Aristotele (384-322 a.C.) – Diventiamo giusti facendo ciò che è giusto. Nessuno che vuol diventare buono lo diventerà senza fare cose buone. Il fine deve essere ipotizzato come un inizio perché il fine è l’inizio del pensiero, e il completamento del pensiero è l’inizio di azione. ⇒ Una Trilogia su Aristotele: «Sistema e sistematicità in Aristotele». «Immanenza e trascendenza in Aristotele». «Teoria e prassi in Aristotele».

Aristotele 007

«[…] diventiamo giusti facendo ciò che è giusto» (Etica Nicomachea, 1103a37).

 

«[…] è bene dire che è dal fare ciò che è giusto o temperato che un essere umano diventa rispettivamente giusto o temperante; e nessuno che deve diventare buono lo diventerà senza fare cose buone. Eppure la maggior parte degli esseri umani non fa così, ricorrono invece al parlare (λóγoν) di tali cose e pensano di stare filosofando e che facendo così diventano eccellenti, comportantandosi insomma un po’ come i pazienti che ascoltano i loro medici con attenzione, ma non fanno nulla di quello che gli vien loro prescritto. E proprio come questi pazienti non curano il proprio corpo comportandosi in questo modo, così coloro che filosofano in questo modo non miglioreranno la loro anima» (Etica Nicomachea, 1105b5-18).

 

«[…] il fine deve essere ipotizzato come un inizio […] il fine è l’inizio del pensiero (νοησεως αρχη), il completamento (τελευτη) del pensiero è l’inizio di azione» (Etica Eudemia, 1227b23-34).

Aristotele

Trilogia AristoteleGiampaolo Abbate – Claudia Baracchi – Enrico Berti- Barbara Botter
Matteo Cosci – Annabella d’Atri – Andrea Falcon – Silvia Fazzo
Arianna Fermani – Silvia Gastaldi – Giovanna R. Giardina
Luca Grecchi – Silvia Gullino – Alberto Jori – Giulio A. Lucchetta
Lucia Palpacelli – Diana Quarantotto – Luigi Ruggiu – Monica Ugaglia
Mario Vegetti – Carmelo Vigna – Marcello Zanatta

 

Logo-Adobe-Acrobat-300x293   Brochure per la Trilogia su Aristotele (pp. 32)   Logo-Adobe-Acrobat-300x293

 


Prometeo legato alla colonna con Atlante che regge il cielo, VI a.C. colore***

 

260 ISBN

Claudia Baracchi, Enrico Berti, Barbara Botter, Matteo Cosci, Silvia Fazzo, Arianna Fermani, Giovanna R. Giardina, Carmelo Vigna, Marcello Zanatta

indicepresentazioneautoresintesi


282 ISBN

Giampaolo Abbate, Claudia Baracchi, Enrico Berti, Barbara Botter, Matteo Cosci, Annabella D’Atri, Andrea Falcon, Arianna Fermani, Luca Grecchi, Alberto Jori, Diana Quarantotto, Monica Ugaglia, Carmelo Vigna, Marcello Zanatta

indicepresentazioneautoresintesi

 


311 ISBNindicepresentazioneautoresintesi

Claudia Baracchi, Enrico Berti, Arianna Fermani, Silvia Gastaldi, Luca Grecchi, Silvia Gullino, Alberto Jori, Giulio A. Lucchetta, Lucia Palpacelli, Luigi Ruggiu, Mario Vegetti, Carmelo Vigna, Marcello Zanatta

 


Aristotele – Questa è la vita secondo intelletto: vivere secondo la parte più nobile che è in noi

Aristotele (384-322 a.C.) – La «crematistica»: la polis e la logica del profitto. Il commercio è un’arte più scaltrita per realizzare un profitto maggiore. Il denaro è l’oggetto del commercio e della crematistica. Ma il denaro è una mera convenzione, priva di valore naturale.

Aristotele (384-322 a.C.) – La mano di Aristotele: più intelligente dev’essere colui che sa opportunamente servirsi del maggior numero di strumenti; la mano costituisce non uno ma più strumenti, è uno strumento preposto ad altri strumenti.

Aristotele (384-322 a.C.) – Da ciascun seme non si forma a caso una creatura qualunque. La nascita viene dal seme.

Aristotele (384-322 a.C.) – In tutte le cose naturali si trova qualcosa di meraviglioso.

Aristotele (384-322 a.C.) – Se l’intelletto costituisce qualcosa di divino rispetto all’essere umano, anche la vita secondo l’intelletto sarà divina rispetto alla vita umana. Per quanto è possibile, ci si deve immortalare e fare di tutto per vivere secondo la parte migliore che è in noi

 


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Eschilo (525-456 a.C.) – «È bello anche da vecchio imparare la saggezza».

 

 

 

«È bello anche da vecchio

imparare la saggezza»

 

Eschilo, Frammento 282 (=396 N; 674 M)

 

 

I. Repin, Ritratto di Tolstoj, 1887

I. Repin, Ritratto di Tolstoj, 1887

 


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Eschilo (525-456 a.C.) – «Specchio dell’immagine è il bronzo, ma il vino lo è della mente».

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Vino eschilo

Uomini che fanno il vino, dettaglio della pittura murale egizia della XVIII dinastia (XVI – XIV secolo a.C.), tomba di Nakht, Tebe

Uomini che fanno il vino, dettaglio della pittura murale egizia della XVIII dinastia (XVI – XIV secolo a.C.), tomba di Nakht, Tebe.

«Specchio dell’immagine è il bronzo,

ma il vino lo è della mente»

 

Eschilo, Frammento 279 (=393 N; 670 M)

 

 

Jan van Bijlert (1598-1671), Giovane che beve un bicchiere di vino, 1635-1640 olio su tela, Collezione privata

Jan van Bijlert (1598-1671), Giovane che beve un bicchiere di vino, 1635-1640 olio su tela, Collezione privata.

 

Giacomo Ceruti, detto Pitocchetto (1698-1767), Gli spillatori di vino, olio su tela, 117 x 151 cm. Collezione privata

Giacomo Ceruti, detto Pitocchetto (1698-1767), Gli spillatori di vino, olio su tela, 117 x 151 cm. Collezione privata.

 

Jan Vermeer (1632 – 1675), Il bicchiere di vino, 1659 – 1660 circa, olio su tela (Gemäldegalerie, Berlino)

Jan Vermeer (1632 – 1675), Il bicchiere di vino, 1659 – 1660 circa, olio su tela (Berlino).

Paul Cézanne (1839-1906), Il bevitore, 1891 olio su tela, The Barnes Foundation (United States)

Paul Cézanne (1839-1906), Il bevitore, 1891 olio su tela, The Barnes Foundation (United States).

Henri de Toulouse-Lautrec (1864 – 1901), Postumi di sbornia (Suzanne Valadon), 1887 – 1889, olio su tela (Cambridge, MA, Harvard Art Museums, Fogg Art Museums)

Henri de Toulouse-Lautrec (1864 – 1901), Postumi di sbornia (Suzanne Valadon), 1887 – 1889, olio su tela (Cambridge, MA, Harvard Art Museums, Fogg Art Museums).

Edouard Manet (1832 – 1883), Bar delle Folies-Bergère, 1881 – 1882, olio su tela (Londra, Courtauld Institute Galleries)

Edouard Manet (1832 – 1883), Bar delle Folies-Bergère, 1881 – 1882, olio su tela (Londra, Courtauld Institute Galleries)

Edvard Munch (1863 – 1944), Il giorno dopo, 1894 – 1895, olio su tela (Oslo, Nasjonalgalleriet)

Edvard Munch (1863 – 1944), Il giorno dopo, 1894 – 1895, olio su tela (Oslo, Nasjonalgalleriet).

Joan Miró (1893-1983), La bottiglia di vino, 1924, Fondacion Joan Mirò, Barcellona

Joan Miró (1893-1983), La bottiglia di vino, 1924, Fondacion Joan Mirò, Barcellona.

 


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Silvia Vegetti Finzi – Senza rischi non si cresce e i bambini hanno bisogno di incontrare l’imprevisto. I bambini possono aiutarsi, consolarsi e diventare grandi utilizzando le loro potenzialità, le loro risorse. Sono ancora privi di esperienza, è vero, ma la vita s’impara solo vivendo.

Silvia Vegetti Finzi 01

Pensa a Itaca sempre
il tuo destino ti ci porterà
[…] Non sperare ti giungano ricchezze:
il regalo di Itaca è il bel viaggio
senza di lei non lo avresti intrapreso.
Di più non ha da dirti.
E se ti appare povera all’arrivo
non t’ha ingannato.
Carico di Saggezza e di esperienza
avrai capito un’Itaca cos’é.

Kostantinos Kavafis

 

Una bambina senza stella

Una bambina senza stella

Silvia Vegetti Finzi

Una bambina senza stella

Le risorse segrete dell’infanzia per superare le difficoltà della vita

Rizzoli, 2015, pp. 229.

 

“I bambini possono aiutarsi, consolarsi e diventare grandi utilizzando le loro potenzialità, le loro risorse. Sono ancora privi di esperienza, è vero, ma la vita s’impara solo vivendo”.

 

Risvolto di copertina

Chi è la bambina senza stella? Una bambina, in cui si cela l’autrice, sfortunata, ma non troppo. Seguendo il filo dei suoi ricordi, sedotto da una scrittura suggestiva e poetica, il lettore porrà ritrovare, per consonanza, tratti perduti della propria infanzia, là dove risiede il cuore pulsante della vita e la parte più autentica di sé.

Cresciuta, come molti altri, negli anni tragici del fascismo, della guerra e delle persecuzioni razziali, che la coinvolgono in quanto nata da padre ebreo, la bambina ne uscirà intatta avendo preservato la magia dell’infanzia e la voglia di crescere. Le sue vicende, rievocate con sorprendenti flash della memoria e puntualmente commentate da una riflessione competente e partecipe, svelano le sofferenze dei bambini, spesso colpiti dai traumi della separazione, dell’indifferenza e del disamore. E il dolore infantile non cade mai in prescrizione.

Negli squarci di un passato che non passa possiamo cogliere però, con l’evidenza della vita vissuta, anche le meravigliose risorse con le quali l’infanzia può attraversare le difficoltà della vita: il gioco, la fantasia, la creatività e l’ironia. Risorse che, attualmente, un’educazione ansiosa e iperprotettiva rischia di soffocare.

Ed è con la forza del pensiero, della scrittura e della testimonianza che questo libro si propone di rassicurare i genitori che i loro figli ce la possono fare, ce la faranno, se riusciranno a realizzare, mettendosi alla prova, le loro potenzialità.

E la vita s’impara, non solo vivendo, ma anche raccontandola in una trama che, intessendo passato e futuro, dona senso e valore alla casualità del destino.


Alcuni appunti di lettura

 

«È con meraviglia che la bambina si apre alla realtà circostante» (p. 21).

«Accade che i bambini, sfogliando i primi libri, ne traggano un’impressione così intensa da imprimersi per sempre nella memoria» (p. 27).

«Il corpo si conosce solo vivendolo, mettendolo alla prova. Non si cresce senza esporsi a qualche ragionevole rischio» (p. 32).

«I nostri bambini crescono nella società del troppo. Il superfluo toglie valore alle cose riducendole a oggetti interscambiabili e insignificanti» (p. 36).

«Nessuno basta a se stesso. Si esiste sempre per qualcuno con cui si intreccia un dialogo che anima il pensiero. Anche quando quel “qualcuno” non ci sarà più» (42).

«Nessuno si salva da sé» (p. 51).

«L’inganno derealizza il mondo e destabilizza il senso di sé …» (57).

«I bambini prima di parlare sono parlati, investiti dalle espressioni che gli adulti rivolgono loro …» (p. 86).

«La solitudine è un sentimento complesso, intermittente, che si declina in vari modi a seconda delle circostanze della vita. In certi momenti si confonde con l’isolamento, in altri con l’abbandono, in altri ancora con lo spaesamento nel tempo, nello spazio. Ma esiste anche una solitudine felice, desiderata, ricercata per ritrovare se stessi e incontrare le proprie immagini interiori» (p. 103).

«Il tempo della memoria non è lineare. La sua catena è composta di segmenti che solo a posteriori vengono connessi nella narrazione e inseriti nella cornice della storia» (p. 134).

«Il malessere dei bambini risulta più opprimente di quello degli adulti perché non hanno la minima idea di quando finirà» (p. 146).

«[…] senza rischi non si cresce e i bambini hanno bisogno di incontrare l’imprevisto per attivare processi di adattamento. […] Se impediamo ai bambini di entrare nel mondo reale, si confronteranno con quello virtuale, spesso più ingannevole e pericoloso» (189).

«[…] l’evoluzione della mente non si accompagna necessariamente a quella del corpo e può accadere che le gambe rincorrano i pensieri» (p. 193).

«[…] comprende, con un intimo sentire, che d’ora in poi i confini della sua vita saranno più ampi e più alti. È il miracolo della bellezza che, se colta, può salvare il mondo» (p. 205).

«In mancanza di un positivo contesto di riferimento, come sottrarsi agli stereotipi che ingabbiano l’infanzia? Come trasformare l’identità ricevuta passivamente in identità modellata creativamente, secondo un orizzonte di valori e uno stile di vita personali?» (p. 212).

«È raro che un educatore sospenda la percezione immediata di un allievo e si lasci sorprendere. Spesso trova più comodo inserirlo in un casellario già predisposto […]» (p. 224).

Una bambina senza stella copia

 


Alcuni libri

di Silvia Vegetti Finzi

 

I bambini sono cambiati

I bambini sono cambiati. La psicologia dei bambini dai cinque ai dieci anni

I bambini di oggi sono cambiati. Crescono sempre più in fretta. A sette, otto anni sono già informati, riflessivi, attenti alle novità, ma anche esigenti e caparbi, spesso soli e privi di vere risposte. Come vivono veramente gli anni brevi e sfuggenti che li separano dall’adolescenza, e soprattutto come possono essere aiutati ad affrontare la vita che si apre loro davanti? Questo libro, scritto in forma di dialogo e rivolto a tutti coloro che hanno a che fare con i bambini, propone una prima analisi del problema, una lettura dei vari aspetti di un’età ricchissima di fermenti, potenzialità e promesse, ponendosi anche come guida per affrontare i rapporti familiari e scolastici o per poter intervenire nel caso di comportamenti difficili.

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L'età incerta. I nuovi adolescenti

L’età incerta. I nuovi adolescenti

Chi sono i ragazzi del Duemila? Come capire che cosa avviene dentro di loro? Dalla prepubertà allo sviluppo sessuale e alla piena adolescenza, fino all’impegnativa conquista dell’identità e dell’autonomia personale, “L’età incerta” indaga non solo l’evoluzione dell’adolescente, affrontando tutti gli snodi più problematici, ma anche i rapporti con genitori, insegnanti, coetanei, sino alla scoperta dell’amore e alla relazione di coppia. Uno strumento per conoscere, dal punto di vista dei ragazzi, i sentimenti e le emozioni che li animano, i rischi che incontrano e le risorse di cui dispongono. Un libro che può aiutare gli adulti a svolgere il loro compito senza lasciarsi travolgere dall’ansia e dalla paura di sbagliare.

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A piccoli passi

A piccoli passi. La psicologia dei bambini dall’attesa ai cinque anni

Nei primi cinque anni di vita il bambino vive un’avventura straordinaria e tumultuosa: guarda il mondo con occhi magici e nello stesso tempo impara a vivere e ad amare seguendo un percorso che lo porta, a piccoli passi, dalla dipendenza all’autonomia. In questo suo cammino occorre saper cogliere i mille messaggi che il piccolo ci manda con i suoi comportamenti. Che significato hanno il rifiuto del cibo, l’insonnia, il capriccio inarrestabile? Perché ha paura degli estranei, è geloso del papà o passa ore davanti al televisore? Scritto in forma di dialogo, questo libro prepara i genitori a rispondere con spontaneità, sensibilità e competenza ai bisogni e ai desideri del loro bambino, un essere sempre unico e imprevedibile.

 

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Madri e figlie. Ieri e oggi

Madri e figlie. Ieri e oggi

Quando si è buone madri? E quando buone figlie? E se non si è per niente madri, si può essere buone donne? Le storie parallele di Dacia Maraini e Silvia Vegetti Finzi, l’una portata via dall’Italia e ultra protetta dalla madre mentre è in corso nel Paese la dittatura fascista, l’altra invece abbandonata dalla mamma e dal papà in fuga dallo stesso regime. E i racconti di Anna Salvo, le cui pazienti sul lettino continuano a mettere al primo posto il loro rapporto con la madre. Il libro raccoglie il dibattito che si è svolto sul tema nel corso di una manifestazione intitolata “I dialoghi di Trani”, organizzata dall’Associazione Maria del Porto e dai Presidi del libro.

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Silvia Vegetti Finzi dialoga con le mamme

Silvia Vegetti Finzi dialoga con le mamme

Tutti i problemi della prima infanzia affrontati in modo sereno e semplice. Un libro tutto domande e risposte: una finestra aperta sul mondo dei bambini e dei genitori. Un mondo ricco e affascinante, ma che troppo spesso rimane chiuso all’interno della famiglia dove la solitudine ingigantisce i problemi e alimenta l’ansia. Le pagine accompagnano lo sviluppo del bambino dalla nascita alla scuola materna, soffermandosi sui passaggi critici e i momenti più significativi. L’avventura straordinaria dei primi anni di vita e la consapevolezza che ogni crisi può essere superata acquisendo fiducia nelle proprie capacità e nelle risorse del proprio bambino.

 

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L'ospite più atteso

L’ospite più atteso. Vivere e rivivere le emozioni della maternità

 

Negli stati crepuscolari della mente, intermedi tra il sonno e la veglia, affiorano le fantasie materne. Là dove, incontrando il bambino che nascerà, lo conducono nel mondo che l’attende.

In questo libro l’autrice narra e commenta, con profonda sensibilità, una storia di maternità con l’intento di valorizzare una esperienza fondamentale, che non sempre occupa il posto che merita nella vita delle donne. Già i mesi dell’attesa costituiscono, se non vengono prevaricati da altre richieste, un periodo di straordinaria intensità emotiva. Ma, nell’epoca della fretta, molte giovani donne si trovano sole e smarrite al momento di realizzare il desiderio di un figlio. Per aiutarle è allora opportuno riallacciare un dialogo tra le generazioni ove alcune troveranno la possibilità di rievocare situazioni ed emozioni che credevano dimenticate, altre di sentirsi motivate e preparate ad accogliere «l’ospite più atteso», il figlio che nascerà.

 

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Il romanzo xella famiglia

Il romanzo della famiglia. Passioni e ragioni del vivere insieme

Dalla formazione di una nuova coppia alla nascita e all’educazione dei figli, ai conflitti, alla separazione ecc. Un viaggio alla scoperta di noi stessi e del concetto di famiglia alla luce della riflessione psicoanalitica.

 

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Volere un figlio

Volere un figlio

I contraccettivi e le biotecnologie, negli ultimi anni, hanno reso la procreazione una scelta volontaria. In questo volume l’autrice ripercorre l’esperienza della maternità cercando di fornire alle coppie una guida e un supporto che sia d’aiuto nel momento determinante della decisione, facendo chiarezza sulle antiche tecniche della procreazione assistita.

 

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Quando i genitori si dividono

Quando i genitori si dividono. Le emozioni dei figli

Le separazioni e i divorzi sono nel nostro Paese in continua crescita. Ma, si chiede la psicologa Silvia Vegetti Finzi, cosa accade quando i genitori si separano? Grazie alle moltissime lettere ricevute da ragazzi e adulti che vivono o hanno vissuto le difficoltà di un divorzio e forte della sua esperienza clinica, l’autrice mostra i molti modi in cui la rottura dei rapporti familiari segna, in bene e in male, il percorso esistenziale di chi è costretto a subirla e come, spesso, la percezione di essa vari a seconda dell’età e del sesso. Appendice di Daria Finzi e Anna Spadacini.

 

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Nuovi nonni per nuovi nipoti

Nuovi nonni per nuovi nipoti. La gioia di un incontro

Silvia Vegetti Finzi offre un interessante spaccato della realtà dei nonni partendo dall’inedito rapporto tra l’ultima generazione di nonni e quella dei loro giovanissimi nipoti. I nonni di oggi, cresciuti per lo più negli anni del miracolo economico, hanno partecipato alla modernizzazione della società e fruito di un benessere diffuso, ma hanno anche assistito agli sconvolgimenti prodotti dagli anni della contestazione, al rovesciamento dei canoni e dei valori della tradizione. Ora, in uno scenario caratterizzato dall’eclisse degli ideali politici, dalla precarietà del lavoro, dalla crisi della coppia e della scuola, nonne e nonni, seppure in modo diverso, sembrano costituire l’unica solida architrave della famiglia. Spesso garantiscono ai figli un aiuto economico e suppliscono alla generale carenza di servizi per l’infanzia prendendosi cura dei nipoti. Esentati da compiti educativi diretti, possono sperimentare il piacere di condividere con i bambini ambiti di libertà, di fantasia e di gioco, ricevendone in cambio affetto e complicità. La “nonnità” svolge quindi una funzione importante, talora essenziale, ma proprio per questo è sottoposta più che in passato a un carico di aspettative, richieste, pressioni e ricatti affettivi difficile da governare. Le numerose testimonianze raccolte, organizzate e analizzate per argomenti, fanno di queste pagine un racconto a più voci in cui caratteri e storie molto diverse si incontrano e si confrontano.

 

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Il bambino della notte

Il bambino della notte. Divenire donna, divenire madre

Nel momento in cui le tecniche si stanno impadronendo della procreazione questo libro intende andare controcorrente, ribadendo l’importanza della mente e del corpo della donna nella maternità. Attraverso la narrazione di una analisi, l’autrice ricostruisce il lungo processo che conduce dall’essere figlia all’essere madre.

 

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Parlar d'amore

Parlar d’amore. Le donne e le stagioni della vita

Silvia Vegetti Finzi raccoglie in questo libro le lettere più significative che le lettrici di “Io donna” le inviano ogni settimana e le dispone lungo un percorso accidentato e affascinante: dai primi passi dell’innamoramento alle diverse declinazioni delle relazioni amorose, dal vivere in coppia al desiderio di maternità, dall’abbandono al tradimento, fino agli anni della maturità e della vecchiaia, ancora ricchi di nuove, impreviste opportunità. L’autrice ne individua gli snodi cruciali in una conversazione spontanea e consapevole che mette in luce la straordinaria ricchezza della vita femminile, il coraggio con cui le donne, attraversando prove e difficoltà, pretendono e ottengono la loro parte di felicità.

 

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La stanza del dialogo

La stanza del dialogo. Riflessioni sul ciclo della vita

Ne “La stanza del dialogo” si parla dell’educazione dei figli, di genitori alle prese con adolescenti che assumono comportamenti apparentemente incomprensibili, della difficoltà di trovare l’anima gemella in un’epoca che alimenta aspettative irreali, di famiglie che si compongono e si disfano, del tempo che passa veloce e di tante altre cose. Ma ciò che colpisce maggiormente dell’agile libretto che raccoglie e contestualizza ora una scelta degli interventi di Silvia Vegetti Finzi sul settimanale ticinese Azione, è il tono con cui la psicologa-scrittrice si rivolge ai suoi interlocutori: un tono che esprime un altissimo senso della dignità umana, un rispetto profondo per le donne e gli uomini di oggi, accettati, senza facili indulgenze, per quello che sono, con tutte le loro evitabili e inevitabili debolezze.

 

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Psicanalisi al femminile

Psicoanalisi al femminile

Anna Freud, Melanie Klein, Marie Bonaparte, Lou Andreas-Salomé, Sabina Spielrein, Helen Deutsch, Karen Horney, Françoise Dolto, Luce Irigaray. Sono state queste donne a percorrere i sentieri interrotti, gli interrogativi inevasi, le possibilità intentate dalla psicoanalisi, esplorandone le zone buie.

 

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Psicoanalisi ed educazione sessuale

Psicoanalisi ed educazione sessuale

La sessualità è un problema importante e molto difficile da affrontare: conviene cominciare a studiarla il più presto possibile, benchè i pregiudizi cerchino di impedirlo. In questa antologia, quanto mai opportuna, i grandi della psicoanalisi analizzano i silenzi e le bugie con cui per anni si è risposto alle domande dei bambini sugli enigmi del corpo e della sessualità. Ferdinando Savater

 

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Storia della psicanalisi

Storia della psicoanalisi. Autori, opere, teorie 1895-1990

Mai come oggi la psicoanalisi ha avvertito l’esigenza di una riflessione sulla propria identità e il proprio futuro. Dopo più di cento anni dall'”Interpretazione dei sogni” (1900), considerata l’opera di fondazione, molti cambiamenti sono sopravvenuti. Pur restando Freud un punto di riferimento ineludibile, il paradigma iniziale si è articolato in un ventaglio di prospettive e in una molteplicità di Scuole diffuse in tutto il mondo. Per orientarsi tra le diverse alternative, Silvia Vegetti Finzi si è proposta di ricostruire da un punto di vista storico i molteplici percorsi della psicoanalisi e i problemi teorici, terapeutici, culturali e sociali che essa ha affrontato e diversamente risolto, restituendo respiro critico e prospettiva unitaria al vivace dibattito intorno a questa disciplina. Esposto con stile piano e coinvolgente, rivolto a un ampio pubblico, non solo a studenti e professionisti, il saggio di Silvia Vegetti Finzi illumina il passato, interroga il presente e prefigura il futuro.

 

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Freud e la nascita della psicoanalisi

Freud e la nascita della psicoanalisi

(scheda di Civitarese, G., L’Indice 1996, n. 1, pubblicata per l’edizione del 1995)

Chi ha avuto modo di apprezzare la “Storia della psicoanalisi. Autori opere teorie 1895-1990” troverà in questo nuovo volume di Silvia Vegetti una conferma.Si tratta infatti di una guida alla psicoanalisi, attraverso la “biografia” della scoperta diFreud e l’analisi dei suoi scritti principali, piana e di piacevole lettura quanto rigorosa nei contenuti. Tra gli spunti che si possono ricavare da questo testo sottolineerei la difesa della trasmissibilità della psicoanalisi, nei suoi contenuti teorici e nelle sue virtualità decostruttive, anche al di fuori di percorsi iniziatici e contro la pretesa avanzata da alcuni di una qualche extraterritorialità rispetto al “normale” discorso epistemologico.Proprio l’attenzione ai problemi epistemici – la psicoanalisi come ultima avventura della razionalità occidentale e la dialettica tra polarità ermeneutica e adesione ai paradigmi delle scienze della natura – conferisce al testo la sua attualità.Un pubblico di “non addetti ai lavori” troverà di che interessarsi alle vicende di una disciplina che ha avuto un impatto difficilmente immaginabile sulla cultura di questo secolo. Studenti a vario titolo delle teorie freudiane avranno a disposizione uno strumento di lavoro che fa dell’accuratezza delle note e dei rimandi bibliografici uno dei suoi elementi distintivi. Potrebbero essere delusi invece quanti andassero alla ricerca di riletture originali o interpretazioni inedite delle tesi freudiane.

 



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Laura Venturi – Gentian Doda in «Was bleibt». Sei solo, ma non puoi ignorare ciò che ti circonda.

Gentian Doda

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«Sei solo, ma non puoi ignorare ciò che ti circonda», questa la frase con la quale il coreografo Gentian Doda esprime ciò che anima la sua ultima e più coraggiosa creazione. Il suo pezzo Was bleibt (“Quello che rimane”) è andato in scena per la prima volta una settimana fa sul palco della Komische Oper di Berlino, nell’ambito di uno spettacolo tripartito che comprendeva anche un pezzo di Marco Goecke e uno di Nacho Duato, in procinto di abbandonare la sua carica di direttore artistico dello Staatsballett Berlin. È proprio sotto l’ala dell’estroso coreografo spagnolo che Doda ha avuto modo di sviluppare il suo talento di ballerino e di coreografo, in una collaborazione durata ben quindici anni ed iniziata a Madrid, quando Nacho Duato dirigeva la Compañía Nacional de Danza (C.N.D.). Tra le collaborazioni del ballerino albanese ricordiamo anche quella con Maurice Bejart, sotto il cui invito interpretò nel 2002 il ruolo principale de L’uccello di fuoco, quella con Ohad Naharin e quelle con William Forsythe, Jiří Kylián, Orjan Anderson, Mats Ek e Wim Vandekeybus. I primi lavori da coreografo risalgono al 2005.

Was bleibt, con la musica sperimentale di Joaquin Segade e la scenografia dell’artista giapponese Yoko Seyama, colpisce il pubblico già dalla prima apertura del sipario, dietro al quale si spalanca lo scenario di un palco semioscuro, dal cui soffitto pendono lunghe corde che arrivano a toccare terra e sono sistemate in modo asimmetrico. Tra le corde, come marionette perse e cadute al suolo, dieci ballerini si dimenano in gesti spezzati. Tutta la pièce esprime la tensione tra insieme e individuazione, tra la necessità di aderire al moto incessabile delle cose e quella di trovarci dentro un attimo di stasi, di vuoto. «Lo spazio che voglio raggiungere con il movimento, è il vuoto», afferma Doda.

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Foto: Fernando Marcos

 

I dieci ballerini si muovono a tratti come se fossero un corpo, un organismo unico, tutti ammassati da una parte con lo stesso respiro, poi si separano; se è soltanto un ballerino a staccarsi l’organismo cerca di riappropriarsene, e tutti i corpi si tendono all’unisono per riacquisire il pezzo esule. Altre volte però l’insieme funzionale viene distrutto e, nel caos dell’individuazione, si trova di nuovo ciò che è più fragile e umano.

Succede che l’organismo diventi marziale, aggressivo e rigido, per poi sgonfiarsi un attimo dopo in un momento di decontrazione, un espirare che tradisce la paura. Si sentono poi suoni che richiamano degli spari, il gruppo, sempre unito, avanza verso l’angolo posteriore del palcoscenico, un faro si accende e, dopo un verticalissimo anelito di speranza verso la fonte della luce, i ballerini collassano l’uno addosso all’altro, come un gruppo di cadaveri. Ecco il vuoto, forse. Però no, la musica riparte ritmica, i corpi si alzano come marionette, non è possibile neanche morire con dignità. L’incedere diventa marziale, si trasforma in una marcia serrata con le facce ridicolmente tese verso il soffitto, una marcia il cui motore sta in quell’altrove che gli occhi fissano in alto, senza più vedere gli altri ballerini o la terra sulla quale camminano. Una meravigliosa metafora dell’alienazione della violenza. La musica sparisce, ma la marcia continua, con lo stesso tempo, come un programma inserito e inevitabile. Poi torna il ritmo, quel ritmo del procedere delle cose dal quale pare non esserci scampo nel pezzo di Doda.

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Foto: Fernando Marcos

 

Il gruppo continua a comporsi e scomporsi, tutto oscilla tra l’organizzazione e il suo precipitare in uno spasmodico informe. La marcia diventa poi una corsa, una corsa in cerchio, dalla quale uno per uno i ballerini fuggono via, mentre i restanti sembrano non accorgersene. Ne restano soltanto due, continuano a correre con braccia di marcia e testa bassa. Una si ferma e pare rendersi conto di tutto, resta sola e pietrificata a fissare l’ultimo uomo che continua a correre, sola e pietrificata a fissare l’assurdità del trambusto umano. Lui continua a correrle intorno, lei a fissarlo immobile, e quell’angusto angolo di palcoscenico si trasforma nello spazio immenso dell’incomunicabilità umana.

Poi, il virtuoso assolo di un ballerino, che pare esplorare ogni forma di staccato e legato tra gli angoli del suo corpo, durante il quale il gruppo si muove sullo sfondo in un andirivieni incerto tra l’abbandono e il desiderio dell’individuo fuggito per la performance. E le corde pendenti dal soffitto vengono per la prima volta spostate. Percorse dalla luce e tirate verso destra non ricordano più i fili delle marionette, quanto delle funi di salvataggio lanciate dal cielo, funi di collegamento con una realtà superiore. Ed è verso l’alto che si tendono i corpi, distesi, ma con le braccia che ondeggiano come per cercare di acchiappare una di quelle funi, forse un ideale ancora in grado di essere salvifico. Ma anche la natura di questo anelito non può restare a lungo umana e, mentre i ballerini si alzano, si fa di nuovo meccanica, robotica, negando perfino la spontaneità del desiderio di miglioramento.

La luce scende lungo le corde tutte tese da una parte e ricorda i raggi di sole quando penetrano un anfratto, l’anfratto delle tensioni umane. Intanto, nella parte oscura del palco, finalmente un abbraccio, morbido, naturale. Poi l’oscurità. E un faro, da sinistra, orizzontale e alto. È dentro quella luce che il pubblico vedrà volare, rapidissimo, un uomo, retto sulle spalle di un altro, forse un’anima che è riuscita a salvarsi e librarsi in direzione di un altrove migliore.

Di nuovo buio, e corpi striscianti, la solitudine si ricompone nella sua forma perfetta per il finale. Cala dal soffitto il telaio del sipario senza più sipario, solo lo scheletro. La presenza, l’assenza e la messinscena sono ormai disarticolati, rotti nel loro significato, così come l’individuo. Ma il suo anelito non muore, e la creazione di Gentian Doda si chiude con la luce puntata sulle braccia di un ballerino, lanciate al cielo e subito dopo precipitate al suolo.

Un’opera coraggiosa e molto attuale, che tocca e fa riflettere mettendo lo spettatore di fronte alle grandi assurdità umane e politiche alle quali assistiamo ogni giorno, un’opera forte nel suo significato umano e sociologico.

«Sei solo, ma non puoi ignorare ciò che ti circonda».

 

Laura Venturi



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Italo Calvino (1923-1985) – … il massimo del tempo della mia vita l’ho dedicato ai libri degli altri, non ai miei. E ne sono contento …

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 … il massimo del tempo della mia vita

l’ho dedicato ai libri degli altri,

non ai miei.

E ne sono contento …

Italo Calvino

da una intervista a Marco d’Eramo, Mondoperaio, XXXII, 1979, N° 6.

Italo Calvino (1923-1985) – L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà: se ce n’è uno è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiano stando insieme.
Italo Calvino (1923-1985) – La conoscenza del prossimo ha questo di speciale: passa necessariamente attraverso la conoscenza di se stesso.
Italo Calvino (1923-1985) – Cavalcanti si libera d’un salto “sì come colui che leggerissimo era”. L’agile salto improvviso del poeta-filosofo che si solleva sulla pesantezza del mondo, dimostra che la sua gravità contiene il segreto della leggerezza, mentre quella che molti credono essere la vitalità dei tempi appartiene al regno della morte.
Italo Calvino (1923-1985) – Leggere significa affrontare qualcosa che sta proprio cominciando a esistere.


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Salvatore Bravo – Estetiche del turbocapitalismo. La paideia negativa e nichilistica dell’immagine. Contrapporre alla notte delle immagini la cultura dell’impegno, sottraendosi alla violenza dell’incultura dell’immagine.

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                                     Estetiche del turbocapitalismo

 

L’ipercinetica dell’immagine

Forma e sostanza non sono mai state tanto lapalissiane come nell’epoca mediatica, nell’epoca dell’ipercinetica dell’immagine: l’estetica, l’immagine, il fenomeno – ad un’attenta lettura – svelano e rivelano il noumeno. Per estetica intendo il fenomeno che appare kantianamente nella sensibilità. Ora l’ipercinetica delle immagini, la ridondanza delle stesse, fa assomigliare il mondo sempre più alle vetrine parigine descritte da Benjamin: panciuti luoghi dell’abbondanza che svelano – nella carne dell’apparire – il contenuto olistico del turbocapitalismo. Hegel affermava che la quantità si cambia in qualità, ovvero l’esponenziale presenza di un dato ne altera la verità qualitativa. Il turbocapitalismo – sostenuto dall’incontenibile disseminazione del culto dell’immagine – rende palese la sua essenza, attraverso la circolazione delle immagini e mediante la qualità stessa delle immagini con la loro densità omologata ed omologante.

La paideia negativa e nichilistica dell’immagine

È in atto una vera paideia negativa e nichilistica dell’immagine, una sorta di perversione di ogni contenuto formativo, mediante la dismisura della produzione dell’immagine. Non si assiste al materializzarsi del bello kantiano – per Kant il bello ha un contenuto etico, in quanto espressione e proiezione dell’aspirazione all’armonia interiore, dell’equilibrio tra intenzione e volontà: si sta invece materializzando il regno del terrore nel sublime dinamico. Per Kant, il sublime è giudizio riflettente la cui effettualità comporta, certo, prima lo spavento dinanzi ai fenomeni naturali che ci sovrastano; ma poi l’essere umano recupera la propria dignità, poiché pensa il sublime che gli porge un senso di infinito. Oggi invece il “sublime” dell’ipercinetica delle immagini, è solo terrore. La quantità immensa delle immagini reca con sé il culto dell’immagine nel micro, nel quotidiano, casa per casa, attimo per attimo, mercato per mercato. Nel pulviscolo della competizione dell’immagine, si afferma e si solidifica la frustrazione collettiva. Non si è mai abbastanza perfetti in qualsiasi qualità somatica, poiché il senso della circolazione dell’immagine non solo sollecita il narcisismo personale ed il disimpegno verso ogni forma di socialità, ma costruisce specialmente la sostanza del capitalismo attuale: l’impotenza generalizzata. Le immagini ci assediano, ci inseguono, siamo stimolati a produrle fino al punto da scambiare l’idola, l’immagine per la sostanza, per l’identità.

Sublime senza riscatto, terrore senza possibilità escatologica

La reificazione è dunque totale, è la legge del sistema, che non teme neanche di nasconderla, di celarla, tale è la forza ostentata, in assenza di ogni opposizione. In questa rincorsa senza limiti e confini, in cui la competizione – ecco l’altra parola di sostanza del turbocapitalismo – si afferma in un mondo di sconfitti, a turno ciascuno è superato dall’immagine ostentata dell’altro, ogni immagine ha un contenuto di violenza, in quanto ha il fine di portare il silenzio nel chiasso pornografico del nuovo assoluto. Non è dunque iscritta in tale logica il recupero della propria dignità di persona pensante: si deve essere solo individui, atomi, e non persone, il cui valore passa attraverso uno scatto velocissimo presto superato dall’infinito della circolazione delle immagini. Sublime senza riscatto, terrore senza possibilità escatologica, condannati – alla maniera di Sisifo – ad essere oggetto di operazioni ripetute prive di senso. La cultura-culto dell’immagine ci relega nella caverna platonica. Il mito del VII libro della Repubblica ci insegna che la tragedia degli schiavi è la loro incapacità di rappresentarsi la caverna come afferma Blumenberg in Uscite dalla caverna. Lo schiavo è tale perché non ha i mezzi per intenzionare la caverna, pertanto aggredisce il liberatore, Socrate: non può credergli in quanto l’abitudine a subire il mondo delle immagini, e ad assumere la postura esistenziale in funzione del loro culto ha annichilito ogni capacità teoretica. Per lo schiavo prono al culto del falso – ritenuto l’unico mondo possibile – il mondo non esiste, in quanto il mondo è rappresentazione, relazione di pensiero, trascendenza. Dinanzi ad una umanità la cui caverna è la mente adattata al buio dell’immagine, ogni dialogo pare impossibile, ogni comprensione di un’alterità appare come violenza. Si rovesciano i ruoli, gli schiavi si sentono aggrediti dalla verità, minacciati dall’incomprensibile, credono fideisticamente ed ossessivamente nell’immagine. Condizione molto simile al culto dell’immagine della contemporaneità che associata alla competizione, all’incultura di un linguaggio sempre più depotenziato delle sue capacità teoretiche, produce in modo evidente un’umanità immiserita dalla storia effettiva del turbocapitale.

La cultura dell’immagine nel turbocapitalismo

L’armigero con cui il capitale domina ed utilizza ogni individuo trasformandolo in mezzo di diffusione del narcisismo consumistico è la cultura dell’immagine. Perversione capitalistica della comunicazione, l’immagine dall’essere veicolo di significato, metafora del concetto, analogia tra concetto ed immagine come è descritta in la Poetica di Aristotele, o polisemica attività del pensiero secondo Ricoeur, diventa soltanto veicolo della competizione, della cultura imprenditoriale: la prima merce da vendere non è il prodotto, ma se stessi. Lo sbattere delle spade, si rende funzione operativa con l’immagine, che sostituisce le identità delle persone non più formate ad essere persone, ma merce dal valore di scambio variabile come le turbolenze ricattatrici dello spread. La vittoria del capitale è nell’arretramento della lingua: meno lingua più immagini, con il conseguente tramonto del pensiero critico. Il mondo, in quanto rappresentazione dell’assenza del dato percepito mediante la parola, è sostituito dall’abbondanza paurosa del cattivo infinito delle immagini. La loro quantità è tale che val bene, in questo caso, quanto affermato da Hegel nella critica a Schelling, ovvero viviamo in un infinito in cui tutte le vacche nere si confondono nella notte delle immagini. Nello splendore del supplizio delle immagini, la loro quantità oscura tutto, o meglio l’una oscura l’altra in una crudele rincorsa tra abbaglio ed ombra. La notte è scura per l’indifferenziazione delle immagini, a ciò contribuisce non solo la quantità ma anche la rincorsa verso modelli dell’apparire sempre più eguali. Vedasi le meteorine della politica e dello spettacolo, ciascuna rincorre – tra palestre, diete, chirurghi – modelli dell’eguale, lottano all’ultimo sangue, e non è una battura o iperbole lessicale, per sembrare sempre più … ma tutti allo stesso modo, fino al ridicolo – venato d’orrore – nell’assistere a volti paralizzati nell’espressione, all’anestesia facciale, a labbra voraci di tutto … tranne che di pensiero. Lo spettacolo dell’orrore estetico-apparire rende concreta la verità del turbocapitalismo. Plotino – racconta un suo discepolo – non voleva che si disegnasse la sua immagine per timore che si scambiasse il corpo per la sua essenza.

Contrapporre alla notte delle immagini
la cultura dell’impegno, sottraendosi alla violenza dell’incultura dell’immagine

Oggi più che mai, pur col rischio dell’isolamento, è necessario contrapporre alla notte delle immagini – in cui tutte le vacche sono nere, e le persone sono trattate come se valessero meno dei bovini – la cultura dell’impegno, sottraendosi alla violenza dell’incultura dell’immagine. Dal mito della caverna possiamo imparare, ponendoci un quesito: ovvero che forse l’attività liberatrice di Socrate ha sbagliato nei tempi. Prima di poter intavolare il dialogo con i cavernicoli del capitale, forse bisogna impegnarsi in una lenta diffusione della cultura della parola, contro il culto liturgico dei rituali mediatici. I tempi potrebbero essere lunghissimi, ma la sovraesposizione mediatica rischia di portare l’opposizione teoretica all’interno della sublime violenza mediatica. Ripartire dal logos, dalla parola, per poter argomentare e mostrare, con l’esempio vissuto, che un’altra vita possibile. Parlare, dialogare, comunicare per diffondere, per porre le condizioni della parola teoretica. Davide contro Golia, così appare la sfida. Eppure, dinanzi all’evidenza della sostanza del turbocapitalismo, la sfida dev’essere sperimentata, ognuno in ragione delle proprie possibilità. La caverna è la condizione prima della nascita, il buio prima dell’apertura alla nascita. Identità non nate, ma esposte al circolo mediatico: questa è la realtà dei nostri giorni, dinanzi alla quale non possiamo fatalmente affermare come Heidegger “Solo un dio ci può salvare”. La Filosofia ha insegnato che la salvezza è possibile, la prassi è logos, trasformazione e nascita delle vite, siamo chiamati a sottrarci al gioco dell’apparire per vivere la pratica dell’agorà.

 

Salvatore Antonio Bravo


 



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Fernanda Mazzoli – Una voce poetica dimenticata: Isaak Ėmmanuilovič Babel’. Fondare la rivoluzione sull’anima umana, sulla sua aspirazione al bene, alla verità, al pieno dispiegarsi delle sue facoltà. La rivoluzione non può negare la spiritualità, l’esperienza interiore dell’uomo, i suoi fondamenti morali.

Isaak Babel’

Fernanda Mazzoli

Una voce poetica dimenticata: Isaak Ėmmanuilovič Babel’

Fondare la rivoluzione sull’anima umana,
sulla sua aspirazione al bene, alla verità,
al pieno dispiegarsi delle sue facoltà.

 

 

La rivoluzione non può negare il sabato – la spiritualità, l’esperienza interiore dell’uomo, i suoi fondamenti morali – a costo di non sapersi più distinguere dai suoi nemici e finire per distruggere, come aveva colto Camus nel suo L’homme révolté, nello stesso tempo uomini e principi.

 


Leggere l’impaginato di  otto pagine in PDF cliccando qui:

Fernanda Mazzoli, Isaak Emmanuilovič Babel’


 

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Isaak Babel’

 

Precoce fu la passione per i libri di Isaak Babel’ (13 luglio 1894, Odessa, Ucraina / 27 gennaio 1940, Prigione di Butyrka, Mosca, Russia). Gli accesero l’immaginazione e gli regalarono una fertile inventiva con la quale alterare «tutte le cose del mondo», fino a non sapere più distinguere fra realtà e fantasia e ingannare se stesso e chi voleva ascoltarlo con le sue avvincenti storie. Leggeva sempre, ricorda in un suo racconto (Nel sottoscala, 1930), «durante le lezioni, nelle ricreazioni,lungo la strada di casa,di notte, a tavola», e per un libro rinunciava a tutti i divertimenti condivisi dai compagni, dalle fughe da scuola per bighellonare al porto, alle partite di bigliardo nei caffé, alle nuotate nel fiume che attraversava Odessa. A causa dei libri, e della bizzarria che a loro e all’ambiente familiare doveva, non aveva amici: «E chi poteva aver voglia di frequentare un tipo simile?». La solitudine lo seguirà come un’ombra discreta nascosta nelle pieghe di una vita avventurosa, compagna muta tra i compagni dell’armata a cavallo, fino al silenzio degli ultimi anni, quando l’assalto al cielo tentato dai bolscevichi era precipitato nelle secche della normalizzazione stalinista.

Isaak Ėmmanuilovič Babel'

Isaak Babel’

Che non gliene sarebbe venuto niente di buono dalla sua passione per i libri, la madre, con una sensibilità tutta ebraica per le sventure, lo aveva presagito e proprio nel momento in cui una brillante carriera sembrava attendere il figlio. Il giovane Isaak era stato ammesso alla classe preparatoria del ginnasio, superando la bassissima soglia del cinque per cento riservata agli Ebrei. Mentre il padre, come impazzito dalla gioia, chiusa la bottega, si era precipitato a comperargli un berretto da ginnasiale, la madre «intuiva il destino nei miei occhi e mi guardava con amara pietà, perché lei sola sapeva quanto fosse sfortunata la nostra famiglia» (La storia della mia colombaia, 1925).

Correva l’anno 1905, anno di moti rivoluzionari che portarono alla creazione della Duma, anno di disordini che non di rado sfociavano in pogrom contro la comunità ebraica ed il decenne Isaak si trovò nel bel mezzo di uno di questi e vi perse il nonno, massacrato dai russi, e la «colomba color ciliegia», regalatagli dal padre come premio per l’ammissione e schiacciata dal venditore ambulante Makarenko che colpisce il bambino, scagliandolo a terra, e gli uccelli appena presi al mercato. «Da ragazzo ho desiderato ardentemente di possedere una colombaia: in tutta la vita non ho avuto desiderio più forte. Avevo dieci anni quando mio padre promise di darmi il denaro per l’acquisto di un’assicella e di tre coppie di colombi». Costruita la colombaia e avuto il denaro promesso, il mattino del 20 ottobre Isaak, malgrado le fucilate che echeggiavano in città, corse al mercato venatorio e comperò finalmente gli agognati colombi, ma «in qualche luogo lontano cavalcava la sfortuna su un gran cavallo» e il ragazzo si ritrovò a terra, insanguinato dalle viscere dell’uccello schiacciato. «Il tenero intestino del colombo strisciava sulla mia fronte, ed io chiusi l’occhio che m’era rimasto ancora aperto perché non vedesse il mondo che mi si stendeva davanti. Quel mondo era piccolo e orribile».

Distrutto il negozio del padre, nascosto con i genitori in casa di amici russi per tutta la durata del pogrom, il bambino contrsse una malattia nervosa che richiese il suo allontanamento dalla cittadina di Nikolaev per luoghi più salubri. Così, si imbarcò con la madre per Odessa, dove era nato dieci anni prima, nella Moldavanka – il ghetto ebraico – e si stabilì in casa del nonno paterno, rabbino cacciato dalla sua città per contraffazione di cambiali, stravagante inventore, erudito straccione e pazzo agli occhi dei concittadini.

A Odessa studiò all’Istituto commerciale dove ebbe la fortuna di incontrare uno straordinario insegnante di francese, un bretone, che gli insegnò la lingua e l’amore per la letteratura del suo paese, al punto che scrisse i suoi primi racconti, che poi butterà via, giudicandoli incolori, in quella lingua. Fino al sedicesimo anno, su insistenza del padre, studiò anche l’ebraico, la Bibbia, il Talmud e il violino, ma agli esercizi musicali preferiva la lettura di Turgenev e di Dumas e, strimpellando per ingannare il padre che si era messo in testa di fare di lui un violinista di successo, divorava le pagine dei romanzi posti sul leggio. Intanto, scriveva di notte le storie che raccontava di giorno ai ragazzi dei vicini.

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Antonina Pirozhkova e Isaac Babel’.

Isaak Babel con Antonina e la figlia

Isaak Babel’ con Antonina e la figlia.

 

Più tardi, la Moldavanka, con la sua vita rumorosa, i suoi tuguri abitati da un’umanità dedita a bizzarri traffici, i suoi banditi generosi e trucidi, diventerà il teatro di molti suoi racconti che – ricostruendo con vivacità e un tocco d’umorismo l’ambiente della prima giovinezza – ripercorrono, in realtà, il maturare della sua vocazione letteraria, a cui attribuisce un’origine familiare, nella somiglianza che avverte con il nonno mezzo pazzo, autore di un’autobiografia in ebraico dal significativo titolo L’uomo senza testa.

 

Racconti di Odessa

Racconti di Odessa

Altro mentore di quegli anni fu un singolare abitante della Moldavanka, correttore di bozze di un giornale di Odessa, nonché «filosofo della scuola naturalistica» che gli consigliò, dopo avere letto una tragedia che il quattordicenne Babel’ gli aveva sottoposto a giudizio, di immergersi nella natura, come una pietra o come un animale, se davvero aveva l’intenzione di scrivere qualcosa che valesse la pena.

Racconti proibiti e lettere intime, Feltrinelli, 1961

Racconti proibiti e lettere intime, Feltrinelli, 1961

 

Cronache dell'anno 1918

Cronache dell’anno 1918

 

Qualche anno più tardi, sarà Gorkij – che pubblicherà nel 1916 i suoi primi racconti, rifiutati da molti giornali –, a dargli un consiglio decisivo: di andare fra la gente, come ricordò lo scrittore in una breve ed intensa Autobiografia, pubblicata per una rivista nel 1924. E per sette anni – anni che sconvolsero il mondo – Isaak Babel’ andò fra la gente, si immerse nel turbine della Rivoluzione, lasciò che il suo universo poetico maturasse lentamente nel fragore, nel caos, nella stanchezza e nel fervore della guerra rivoluzionaria, fra un attacco e un ripiegamento e si facesse strada al passo dei cavalli dell’Armata cosacca di Budënnyj che, agli ordini del nuovo potere sovietico, respinse fin quasi a Varsavia i Polacchi che avevano conquistato Kiev.

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L’Armata a cavallo. Titolo originale: Конармия.

 

L'armata a cavallo

L’armata a cavallo

 

Anni turbinosi per la Russia e per il giovane Babel’: soldato sul fronte rumeno nel 1917, prestò servizio nell’anno seguente nella Ceka e al commissariato del Popolo per l’istruzione, combattè nell’armata del Nord e poi nella Prima armata di Cavalleria, strano soldato dall’aria poco marziale, piccolo, occhialuto, con la sacca piena di manoscritti e giornali. Lavorò come tipografo ad Odessa e fu cronista a Pietroburgo e nell’anno 1923 riprese a scrivere, dopo avere imparato ad esprimere i suoi pensieri «con chiarezza e in forma sintetica», come se «i sogni impossibili» e le «canzoni dissonanti» che covava in sé dall’ infanzia si fossero asciugati nelle notti all’addiaccio, dilaniate «dal latte della luna» o nella polvere e nel fumo delle battaglie che avevano incendiato la pianura polacca «levigata come un asse». La guerra rivoluzionaria, il contatto diretto con gli eventi e gli uomini avevano finito per mettere le briglie alle «tempeste» della sua immaginazione , affinatasi e sublimatasi in un tirocinio linguistico – che si affiancò all’esistenziale – all’insegna della concisione.

L’asciuttezza del cronista si compenetra senza sforzo con il lirismo del poeta che ha saputo trovare «il senso della natura», raccontata per squarci improvvisi, di grande efficacia pittorica, capaci di fondere il movimento dell’Armata a cavallo con il dispiegarsi dei campi di papaveri e il gioco del «vento di mezzogiorno tra la segale gialligna». Dilaga l’armata cosacca nella steppa, tutt’attorno cadaveri e villaggi distrutti, e intanto «il sole arancione rotola nel cielo, come una testa recisa, una tenera luce s’accende nelle fenditure delle nubi, svettano sulle nostre teste gli stendardi del tramonto. Il lezzo del sangue di ieri e dei cavalli uccisi geme nel fresco della sera». Come un fiume in piena, l’armata continua la sua marcia verso Novograd e al sole succede la luna che si adagia sulle onde del nero Zbruč che i cosacchi sono costretti a guadare, non essendoci più ponti.

L'Armata a cavallo

L’Armata a cavallo

 

È così che si apre il primo dei racconti che compongono l’opera più nota di Isaak Babel’ e che introduce il lettore in un mondo sconvolto dalla guerra e dalla rivoluzione, eroico e crudele, capace di grande coraggio e smisurate speranze, così come di spietate azioni e meschini sentimenti. Le «orde pezzenti» che si rovesciano sulle antiche città polacche portano con sé il vento impetuoso del nuovo mondo che i bolscevichi stanno cercando faticosamente di costruire, ma anche la violenza cieca e la sete di vendetta e la brama di saccheggio di ogni esercito. Per quanto sia arrivato l’ordine di Trotskij di non scannare i prigionieri, ma di sottoporli a regolare processo, sul fronte le passioni degli uomini esacerbati dalle lunghe privazioni, dalle perdite subite, dai traditori annidati in ogni villaggio, hanno spesso la meglio sui richiami alla nuova legalità rivoluzionaria e, semplicemente, all’umana pietà. Il nostro narratore, assegnato allo stato maggiore della divisione come corispondente, si vede più di una volta costretto a compilare rapporti di denuncia di azioni banditesche, che porteranno i colpevoli davanti al tribunale di guerra.

L'armata a cavallo

L’armata a cavallo

 

È la lucida consapevolezza di stare vivendo una storia grande e terribile a fare de L’Armata a cavallo un’opera epica, nel senso più alto: scevra da ogni retorica, da ogni compiacimento, da ogni intento agiografico. Il giovane Isaak, andato fra la gente e buttatosi a capofitto nel tumulto della guerra e della rivoluzione, sia per intima adesione alle ragioni di questa, sia per trovare se stesso in quanto scrittore, mette a segno quell’immissione di «realismo quotidiano nella sublimità tragica» che, secondo Auerbach, caratterizza la grande epica omerica. E così, mentre combatte con la cavalleria cosacca, condividendo con i suoi compagni fatiche, stenti, pericoli, «la cronaca dei misfatti quotidiani» lo opprime «senza posa come un vizio di cuore». È lo sterminio delle api, di cui sono stati profanati gli alveari intossicati dallo zolfo, ma anche gli stupri di gruppo, i saccheggi delle chiese, le esecuzioni sommarie per un sospetto di tradimento. Il cronista-combattente di Odessa tiene un diario minuzioso, da cui poi svilupperà i suoi racconti, in cui compare sotto il nome di Ljutov, e non nasconde nulla, né a sé stesso, né al lettore. I compagni dell’armata a cavallo non sono eroi esemplari, sono uomini capaci di eroismo e di ferocia, una massa in movimento sui «binari precipitosi» che il partito bolscevico ha aperto «nella pasta acida delle storie russe», sospinti dalla marcia frenetica di una storia che corre più veloce di loro, ancora incrostati dalla scorie di un passato che sa di servitù, sopraffazione, pregiudizi, «ansimante crudeltà contadina». Dunque, Babel’-Ljutov decide di assumere pienamente, senza infingimenti e romantiche illusioni, «la curva misteriosa della retta di Lenin», che ha scagliato in prima fila la comunità cosacca e che da quelle scorie saprà liberarla, come osserva sentenziosamente Galin che lavora con lui al giornale del fronte.

 

Sëmen Budënnyj, il popolare e combattivo comandante dell'Armata a cavallo.

Semen Budennyj, il popolare e combattivo comandante dell’Armata a cavallo.

Non piacquero questi racconti al generale Budënnyj che accusò l’autore di avere denigrato l’Armata che aveva comandato, dando prova di sraordinario coraggio e capacità decisionale che lo scrittore non mancò di riconoscere, cogliendo nel suo «sorriso abbagliante» e nelle sue scarne parole la grandezza del personaggio, nuovo tipo di condottiero popolare. Mentre nomina un comandante di brigata, il generale, che deve l’incarico alla sua non comune audacia, si limita a dirgli, sorridendo: «Il serpente ci attanaglia. Si vince o si crepa! Non c’è altra via, hai capito?», e lo minaccia, sempre sorridendo, di fucilarlo, se scappa. Budënnyj, naturalmente, ha ragione: è con uomini come lui che si vincono le rivoluzioni e Babel’ è il primo a riconoscerlo, ma sa altrettanto bene distinguere tra propaganda e letteratura e non sarà mai disposto a sottomettere l’una all’altra, fino a preferire il silenzio negli anni dello stalinismo trionfante.

È nel racconto forse più struggente di tutta la raccolta, Gedali, fantastico, diafano e malinconico come un dipinto di Chagall, che «la sublimità tragica» vissuta dal narratore e da milioni di uomini con lui, si staglia con icastica evidenza. A Gedali, padrone di una botteguccia nel ghetto ebraico della cittadina polacca di Žitomir, studioso del Talmud e di Maimonide, nonché fondatore di una impossibile Internazionale, soddisfatto che la rivoluzione le abbia suonate ai cani malvagi degli antisemiti, ma tuttavia preoccupato perché i fucili continuano a sparare, il narratore risponde che la rivoluzione «non può fare a meno di sparare». È un’Internazionale impossibile, quella di Gedali e il combattente dell’Armata a cavallo, spinto verso di lui alla vigilia del sabato dalla «densa malinconia dei ricordi», non si fa illusioni in merito e non ne offre al suo bizzarro interlocutore. Tuttavia, ne è affascinato e non solamente per un richiamo della tradizione in cui è stato cresciuto: sono la sua intelligenza e la sua sensibilità di rivoluzionario a confrontarsi con le parole dello strambo vecchio. Lui accoglie la rivoluzione, ma accoglie anche il sabato ed è deluso che la rivoluzione mandi avanti solo i fucili. Sparavano i polacchi e sparano i rivoluzionari e questo lui non lo capisce, perché «la rivoluzione è gioia. E alla gioia non piace avere orfani in casa». Gedali non sa più dove è la rivoluzione e dove la controrivoluzione. Lui vuole «un’Internazionale di brava gente» e che «sia tesserata ogni anima e le assegnino una razione di prima categoria. Prendi, anima, mangia e ricevi dalla vita il tuo godimento!». E invece, rincara Gedali, loro ignorano completamente con quale companatico si mangi l’Internazionale

Il redattore del Krasnyj Kavalerist – il giornale del fronte – ha bello offrirgli con spavalderia il suo companatico: «polvere da sparo» da innaffiare «con il sangue migliore», perché la sua pronta e un po’ scontata risposta si deve far da parte per lasciare avanzare il sabato, «un sabato fanciullo» che «dall’azzurra oscurità saliva in cattedra».

Pagina straordinaria, e per la qualità della scrittura – incisiva, sognante e densa, intimamente aderente a luoghi e personaggi – e per la sconvolgente lucidità che si annida nelle parole di Gedali sotto l’incalzare delle immagini. Parole profetiche, ad un secolo dall’Ottobre la cui demiurgica ambizione è ripiegata nella costruzione di quel «socialismo reale» che, nonostante indubbi meriti, non ha certo realizzato le promesse di emancipazione che mobilitarono milioni di uomini in Russia e nel mondo intero. Non è certo questa la sede per anche solamente accennare ad un bilancio dell’esperienza della rivoluzione bolscevica che ha segnato una svolta epocale, ineludibile. Ritengo, però, che l’esaurirsi della sua spinta ideale e il crollo miserevole dell’Unione sovietica, le cui macerie hanno finito per trascinare con sé – almeno per i più – l’idea stessa della possibilità di una società non fondata sui rapporti di produzione capitalistici, rinserrando più che mai gli uomini nella gabbia d’acciaio dell’attuale sistema sociale, possano essere lette (e corrette in un futuro che abbiamo il dovere di immaginare diverso dall’attuale presente “senza storia”) anche alla luce delle considerazioni del bizzarro rigattiere di Žitomir che vuole fondare la rivoluzione sull’anima umana, sulla sua aspirazione al bene, alla verità, al pieno dispiegarsi delle sue facoltà. La rivoluzione non può negare il sabato – la spiritualità, l’esperienza interiore dell’uomo, i suoi fondamenti morali – a costo di non sapersi più distinguere dai suoi nemici e finire per distruggere, come aveva colto Camus nel suo L’homme révolté, nello stesso tempo uomini e principi. Ma nella steppa nel 1920 la rivoluzione è ancora giovane, muove i suoi primi passi, impetuosi, sgraziati, commoventi e pieni di promesse e Afonka Bida, capoplotone di Babel’-Ljutov, può ancora ritenere di stare combattendo anche per le api «sterminate dagli eserciti in lotta».

Pochi rapidi tratti, battute essenziali ed incisive, capaci di restituire in un’istantanea un uomo e uno sprazzo della sua verità, il coraggio sfrontato con cui si presenta al mondo, o la sua disperazione, o la sua tenace convinzione: si susseguono pagina dopo pagina i compagni di lotta, gesti e parole scorrono in un grande ritratto corale che è quello dell’armata in perpetuo nomadismo, scandito dal «lamento dei convogli», dagli spari, dai gemiti dei feriti, dai nitriti dei cavalli.

Sfilano davanti al lettore il giovane comandante di brigata Kolesnikov, dalla cui andatura Babel-Ljutov riconosce «l’indifferenza imperiosa del chan tartaro», il caposquadra Chlebnikov che guarda il mondo «come un prato di maggio», appassionato di cavalli e che per un cavallo che gli è stato preso abbandona il partito, Ilija, figlio ribelle del rabbino di Žitomar, agitatore e poeta che nella sacca da soldato tiene i ritratti di Lenin e Maimonide e muore di tifo «tra i versi, il filatterio e le pezze da piedi». E il mite pastore Saška, cantore dello squadrone, che con le sue canzoni «lastricava di suoni e lacrime le nostre strade estenuanti», Sidorov, inetto al combattimento dopo una ferita, che cerca scampo dalla «zampa pelosa della sua angoscia», sognando l’Italia che gli è entrata nel cuore come un’ossessione e dove sta covando un fuoco che lui potrebbe attizzare, il capoplotone Surokov con il suo curioso paragone fra Lenin e la gallina, entrambi capaci di tirare fuori dal mucchio e prendere al primo colpo, il primo la verità, l’altra i chicchi di grano. E il fabbro Baulin, «forte, laconico, ostinato» caposquadrone poco più che ventenne, che non ha mai conosciuto la frivolezza, incrollabile sulla strada che ha intrapreso, incurante delle privazioni, al punto da potere dormire seduto: uno di quegli uomini – sottolinea lo scrittore – decisivi per il trionfo della Rivoluzione.

Uomini semplici, non di rado rozzi, ma consapevoli, e fieri di essere al centro di un esperimento senza precedenti nella storia dell’umanità: il governo operaio-contadino, il primo nel mondo, per il quale vale la pena battersi e resistere alla fame, al freddo, alla nostalgia di casa, al dolore per i compagni uccisi e per i cavalli cui i Cosacchi sono legati da un vincolo di fraterna amicizia. Con questi uomini Isaak Babel’ attraversa gli anni della guerra rivoluzionaria, con loro condivide le costanti privazioni e gli improvvisi entusiasmi, per un attacco riuscito, per un discorso di Lenin o un volantino di Trotskij, con loro scopre la fraternità, intorno ad un misero pasto messo in comune, ad un giaciglio sotto un fienile, alle note pensose di una canzone e a un gesto di compassione per il cadavere di un nemico. Bagliori che si accendono nell’ombra vischiosa di una solitudine che non smette di accompagnare Babel’-Ljutov: difficoltà di farsi accettare – lui, intellettuale ebreo dal portamento poco marziale dai bellicosi e rustici Cosacchi – certamente, eredità del ghetto, forse, oppure conseguenza di un’inguaribile propensione alla malinconia e alla fantasticheria, contratta nell’infanzia; comunque sia, la solitudine gli aleggia intorno, «nel deserto polveroso e arroventato dei campi», «sotto l’instancabile pioggia galiziana», nella notte pronta a volargli incontro «su cavalli focosi».

È proprio il riuscito e mai banale intreccio tra ispirazione lirica ed epopea collettiva a fare de L’Armata a cavallo un’opera singolare ed autentica, in cui senso della storia e sentimento dell’umana condizione si fondono in una soluzione linguistica originale, capace di abbracciare con naturalezza registri molto diversi in un fluire incessante che sposa il ritmo incalzante della neonata rivoluzione.

 

Copertina della rivista del Fronte di Sinistra delle Arti (LEF), 1923, litografia

Copertina della rivista del Fronte di Sinistra delle Arti (LEF), 1923, litografia

Diversi racconti, poi inclusi nel libro, vennero pubblicati nel 1924 sulla prestigiosa rivista Lef, diretta da Majakovskij; ad essi ne seguiranno altri, dedicati alla città di Odessa, ed alcune commedie. Dieci anni dopo, al primo congresso degli scrittori sovietici, Babel’ si definì ironicamente maestro del genere letterario del silenzio.

 

lef

LEF

 

Qualcuno, nel frattempo, non aveva mancato di incolparlo di formalismo e scarsa produttività. Intervenne ancora l’anno successivo al Congresso internazionale antifascista degli scrittori, tenutosi a Parigi; poi, sempre più estraneo al clima politico e culturale imposto dallo stalinismo, finì per ritirarsi dalla vita pubblica e chiudersi in un definitivo silenzio, di fronte agli esiti di una rivoluzione che non aveva saputo – o potuto – conciliare Budënnyj e Gedali e si stava arenando nell’impasse di una nuova autocrazia. Come altri comunisti della prima ora, sarà accusato di spionaggio e arrestato e come loro confesserà crimini inesistenti: cedimento di fronte alle pressioni poliziesche, forse, disperazione, impotenza, senso del fallimento – sicuramente e, nel più profondo, un’oscura, tenace e tragica fedeltà, fino all’autoannientamento, a quel governo primo nel mondo che l’Armata a cavallo aveva contribuito a fare trionfare.

La foto di Babel' eseguita dal NKVD dopo il suo arresto

La foto di Babel’ eseguita dal NKVD dopo il suo arresto

Processato e condannato, sarà fucilato sul finire del gennaio 1940. I suoi archivi e manoscritti, confiscati, sono andati perduti. Sarà pubblicamente riabilitato nel 1954 dalle accuse che gli costarono la vita.

Fernanda Mazzoli

Le citazioni sono prese da Isaac Babel’, L’armata a cavallo e altri racconti, Feltrinelli, Milano, 1976, trad. dal russo di Ignazio Ambrogio, Filippo Frassati e Maria Olsoufieva.

 



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Carlo Formenti – La critica della società capitalistica non può non accompagnarsi a una critica radicale dell’ideologia “modernista” e della sua grottesca variante postmoderna, il “nuovismo”. Presentazione del libro di Carlo Formenti, «Oligarchi e plebei».

Formenti Carlo 02

Sinistra senza popolo,

popolo senza sinistra?

 

***

Sabato 26 maggio, ore 10,30

presso il Polo del ‘900

Sala didattica di Palazzo San Daniele

Via del Carmine, 14  – Torino

***

Presentazione del volume di

Carlo Formenti

Oligarchi e plebei

 

Ne discuterà con l’autore Alessandro Monchietto (ANPPIA)

Presiede e modera Bruno Segre, Presidente dell’ANPPIA

LOGO ANPPIA

giordano bruno

partener

 

 Logo-Adobe-Acrobat-300x293  Locandina_Presentazione Oligarchi e plebei



Oligarchi e plebei

Carlo Formenti,

Oligarchi e plebei. Diario di un conflitto globale

Mimesis edizioni, 2018.

logo Mimesis

 

Quali sono le nuove forme di dominio esercitate dal capitalismo sui più deboli? Quali strategie di resistenza sono state escogitate dalle classi subalterne per difendersi da condizioni di vita sempre più critiche? Come nascono i nuovi populismi di destra e di sinistra e quali prerogative li caratterizzano? Carlo Formenti prosegue la sua opera di analisi dei conflitti fra élite globali con una raccolta di saggi che intende commentare in presa diretta i principali eventi occorsi negli ultimi anni in ambito sociale, politico e finanziario. Economia, lavoro, tecnologia, ideologie, guerra, populismi, America Latina, polemiche. Suddiviso in otto sezioni, il volume organizza un percorso cronologico e tematico all’interno dei grandi argomenti della contemporaneità, per raccontare cosa sta accadendo sul fronte della lotta di classe e del conflitto globale e per provare a ipotizzare alcuni possibili scenari futuri.


Carlo Formenti è nato nel 1947 a Zurigo. Laureato in scienze politiche, è giornalista (ha collaborato con “Alfabeta”, “L’Europeo”, “Il Corriere della Sera”), docente universitario (ha insegnato Teoria dei nuovi media all’Università di Lecce), blogger (su Micromega online). Tra le sue pubblicazioni si segnala: La fine del valore d’uso (1980); Incantati dalla Rete (2000); Mercanti di futuro (2002); Felici e sfruttati (2011); Utopie letali (2013); La variante populista (2016).


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di Giovanni Iozzoli


Alcuni libri di Carlo Formenti

La variante populista

La variante populista

Felici e sfruttati

Felici e sfruttati

Incantati dalla rete

Incantati dalla rete

La fine del valore d'uso

La fine del valore d’uso

Mercanti di futuro

Mercanti di futuro

Oligarchi e plebei

Oligarchi e plebei

Piccole apocalissi

Piccole apocalissi

Utopie letali

Utopie letali



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Carlo Formenti – Le sinistre (tutte!) hanno regalato ai populismi di destra la rappresentanza degli interessi delle classi inferiori.

Formenti Carlo 01

SINISTRA, NAZIONE, POPOLO

Presentazione del libro di

Carlo Formenti

La variante populista. Lotta di classe nel neoliberismo

Ne discuterà con l’autore

Mimmo Porcaro

 

Venerdì 25 Maggio, ore 21

Libreria Comunardi

Via Bogino 2, Torino

comunardi-verso


La variante populista

La variante populista

Carlo Formenti,
La variante populista. Lotta di classe nel neoliberismo,
Derive Approdi, 2016.

Logo DeriveApprodi


Perché trincerarsi a difesa della democrazia, se viviamo in un regime postdemocratico costruito da decenni di guerra civile contro il lavoro? Prendere atto della sconfitta del movimento operaio non basta: occorre ammettere che tutte le sinistre (moderate, radicali e antagoniste) ne sono corresponsabili.
Contro le ideologie partorite dalla «svolta linguistica» delle scienze sociali, che hanno sostituito la lotta per i diritti delle classi subordinate con l’impegno per i diritti individuali delle classi medie, occorre tornare alla parola «egemonia» di Antonio Gramsci. Dunque: occorre battersi per la sovranità popolare e nazionale contro le oligarchie transnazionali. E sconfiggere il populismo di destra con un nuovo populismo di sinistra.


Un assaggio

«Capisco che è dura da digerire, ma è evidente che negli ultimi anni le sinistre (tutte!) hanno regalato ai populismi di destra la rappresentanza degli interessi delle classi inferiori accontentandosi di gestire interessi e diritti di individui e minoranze appartenenti alle classi medie colte, mentre solo i populismi di sinistra hanno cercato di raddrizzare il timone. Accettare la sfida del populismo significa comprendere che non è possibile opporsi al capitale globale senza lottare per la riconquista della sovranità popolare, la quale a sua volta comporta la riconquista della sovranità nazionale. Se a egemonizzare la lotta sarà il populismo di destra, assisteremo al trionfo di razzismo e xenofobia, se sarà invece quello di sinistra, potremmo assistere alla nascita di un’idea “postnazionalista” di nazione, intesa cioè come comunità di tutti quelli che lavorano e lottano in un determinato territorio.

Accettare tale punto di vista implica assumere un atteggiamento totalmente controcorrente rispetto a quello delle sinistre europeiste: difendere questa Europa oligarchica, ordoliberista e irriformabile significa scambiare il cosmopolitismo borghese per internazionalismo proletario. La lotta anticapitalista, nel nostro continente, passa inevitabilmente dalla lotta contro l’Europa».

 


Carlo Formenti è nato nel 1947 a Zurigo. Laureato in scienze politiche, è giornalista (ha collaborato con “Alfabeta”, “L’Europeo”, “Il Corriere della Sera”), docente universitario (ha insegnato Teoria dei nuovi media all’Università di Lecce), blogger (su Micromega online). Tra le sue pubblicazioni si segnala: La fine del valore d’uso (1980); Incantati dalla Rete (2000); Mercanti di futuro (2002); Felici e sfruttati (2011); Utopie letali (2013); La variante populista (2016).


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La variante populista

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Felici e sfruttati

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Incantati dalla rete

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La fine del valore d'uso

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Mercanti di futuro

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Oligarchi e plebei

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Piccole apocalissi

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Utopie letali

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