sinceramente amano la verità, vogliono la verità, tendono alla verità, e non «commettono ingiustizia nei loro discorsi», come vuole un’altra bellissima espressione platonica.

Ma, in effetti, e più profondamente, non è strano non trovare una definizione della verità in Platone. Perché la verità, come si dice più volte nei dialoghi, è questione di dèi, e non di uomini. Appartiene agli dèi e ai sapienti. E gli uomini, dopo le grandi e un po’ mitiche figure degli antichi, antichi già per Platone, ormai non possono più essere sapienti. Ma possono diventare “filosofi”, figure certo più modeste di dèi e sapienti, ma con qualcosa in più: l’amore per la sapienza e la verità, che, quando conquista le loro anime, per dirla con l’Alcibiade del Simposio, le colpisce e le attanaglia con morsi più selvaggi di quelli di una vipera. E l’amore per la sapienza e per la verità deve costituire sempre la passione dominante degli uomini filosofi: dire che la verità è solo degli dèi e non degli uomini non significa rinunciare alla verità; al contrario, impegna l’uomo che la sceglie come l’orizzonte della propria vita a perseguirla sempre, a conquistarla. Perché è possibile raggiungerla; ma bisogna conservare sempre la coscienza che, una volta raggiunta, essa non deve diventare soddisfazione acquietante, vano orgoglio, presunzione di sapienza, ma sempre stimolo a migliorarla, a perfezionarla, ad ampliarla, anche a cambiarla, nel costante dialogo con quegli altri uomini disposti a cercarla, a trovarla, a viverla.

Giovanni Casertano, Paradigmi della verità in Platone, Editori Riuniti – University Press, Roma 2007, pp. 10-13.



M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Arianna Fermani – «Equità e giustizia dal volto umano. Aristotele tra nomos e phronesis». La radice ontologica della philia è anche la radice ontologica della giustizia. Chi ha bisogno di giustizia è anche capace di philia, e chi vive di philia non tollera l’ingiustizia. Giustizia e philia rappresentano ciascuno la misura dell’altro: la giustizia è infatti la misura della philia, e la philia è la pietra angolare della libera comunità umana.

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M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Aristotele (384-322 a.C.) – La mano di Aristotele: più intelligente dev’essere colui che sa opportunamente servirsi del maggior numero di strumenti; la mano costituisce non uno ma più strumenti, è uno strumento preposto ad altri strumenti.

Aristotele - La mano

s-l225

«La specializzazione della mano significa lo strumento:
e strumento significa l’attività umana specifica.
La mano dell'uomo è altamente perfezionata
dal lavoro di centinaia di migliaia di anni...
Nessuna mano di scimmia ha mai prodotto il più rozzo coltello di pietra...
La mano dell'uomo ha raggiunto quell'alto grado di perfezione...
solo attraverso il lavoro...
E l’uomo ha fatto tutto ciò, innanzitutto ed essenzialmente,
per mezzo della mano».

F. Engels,
Dialettica della natura,
Editori Riuniti, Roma, 19713, pagg. 49-50

«Anassagora afferma che l’uomo è il più intelligente degli animali grazie all’aver mani; è invece ragionevole dire che ha ottenuto le mani perché è il più intelligente. Le mani sono infatti uno strumento, e la natura, come farebbe una persona intelligente, attribuisce sempre ciascuno di essi a chi può servirsene; giacché è più conveniente dare flauti a chi è già flautista, che non attribuire l’arte del flauto a chi possiede flauti. La natura attribuisce ciò che è minore a ciò che è maggiore e più importante, non il più nobile e il maggiore al minore. Se dunque questa è la via migliore, e la natura nel campo delle possibilità realizza quella migliore, allora non è che l’uomo sia il più intelligente grazie alle mani, ma ha le mani grazie all’esser il più intelligente degli animali. E il più intelligente dev’essere colui che sa opportunamente servirsi del maggior numero di strumenti; ora la mano sembra costituire non uno ma più strumenti: in un certo senso essa è uno strumento preposto ad altri strumenti. A colui dunque che è in grado di impadronirsi del maggior numero di tecniche la natura ha dato, con la mano, lo strumento in grado di utilizzare il più gran numero di altri strumenti.
Quanto a coloro che sostengono che l’uomo non è costituito bene, anzi peggio di tutti gli altri animali (dicono infatti che non ha protezione per i piedi, è nudo e sprovvisto di armi da combattimento), il loro discorso non è corretto. Gli altri animali hanno un solo mezzo di difesa, e non è loro concesso di sostituirlo con un altro, anzi devono dormire e fare qualsiasi altra cosa tenendo sempre, per cosÌ dire, le scarpe ai piedi, cioè senza deporre la corazza che hanno sul corpo, né possono cambiare l’arma che gli è toccata in sorte.
All’uomo, invece, sono concessi molti mezzi di difesa, ed egli può sempre mutarli, adottando inoltre l’arma che vuole e quando la vuole. La mano infatti può diventare artiglio, chela, corno, o anche lancia, spada e ogni altra arma o strumento: tutto ciò può essere perché tutto può afferrare e impugnare.
Anche la forma della mano è stata dalla natura congegnata in questo senso. Essa è articolabile e divisa in più parti, perché nella divisione è implicita anche la capacità di coesione, mentre la prima non è implicita nella seconda. Ed è possibile servirsene come di un sol organo, di due o di molti»

Aristotele,
Opere biologiche, Le parti degli animali, Libro IV, 687a-687b,
a cura di Diego Lanza e Mario Vegetti
Utet, 1971, pp. 710-711.


 

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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