Tag: Fulvio Papi
Silvana Borutti – Per Fulvio Papi. In memoriam. I ricordi forse più emozionanti sono legati alle lezioni sulla “Fenomenologia dello spirito” di Hegel. Ricordo in particolare il suo commento al concetto di «Herrschaft», signoria. Ci diceva che lo spirito è ciò che sa portare quello che si sa e che si è all’altezza della morte.
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N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio.
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Franco Toscani – L’impegno filosofico e civile di Fulvio Papi. Papi si pone tra coloro che “non contano niente” e che però non cessano di aspirare a un più degno abitare dell’uomo, secondo una tensione etico-politica irriducibile, la quale non può che essere critica nei confronti delle forme date del potere politico.
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Casa della cultura di Milano – «Per mario vegetti» * Scritti di: Ferruccio Capelli, Michelangelo Bovero, Eva Cantarella, Fulvia de Luise, Franco Ferrari, Silvia Gastaldi, Alberto Maffi, Fulvio Papi, Valentina Pazé, Federico Zuolo.
Sommario
Ferruccio Capelli, Editoriale
Michelangelo Bovero, PENSARE LA POLITICA CON MARIO VEGETTI.
Eva Cantarella, MADRE MATERIA. Studi pioneristici sul femminile nell’antichità.
Fulvia de Luise, LA SCRITTURA DELL’UTOPIA. Come mettere in moto un paradigma normativo.
Franco Ferrari, L’INATTUALITÀ DI PLATONE. Politica e utopia.
Silvia Gastaldi, UNA RIVOLUZIONE NEGLI STUDI DI ANTICHISTICA
Alberto Maffi, TRASIMACO FRA PLATONE E ARISTOTELE
Fulvio Papi, PER MARIO VEGETTI.
Valentina Pazé, LA SCHIAVITÙ TRA NATURA E ARTIFICIO.
Federico Zuolo, RADICALITÀ E ATTUALITÀ. Sull’uso contemporaneo dei classici.
Ferruccio Capelli
Direttore della Casa della Cultura di Milano
Editoriale
È passato un anno da quando Mario Vegetti ci ha lasciati. La Casa della Cultura lo ha voluto ricordare con un convegno, “Amicus Plato”, e ora con questo numero della rivista che raccoglie gli interventi di quella giornata di studi a lui dedicata.
Possiamo dirlo senza timori di scadere nella retorica: Mario Vegetti ci manca. Perché non era solo un insigne ellenista: era un maestro. Basta scorrere i contributi raccolti in questo numero della rivista per capire cosa vuol dire essere stato un maestro.
A lui i suoi allievi e una cerchia ampia di studiosi riconoscono il merito di avere aperto nuovi campi di ricerca: aveva collocato gli studi del mondo greco – ellenista nel campo più vasto dell’antichistica, aveva scavato le interazioni con le altre culture dell’antichità e aveva portato alla luce anche i lati oscuri di quella straordinaria vicenda storica. Le parole dei suoi ex colleghi sono dense di riconoscimenti. Eva Cantarella gli attribuisce il merito di averla stimolata a mettere a fuoco la condizione della donna nel mondo greco mentre Fulvio Papi, il collega – amico di una vita – gli ha voluto porgere un riconoscimento inconsueto: nel manuale di storia della filosofia, scritto assieme, le parti migliori e più innovative, ci ha detto Papi, erano quelle pensate e scritte da Vegetti.
Il termine “maestro” evoca anche qualcos’altro: il rigore e l’efficacia del suo stile di lavoro. Un lavoro tenace, metodico, riservato, segnato dalla convinzione che ai risultati ci si arriva con il puntiglio e con la lunga fatica della ricerca, non con operazioni ad effetto amplificate da un po’ di applausi pubblici. Basti pensare al monumentale lavoro, costato anni di fatica, per la riedizione critica de La Repubblica di Platone: un’impresa collettiva decennale, da lui guidata, nella quale ha impegnato un ampio gruppo di studiosi.
Questo accanito lavoro filologico su La Repubblica ci introduce alla sua passione per Platone. Chi scrive ha nell’orecchio le sue memorabili lezioni sulle opere di Platone in Casa della Cultura: nel filosofo greco ammirava la tensione progettuale, l’ostinata volontà di non adattarsi all’immediata naturalità delle cose, il rischio di proporre ciò che poteva apparire impensabile. Platone era davvero il suo autore, l’amicus Plato per l’appunto.
Il suo rapporto con l’utopia progettuale di Platone ci apre lo sguardo sull’opzione politica cui Vegetti è rimasto fedele tutta una vita: Mario si è sempre definito un comunista, sostenitore di una visione ideale e aperta di comunismo. In alcuni passaggi cruciali del secolo scorso si è anche impegnato pubblicamente a sostegno delle sue idee. Anche se l’impegno pubblico di Mario Vegetti si è manifestato essenzialmente attraverso lo sforzo tenace di valorizzare e di fare vivere la sua ricerca culturale anche al fuori del mondo accademico.
Possiamo così comprendere la ragione profonda del legame tra Vegetti e la Casa della Cultura. In tanti possono testimoniare il suo attaccamento al centro culturale di via Borgogna, a quella che era solito definire la “sua” Casa della Cultura. In più occasioni si è esposto pubblicamente a sottolineare la funzione che era andata assumendo nel corso dei decenni: arrivò a scrivere che la Casa della Cultura era “un’isola benedettina di resistenza”. Vi era qui la sua convinzione profonda dell’importanza della battaglia delle idee: la Casa della Cultura era il luogo in cui l’intellettuale poteva incontrare i cittadini, misurarsi con l’opinione pubblica, mettere alla prova l’efficacia delle sue ricerche e delle sue proposte.
Tra la Casa della Cultura e Mario Vegetti si è sviluppata una collaborazione decennale che è andata sempre più intensificandosi: negli ultimi anni avevamo preso l’abitudine di ragionare assieme sui nodi culturali più complessi e di costruire di comune accordo alcuni degli incontri più impegnativi, come in occasione del centenario della rivoluzione russa.
Mario Vegetti è stato a lungo uno dei collaboratori più prestigiosi e autorevoli della Casa della Cultura. Ci ha lasciato una lezione di stile nella ricerca culturale e nell’impegno pubblico. Ha condiviso con noi la sua conoscenza e la sua passione civile. Ci ha onorato della sua amicizia. Si tratta di un patrimonio che non può andare perduto. La sua presenza in via Borgogna non può che continuare, come sempre.
Silvia Gastaldi
Silvia Gastaldi è professore ordinario di Storia della Filosofia antica nel Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Pavia. Le sue ricerche riguardano soprattutto la riflessione etico-politica greca del V e del IV secolo a. C. Ha pubblicato numerosi studi sulla Repubblica e sulle Leggi di Platone, sulle Etiche e sulla Politica di Aristotele. Tra le sue principali pubblicazioni si collocano i volumi: Aristotele e la politica delle passioni (Tirrenia Stampatori, Torino 1990); Storia del pensiero politico antico (Laterza, Roma-Bari 1998); Generi di vita e felicità in Aristotele (Bibliopolis, Napoli 2003); Aristotele. Retorica, Introduzione, traduzione e commento (Carocci, Roma 2014).
Una rivoluzione negli studi di antichistica
Designare con il termine “rivoluzione” tutto l’insieme di novità – dai temi affrontati alla metodologia adottata – introdotte da Mario Vegetti nell’ambito degli studi di antichistica non deve suonare come un’esagerazione retorica. Fin dall’inizio della sua carriera scientifica, Mario ha percorso vie nuove. Basti pensare ai suoi studi sulla medicina greca, condotti negli anni Sessanta, quando questo ambito non era ancora del tutto riconosciuto come parte integrante del pensiero filosofico antico, studi culminati con la pubblicazione delle Opere di Ippocrate nel 1965 e delle Opere biologiche di Aristotele nel 1971, curate, queste seconde, in collaborazione con Diego Lanza. Se guardiamo alla bibliografia di Mario nel periodo compreso tra gli anni Sessanta e Settanta, notiamo subito la prevalenza degli studi dedicati alla scienza greca: se vogliamo individuare un punto di svolta, che lo conduce a occuparsi del pensiero politico antico, dobbiamo assumere come data di riferimento il 1975, anno in cui viene pubblicato il saggio L’ideologia della città.
In questo mio intervento, cercherò di mostrare in che cosa è consistita la novità introdotta negli studi sulla città greca da questo lavoro, che ha dato avvio alla fondazione di vere e proprie “nuove antichità”, come suona il titolo del fascicolo monografico di Aut Aut curato da Mario nel 1981.
Partirei dai presupposti teorici che stanno alla base della composizione dell’Ideologia della città. Al primo posto collocherei la presa di distanza dal classicismo. La visione di un mondo classico popolato da individui armoniosi e perfetti come le statue che ci sono pervenute o, per usare le stesse parole di Vegetti, sede di un «repertorio metastorico di paradigmi di perfezione, tanto estetici quanto etico-politici e filosofici» (Intervista sul classico) è durata molto a lungo. Lo stesso Mario ricordava sempre come alla metà degli anni Cinquanta all’Università di Pavia, Remo Cantoni, uno dei suoi maestri, con cui poi si laureò, leggesse, durante il suo corso, Paideia di Werner Jaeger, «ultimo e più influente corifeo del classicismo», come lo definisce sempre nell’Intervista sul classico.[1]
Il distanziamento dal classicismo comporta come prima conseguenza un significativo mutamento lessicale: la sostituzione del termine “classico” con “antico”. Questa nuova dizione è priva del valore assiologico implicito nel termine “classico” e produce una distanza rispetto a noi, proprio quella che il classicismo intende invece colmare, valorizzando il cortocircuito tra passato e presente. Parlare di “antico” non significa tuttavia intendere gli oggetti di cui si parla come “remoti”: la lontananza nel tempo non è di ostacolo al nostro tentativo di comprensione, anzi colloca gli oggetti che intendiamo studiare nella corretta prospettiva rispetto a noi, al nostro presente.
Con quali modalità, dunque, ci si deve accostare all’antico? Vegetti riconosce come modello positivo l’atteggiamento archeologico di Michel Foucault, finalizzato – utilizzando le sue stesse parole – al «reperimento critico dei modi nei quali il rapporto con la tradizione, o con le tradizioni, dell’antico ha contribuito a forgiare la nostra modernità e a determinare la nostra visione del mondo» (Intervista sul classico).
Nella bella intervista rilasciata a Marco Solinas nel 2008 e pubblicata su Iride con il titolo significativo di Lo strabismo dello storico (fra gli antichi e noi), Vegetti dichiara di aver iniziato a leggere Foucault verso la metà degli anni Settanta e di averne tratto, anzitutto, gli strumenti per uscire dall’alternativa tra l’autonomia (e relativa astoricità) del pensiero teorico e la sua riduzione a “ideologia” intesa in senso marxista, cioè come sovrastruttura intellettuale rispetto alla struttura socio-economica.
Mi sembrano essere questi i presupposti che stanno alla base della composizione del saggio L’ideologia della città, redatto insieme all’amico Diego Lanza e pubblicato nel 1975 su Quaderni di Storia. Si tratta di una versione ampia, cui farà seguito una versione più breve, pubblicata nel volume omonimo, edito nel 1977 presso Liguori e infine la ripubblicazione nel reading, curato da Vegetti, dal titolo Marxismo e società antica, uscito per Feltrinelli sempre nel 1977.
Le pagine iniziali del saggio nella sua “edizione maggiore” mostrano una seconda presa di distanza. Ora ci si allontana da quella che F. M. Cornford aveva definito la marxist view della Filosofia antica[2] e che aveva circolato in molte pubblicazioni di ambiente anglosassone tra gli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento proprio come reazione all’ancora imperante classicismo. I nomi che vengono citati ne L’ideologia della città sono, tra gli altri, quelli di Thomson e di Farrington.[3] A questi studiosi viene imputato di non aver dato alcun rilievo alla specificità della società antica e di avervi individuato invece la presenza e lo sviluppo di fenomeni quali, come scrivono Lanza e Vegetti, «il mercantilismo, la produzione per il mercato, l’emergere come classe di una borghesia precapitalistica». Insomma, concludono gli autori, secondo questi studiosi «Il capitalismo appare già maturo tra il VI e il V secolo a. C. ».
Se la marxist view viene criticata, non sono invece ignorati quelli che Vegetti, sempre nell’intervista con Solinas, definisce «gli straordinari strumenti di comprensione delle realtà politico-sociali che il marxismo offre», sebbene applicati senza la preoccupazione – estranea anche a Diego Lanza – di mantenersi fedeli a una rigida ortodossia. Vegetti allude, a questo riguardo, alle critiche che erano giunte proprio dagli intellettuali più ortodossi. In questo senso mi sembra esemplare la recensione di Domenico Musti, esponente di spicco dell’Istituto Gramsci, a Marxismo e società antica,[4] in cui le affermazioni di Vegetti sono messe a confronto con passi dei testi marxiani per mostrarne la distanza, cioè la non ortodossia.
Sotto il profilo dell’utilizzazione degli strumenti di analisi marxisti, un contributo particolarmente fecondo proviene dagli studiosi francesi che, negli anni Sessanta, innestano su questi stessi strumenti un impianto strutturalistico. Il riferimento è a Vernant e alla sua scuola, che, pur partendo dallo studio del Capitale e dei Grundrisse marxiani, applicano alla società greca, riconoscendone la specificità, il concetto weberiano di status piuttosto che quello marxiano di classe, vedendo nella polis un centro di consumo piuttosto che di produzione, in assenza di un’economia di mercato. In questo ambito assumono una grande rilevanza per Lanza e Vegetti, anche gli studi di Karl Polanyi e di M. I. Finley.[5]
Ma è il modo di rappresentare la polis greca da parte degli esponenti della “scuola francese” che appare a Lanza e a Vegetti carente proprio sotto il profilo dell’individuazione dell’ideologia della città. Nelle loro opere, e soprattutto in quelle di Vernant, essa si identifica con una coscienza collettiva estesa a tutto il corpo sociale, che coincide a sua volta – sulla scorta degli studi di psicologia storica condotti con Meyerson – con una “mentalità”, cioè con una caratteristica globale del pensiero greco. In questo senso, la polis viene a configurarsi sì come «il luogo primario di appartenenza identitaria dell’uomo greco», come dice Vegetti nell’intervista a Solinas, ma rappresenta una formazione sociale coesa, un modello statico.
Da qui, dunque, nasce un’altra presa di distanza e l’elaborazione di quella “ideologia della città” cui fa riferimento il titolo dell’articolo di Lanza e Vegetti. La loro indagine si incentra sulla città per eccellenza, Atene, non solo perché è quella che ci tramanda la documentazione più vasta, ma che, come scrivono gli autori, è lo spazio in cui si costituisce la figura ideologica della città. In che cosa consiste l’”ideologia della città”? Con questo termine Lanza e Vegetti designano l’insieme di pratiche – dalle istituzioni politiche, alla produzione culturale, ai processi formativi – finalizzati all’integrazione di tutti i cittadini. La città deve pensarsi come una comunità, elemento fondamentale per superare le scissioni e le contrapposizioni che da sempre la percorrono. La polis non rappresenta davvero un modello statico, come lo era invece per la corrente classicistica e in un certo modo anche per Vernant e la sua scuola: l‘ideologia che si sviluppa e si alimenta al suo interno costruisce quello spazio politico che tiene sotto controllo le tensioni e produce l’omogeneità della comunità. Tra tutti gli aspetti che confluiscono a produrre l’ideologia della città, una particolare rilevanza è assegnata alla produzione culturale, e tra tutte al teatro, e in particolare alla tragedia, in cui il dialogo presentato sulla scena riflette le dinamiche dialettiche presenti tra i cittadini, oltre che i dilemmi etici e politici.
Con L’ideologia della città nascono, come dicevo all’inizio, le “nuove antichità”, che attestano il nuovo tipo di interesse per il «territorio dell’antico», come scrive Vegetti nell’Introduzione al fascicolo di Aut Aut del 1981 i cui contenuti – una serie di saggi di autori diversi (dagli stessi Vegetti e Lanza, a Vernant a Detienne, a Burkert, agli allora colleghi antichisti pavesi, tra cui Ferruccio Franco Repellini e Gian Arturo Ferrari, cui si univano le studiose medieviste Carla Casagrande, Chiara Crisciani e Silvana Vecchio) incentrati sul tema Metafore dell’immaginario, produzioni di saperi, figure del sacro, tanti aspetti diversi di un’interrogazione sull’antico che non si aspetta di produrre risposte certe, ma di sondare territori problematici, non ancora codificati.
Appare chiara a questo punto la novità che gli studi di Mario Vegetti ha introdotto nell’ambito dell’antichistica sotto il versante politico, una politicità che ha al suo centro la città e la ridefinizione della sua ideologia, da cui scaturiscono nuove immagini, nuovi modelli per pensare l’antico: questi studi hanno sempre costituito per noi suoi allievi, e non solo per noi, una via tracciata, un percorso da proseguire per comprendere anche la realtà dell’oggi.
Scritti di Mario Vegetti citati
• L’ideologia della città (in collaborazione con D. Lanza), ‘Quaderni di Storia’ 2, 1975, pp. 1-37, successivamente ripubblicato in D. Lanza, M. Vegetti et al., L’ideologia della città, Liguori, Napoli 1977, pp. 13-27 e in M. Vegetti (a cura di), Marxismo e società antica, Feltrinelli, Milano 1977, pp. 259-288.
• Intervista sul classico, in I. Dionigi (a cura di), Di fronte ai classici, BUR, Milano 2002, pp. 265-278, ora in M. Vegetti, Dialoghi con gli antichi, a cura di S. Gastaldi et al., Academia Verlag, Sankt Augustin 2007, pp. 305- 312.
• Nuove antichità: Metafore dell’immaginario, produzione di saperi, figure del sacro, “Aut Aut” 184-185, 1981.
• Ippocrate, Opere scelte, UTET, Torino 1965 (seconda edizione 1976).
• Aristotele, Opere biologiche, in collaborazione con D. Lanza, UTET, Torino 1971 (seconda edizione 1996).
• M. Solinas, Intervista a Mario
Vegetti, Lo strabismo dello storico (fra gli antichi e noi), “Iride” 21,
2008, pp. 529-566.
Note
[1] W. Jaeger, Paideia: Die Formung des griechischen Menschen, 3 voll., Berlin 1934-1947 (trad. it. Paideia, La Formazione dell’uomo greco, La Nuova Italia, Firenze 1936-1953).
[2] F. M. Cornford, The Marxist View of Ancient Philosophy, in W. K. C. Guthrie (ed.), The unwritten Philosophy and Other Essays, Cambridge University Press, Cambridge 1950, pp. 117-137.
[3] Si tratta dei due studiosi di cui si parla diffusamente, specie Farrington, nello studio di Cornford. Di G. D. Thomson si ricorda, in particolare: Studies in Ancient Greek Society: The Prehistoric Aegean, International Publishers, New York 1949. Anche il suo libro probabilmente più famoso, e cioè Aeschylus and Athens, la cui prima edizione risale al 1911, pubblicato a Londra presso Lawrence and Winshart, presenta un’impostazione marxista. B. Farrington è autore, tra l’altro, di Science and Politics in the Ancient World, Allen and Unwin. London 1939 (trad. it. Feltrinelli, Milano 1960).
[4] D. Musti, Marxismo, sociologia e mondo antico, “Studi Storici” 19, 1978, pp. 847-854.
[5] Di K. Polanyi è da ricordare anzitutto il saggio del 1957 Aristotle discovers the Economy, in K. Polanyi, C. M. Arensberg, H. W. Pearson, Trade and Market in the Early Empires, The Free Press, Glencoe Illinois 1957, pp. 64-94 (trad. it. Traffici e mercati negli antichi imperi, Torino, Einaudi 1978); The livelihood of man, ed. by H. W. Pearson, Academic Press, New York 1977 (trad. it. La sussistenza dell’uomo. Il ruolo dell’economia nelle società antiche, Torino, Einaudi 1983). Tra le molte opere di M. I. Finley, sono da menzionare The Ancient Economy, University of California Press 1973 (trad. it. L’economia degli antichi e dei moderni, Laterza, Roma-Bari 1977); Economy and Society in Ancient Greece, Chatto & Windus 1981 (trad. it. Economia e società nel mondo antico, Laterza, Roma-Bari 1984).
Eva Cantarella
Eva Cantarella compie i suoi studi presso il Liceo Classico Cesare Beccaria di Milano. Nel 1960 si laurea all’Università di Milano e completa la sua formazione presso Università straniere (Berkeley, Heidelberg). Allieva del giurista Giovanni Pugliese, ha svolto attività accademica presso le Università di Camerino, Parma e Pavia oltreché all’Università del Texas a Austin e a quella di New York, della quale è stata visiting professor. Ha pubblicato saggi sul diritto e su aspetti sociali del mondo greco e romano. Dal 1990 al 2010 è stata professore ordinario di istituzioni di diritto romano e di diritto greco antico all’Università statale di Milano. Tra i suoi ultimi libri: Come uccidere il padre. Genitori e figli da Roma a oggi, Milano, Feltrinelli, 2017; Gli amori degli altri. Tra cielo e terra, da Zeus a Cesare, Collana I fari, Milano, La nave di Teseo, 2018.
Madre Materia
Studi pioneristici sul femminile nell’antichità
È bello essere qui a ricordare Mario Vegetti, anche se sembra quasi impossibile non sia qui anche fisicamente con noi. Quello che lui è stato ed è per la Casa delle cultura e cosa è stata la Casa della cultura per lui è cosa che sappiamo tutti così come sappiamo tutti quanto negli anni Mario ci ha dato. Ed è questo senso di gratitudine nei suoi confronti quello che mi fa superare l’imbarazzo di essere qui a ricordarlo con degli amici a differenza dei quali io non ho alcuna competenza filosofica, avendo sempre studiato e insegnato una disciplina diversa – il che peraltro non mi ha impedito, grazie a quel che Mario ha detto e scritto, di apprendere da lui cose fondamentali nel mio campo di studi. E devo dire che quello che mi fa superare l’imbarazzo è il desiderio di spiegare quello che gli devo, e come e perché quello che ha detto e scritto sia stato fondamentale non solo per me, ma a per tutti quelli che si sono occupati del mondo antico in prospettiva diversa da quella filosofica. Mario infatti non era solo un professore (un grande professore). Era un maestro. E i maestri sono pochi, perché per esserlo non basta essere grandissimi studiosi: i maestri sono quelli che aprono prospettive nuove alla ricerca anche al di fuori del proprio settore: quello che Mario ha fatto grazie alla sua straordinaria capacità di collegare il discorso filosofico alla realtà sociale, di mettere in luce da un canto la sua derivazione da questa realtà e dall’altro gli effetti che produce su di essa. E prima di darne un esempio parlando della sua influenza nel campo della storia del diritto antico e nella storia delle donne, vorrei darne molto brevemente un altro legato al suo influsso sulla filologia ricordando un articolo di Mario dedicato all’«Io collerico» (nella specie quello di Achille) nel bel libro curato da Silvia [Vegetti Finzi; ndr.] sulla Storia delle passioni. Per decenni, nella seconda metà del secolo scorso, i filologi hanno accettato una teoria formulata da un grande filologo, Bruno Snell, per la quale l’uomo omerico non percepiva ancora se stesso come un’unità, ma come un insieme di parti fisiche e psichiche slegate. La ragione di questa singolare ipotesi era la asserita mancanza di una terminologia non solo per indicare l’anima, ma anche per indicare il corpo: psiche sarebbe stato solo ciò che animava il corpo, tenendolo in vita, e soma sarebbe stato solo il cadavere. Per indicare il corpo l’uomo omerico avrebbe usato termini che ne indicavano le parti specifiche, come melea (membra), chros (pelle) e via dicendo. Vegetti ha mostrato che l’uomo omerico aveva un sé non solo fisico, ma psichico unitario, costruito attorno a una passione, vale a dire l’ira. L’articolo di Mario ha cambiato la prospettiva con cui la grande maggioranza dei filologi guardava al problema.
Ma veniamo al tema sul quale vorrei più specificamente soffermarmi: la storia del diritto (nella specie antico) e quella delle donne. Per ragioni legate all’organizzazione dell’insegnamento universitario la storia del diritto non viene insegnata in quelle che si chiamavano facoltà di lettere, ma in quelle di giurisprudenza, nelle quali le regole del diritto antico – in particolare quello romano (obbligatorio) e là dove veniva insegnato quello greco – venivano studiato in sé e per se, indipendentemente da quelli che venivano chiamati “sociologismi”.
Venivano insegnate vale a dire al di fuori di qualunque riferimento alla realtà storica nella quale erano nate ed erano state applicate. Una specie di diritto in vitro, in provetta, la cui funzione avrebbe dovuto essere quella di insegnare le regole che sono alla base del diritto privato non solo italiano ma di quasi tutti i diritti europei, eccezion fatta per i sistemi di common law (quello inglese e quindi nordamericano). Un diritto fuori della storia
Ebbene: leggere Vegetti voleva dire vedere aprirsi percorsi, sentieri, strade lungo le quali (in un’epoca in cui l’interdisciplinarità non era solo sospettata, era malvista) i maestri di allora non amavano che i loro allievi si avventurassero. E di questa apertura a nuove praterie hanno beneficiato non solo quelli che allora erano studenti, ma anche quelli come me, che erano allora giovani studiosi.
Mario, insomma, è stato un maestro anche per me e per la mia (e sua) generazione perché quello che lui pensava, diceva e scriveva indicava percorsi esterni al mondo separato da rigide partizioni disciplinari, all’interno del quale sino a quel momento ci eravamo mossi.
E per darvi un esempio e una prova di quello che sto dicendo faccio un breve riferimento al filone di studi al quale in quel momento mi dedicavo e al quale ho continuato a dedicarmi con particolare interesse, vale a dire la storia della condizione femminile.
E lo farò partendo dall’influsso che ha avuto in questo campo un libro bellissimo e molto importante intitolato Madre Materia,[1] dedicato appunto alla condizione femminile, del quale avevo cominciato a occuparmi da alcuni anni, e alla quale avevo dedicato da poco (per l’ esattezza, nel 1981) un libretto nel quale, da storica del diritto, mettevo in evidenza le pesantissime discriminazioni giuridiche di cui le donne greche e in particolare ateniesi erano state vittime.
Madre Materia era uscito nel 1983, con una Presentazione di Mario, che iniziava con queste parole: «Nel campo degli studi sulla donna nell’antichità non è più tempo dello scandalo e delle denunce. L’uno e le altre, erano stati motivati, a dire il vero, da un’evidenza nota da sempre, ma ricoperta e occultata dalla patina del classicismo: la radicale inferiorità della donna, nelle società antiche, fondata dalla catena dei pregiudizi di una mentalità che sfiora talvolta la ginofobia. Non appena scalfito il classicismo con gli strumenti dell’antropologia sociale e della critica all’ideologia, questa evidenza tornava a imporsi, e la figura della donna si aggiungeva, nella fenomenologia dell’esclusione sociale, a quelle dello schiavo, del barbaro, per altri versi del povero. Ma proprio l’impiego metodico di questi strumenti ha imposto di sostituire l’emozione con il lavoro dell’analisi, con l’indagine della funzione dei ruoli sessuali nei processi complessivi di riproduzione sociale e nelle forme di cultura che li accompagnano».
Così scriveva Vegetti, introducendo i tre saggi che componevano il volume, che affrontavano il problema femminile «non direttamente al livello della sua collocazione sociale, ma nell’ambito della formazione di saperi forti, come quello aristotelico e la tradizione della medicina ginecologica».
E qui si impone una precisazione, che rende Madre Materia un libro che illustra meglio di qualunque discorso un altro aspetto della sua natura di maestro: i saggi in questione non erano firmati da lui, ma da tre sue giovani allieve. Io non so se fosse stato lui a suggerire esplicitamente i temi, che certamente comunque non aveva imposti (come, allora, era abitudine pressoché generale). I temi dei tre saggi erano evidentemente nati dalle suggestioni, dagli input che le sue lezioni e i suoi seminari davano a chi li seguiva. E quando i risultati del suo insegnamento producevano i loro frutti, come quelli che compongono Madre Materia, il maestro generosamente si ritraeva, attribuendo esclusivamente agli allievi meriti e paternità (nella specie maternità!) dei risultati. Credetemi, al termine della mia lunga carriera accademica, posso dirvi che non è cosa abituale.
Ma veniamo più specificamente ai contenuti. Il primo saggio, di Silvia Campese (Madre materia: donna, casa, città nell’antropologia di Aristotele) ricostruisce la funzione di riproduzione sociale affidata alle donne attraverso la lettura della Politica e dell’Etica Nicomachea;il secondo saggio, diGiulia Sissa, intitolato Il corpo della donna: lineamenti di una ginecologia filosofica (basandosi a sua volta su Aristotele) ricostruisce – attraverso la Historia anumalium e il De generazione – i paradigmi della riproduzione biologica; il terzo, di Paola Manuli, dedicato a Donne mascoline, femmine sterili, vergini perpetue. La ginecologia greca tra Ippocrate e Sorano, individuava i percorso attraverso il quale la ginecologia antica studiava la patologia della riproduzione identificando la sterilità come la causa e al tempo stesso come effetto della «sindrome isterica».
Ed è al crocevia di questi saperi forti, osserva Vegetti, che «si costituisce la figura epocale della madre materia – Madre perché la donna è pensabile (e accettabile) solo come sessualità riproduttiva della famiglia e della città, come “strumento animato”, quindi, delegato al prolungamento biologico del “padre cittadino”. Materia, perché questo ruolo la vincola a una fecondità potenziale e quindi amorfa e passiva, ma docile all’informazione maschile […]». Una forma di riconoscibilità del femminile che «mette immediatamente in opera potenti dispositivi di esclusione di qualsiasi forma di desiderio non riproduttivo, di presenza sociale non strumentale: desideri e presenze che i saperi sulla donna sono in grado di codificare come degenerazioni patologiche del corpo, della famiglia e della città». Non credo ci sia bisogno di dire altro per mostrare l’importanza di un libro come Madre Materia, che andava ben oltre la denuncia dell’esclusione, alla quale in quegli anni si era ancora fermi: identificando i paradigmi con i quali i saperi alti dei greci l’avevano giustificata consentiva, tra l’altro, di constatare la lunghissima durata di questi nelle storia europea. A dare alcuni esempi della quale, facendo un salto cronologico molto ampio, possiamo vedere qualche esempio nella Germania dell’Ottocento, quando Josef Görres (nato sul finire del secolo precedente), vedendo tradite le speranze rivoluzionarie – ovviamente della Rivoluzione Francese – dedicandosi in pieno clima romantico alla mitologia e alla cosmologia formula una teoria secondo la quale la differenza sessuale sulla terra sarebbe stata il riflesso della differenza sessuale che percorreva il cosmo, che identificava il maschile con le nature spirituali, la luce e la libertà; il femminile con quelle materiali, gravitazionali e con la necessità.
Né le cose cambiano molto se da Görres passiamo, sempre in Germania nell’Ottocento, a un altro celebre esempio: Jacob Grimm, uno dei famosi fratelli Grimm, che formula una teoria della differenza sessuale in campo linguistico secondo la quale la forma attiva del verbo è maschile, la forma passiva è femminile, e le vocali più elementari sono femminili, mentre le consonanti, frutto più elaborato della riflessione, sono maschili.
Gli esempi
potrebbero continuare: questi sono alcuni tra i moltissimi che aiutano a capire
l’importanza dell’insegnamento dato da Mario opponendosi a un classicismo che
degli antichi vedeva solo i grandissimi lasciti, ignorando gli aspetti meno
gloriosi e glorificati della loro cultura e gli importanti e non meno duraturi
effetti che anche questi hanno lasciato nella nostra storia, per arrivare a
volte sino al presente.
[1] Silvia Campese – Paola Manuli – Giulia Sissa, Madre Materia. Sociologia e biologia della donna greca, presentazione di Mario Vegetti, collana “Società antiche” diretta da Mario Vegetti, Boringhieri, Torino 1983.
Franco Ferrari
Franco Ferrari (1964) è professore ordinario di Filosofia antica presso l’Università di Salerno. È stato allievo di Mario Vegetti a Pavia; con lui ha collaborato alla traduzione commentata della Repubblica di Platone. Humboldt-Stipendiat presso l’Università di Münster, ha collaborato al progetto «Der Platonismus in der Antike» diretto da Matthias Baltes (1997-2002). Attualmente è coordinatore del comitato editoriale della International Plato’s Society. I suoi interessi di ricerca si concentrano sulla filosofia di Platone e sul platonismo antico. Nella collana dei «Classici Greci e Latini» della Bur ha tradotto e commentato il Parmenide, il Teeteto e il Menone di Platone. A Platone ha recentemente dedicato un’esposizione di carattere generale: Introduzione a Platone (Il Mulino).
L’inattualità di Platone. Politica e utopia
In apertura di una bella intervista biografica pubblicata sulla rivista «Iride» nel 2008, Mario Vegetti spiegava che l’incontro con Platone e in particolare con il «Platone politico» era avvenuto in lui relativamente tardi. In effetti, sebbene di Platone Vegetti si fosse occupato fin dalla seconda metà degli anni Sessanta, soprattutto nell’ambito delle sue ricerche sul corpus ippocratico, il confronto serrato con la filosofia politica platonica divenne ineludibile, come lo stesso studioso ha riconosciuto, dopo la pubblicazione del volume L’etica degli antichi, una sintesi magistrale della riflessione etico-morale sviluppata dagli autori greci e latini. Qui Vegetti non si limitava a ricostruire, servendosi anche degli strumenti offerti dalla filosofia analitica con la quale era nel frattempo entrato in contatto, le argomentazioni fornite dai filosofi antichi a favore di questa o di quella concezione etica, ma si proponeva di valutarne la consistenza filosofica e l’eventuale spendibilità all’interno del dibattito contemporaneo. Esattamente a questo livello si situavano le sue riserve nei confronti di un approccio etico di tipo prevalentemente descrittivo, in qualche modo implicito nel nesso stabilito da Aristotele (e in misura diversa probabilmente anche dagli Stoici) tra «naturale», «normale» e «normativo» (si veda anche Aristotele e la filosofia pratica).
Il pensiero etico e politico di Platone si presentava agli occhi di Vegetti come un formidabile antidoto a un’attitudine di questo genere, perché sembrava effettivamente rompere il legame tra natura e norma e progettare un piano dei fini del tutto irriducibile tanto alla realtà storico-politica, quanto alla normalità naturale. Ciò significa che, contro la diffusa tendenza a vedere in Aristotele l’interlocutore antico privilegiato per la riflessione etica (e politica), Vegetti avvertì l’esigenza di rivolgersi a Platone, concepito come il modello di una «grande politica», vale a dire di una politica animata dall’ambizione di trasformare demiurgicamente il mondo morale e sociale degli uomini. Scriveva in proposito lo studioso: «quando parlo di grande politica intendo, in primo luogo, una politica che abbia relazioni esplicite, fondative, con un’etica, e oltre essa con un’antropologia: una politica cioè orientata da un qualche insieme di valori, che a loro volta abbiano un rapporto con la natura umana e con la sua (eventuale) perfettibilità» (Un paradigma in cielo, p. 174 sgg.).
Il confronto con il pensiero etico e politico di Platone fu per Vegetti prima di tutto, sebbene non esclusivamente, un confronto con il dialogo più celebre, complesso, problematico e spesso frainteso del grande filosofo, ossia la Repubblica, alla quale egli ha consacrato almeno due decenni di ricerche, destinate a trovare la loro sintesi nella spettacolare traduzione commentata in sette volumi dell’opera, pubblicata nella prestigiosa collana «Elenchos» dell’editore Bibliopolis tra il 1998 e il 2007. La realizzazione di una simile impresa «collettiva» costituiva agli occhi di chi la progettò una reazione all’individualismo competitivo che anima la nostra epoca (anche nel mondo universitario), e insieme un omaggio alla consuetudine collaborativa, ossia alla synousia, che doveva caratterizzare la vita dell’Accademia, la scuola fondata da Platone. Per comprendere il significato dell’operazione esegetica compiuta da Vegetti, è opportuno spendere due parole sullo stato della ricezione del pensiero politico platonico e in particolare della Repubblica nel corso del dopoguerra. Come Vegetti ha mostrato analiticamente nel suo bellissimo libro Un paradigma in cielo, la fruizione della Repubblica è stata vincolata a una serie di assunti esegetici finalizzati nella sostanza a neutralizzare (o a disinnescare) il formidabile atto di accusa mosso da Karl Popper nel celebre libro The Open Society and its Enemies, scritto durante l’esilio in Nuova Zelanda e pubblicato nel 1944. Come è noto, Popper considerava Platone il capostipite del filone totalitario, organicista, collettivistico-tribale, antiliberale e antidemocratico del pensiero occidentale, che avrebbe avuto in Hegel e Marx i suoi epigoni, e nel nazismo (via Hegel) e nel bolscevismo stalinista (via Marx) le ultime e terribili manifestazioni. Dal punto di vista filosofico Popper rimproverava a Platone, di cui riconosceva comunque l’abissale profondità di pensiero, due assunzioni teoriche, dalle quali sarebbe discesa l’impostazione totalitaria della sua concezione politica e l’opzione in favore di una società «chiusa»: si tratta dello storicismo regressivo, che àncora la perfezione a un modello eterno e astorico, e dell’ingegneria sociale utopica, accompagnati entrambi da una forte componente estetizzante. Vegetti ricostruisce in questi termini la strategia che Popper ascrive a Platone: «c’è in primo luogo l’ordine dei fini: la teoria delle idee è lo strumento teorico che consente di delineare, e di fondare, il modello dello stato perfetto, per definizione immutabile e invariante. Ciò posto, il problema dell’ingegnere sociale utopico è quello di progettare i mezzi adeguati al conseguimento della finalità così stabilita» (Un paradigma in cielo, p. 115). Tanto la determinazione dell’orizzonte normativo, quanto l’individuazione dei fini atti a realizzarlo risultano sottratti a ogni forma di dibattito e finiscono inevitabilmente per esporsi all’arbitrio e alla violenza. Alle spalle di simili critiche si legge la ragione di fondo dell’aspra polemica di Popper, consistente nel rifiuto radicale di ogni pensiero utopistico e la sua opzione in favore di una politica gradualistica, che rifugga da ogni tentazione rivoluzionaria.
I tre provvedimenti intorno ai quali prende forma il programma “utopico” delineato nella Repubblica attengono, come è noto, a) all’uguaglianza dei generi rispetto ai compiti di governo, b) alla soppressione, limitatamente al ceto dei governanti e a quello dei difensori, della dimensione privata, sia sul piano affettivo, sia su quello patrimoniale, ossia all’abolizione dell’oikos, luogo degli affetti e dell’accumulazione di ricchezza, e c) all’assegnazione ai filosofi del governo della città. La natura eversiva e per certi aspetti rivoluzionaria di simile provvedimenti dovette essere avvertita dallo stesso Platone, che infatti li assimila a vere e proprie «ondate» (kymata), che rischiano di esporre alla derisione chi si avventuri a proporle, e fu certamente la ragione del sarcasmo con cui il tradizionalista Aristofane si scagliò contro la kallipolis immaginata nella Repubblica. Del resto, come ha mostrato in maniera convincente Luciano Canfora, il tema dell’utopia costituì il principale, sebbene non l’unico, motivo di frizione tra Platone e il grande commediografo. È poi appena il caso di ricordare come l’abolizione della famiglia e della proprietà, sia pure solamente per i ceti chiamati a funzioni direttive, costituisca qualcosa di simile a uno scandalo sia per la coscienza naturaliter cristiana dell’Occidente, sia per l’individualismo liberista sul quale si fonda, in forma diretta o indiretta, la modernità.
Si comprende, dunque, come la circolazione di Platone nel dibattito etico e politico del dopoguerra sia transitata attraverso un processo di depotenziamento o di vera e propria neutralizzazione della portata eversiva delle tesi esplicitamente affermate nella Repubblica. Si direbbe, come Vegetti ha affermato numerose volte, che per molti decenni l’esegesi della filosofia politica platonica sia ruotata intorno all’obiettivo di «difendere Platone da Popper» (e forse da se stesso). Le strategie di difesa approntate a questo scopo sono state diverse e articolate, e tuttavia non tutte si collocano sullo stesso piano per profondità filosofica e solidità filologica. In questa sede mi limito a segnalare le due più interessanti: a) la prima è tesa a dimostrare, attraverso una lettura ironico-trasversale dei testi, che Platone non considerò né desiderabili né realizzabili i provvedimenti esposti nella Repubblica, i quali costituirebbero o il prodotto di un gioco razionale presentato all’interno del genere letterario dell’utopia (Gadamer), oppure la dimostrazione, – effettuata per mezzo dell’attribuzione a Platone del metodo della dissimulazione, – dell’impossibilità antropologica di un progetto che stabilisca l’unità di filosofia e politica (Strauss e, con accenti diversi, Vogelin, anch’egli animato comunque da una forte vis polemica nei confronti di Popper); b) la seconda, particolarmente diffusa nell’area culturale anglosassone e la cui massima esponente è Julia Annas, è orientata a negare al percorso teorico delineato nella Repubblica ogni significato politico, dal momento che lo scopo del dialogo sarebbe unicamente quello di argomentare sul piano etico-morale in favore della tesi dell’autosufficienza della virtù per il conseguimento della eudaimonia.
Pur riconoscendo a entrambe queste strategie di difesa una certa consistenza filosofica e una qualche legittimità storiografica, Vegetti ne mette in luce, in maniera efficace, i presupposti e le finalità più o meno esplicitati, che nel caso di Strauss e Vogelin consistono nel tentativo di sottrarre Platone alla modernità per farne in qualche modo il capostipite della filosofia classica, conservatrice, costitutivamente estranea a ogni forma di utopismo, consapevole dei limiti strutturali della politica e della sua sostanziale incapacità di realizzare sulla terra il «regno della perfezione», per Gadamer nel tentativo di costruire una tradizione cristiano-liberale capace di integrare anche Platone, mentre nel caso di Annas e degli interpreti «moralisti» vanno individuati nell’obiettivo di fare di Platone un pensatore estraneo alla politica, unicamente rivolto al miglioramento etico dell’uomo e dunque perfettamente omogeneo al filone «etico» che da Socrate giunge fino allo stoicismo.
Sia gli uni che gli altri tradiscono, secondo Vegetti, il senso del pensiero platonico, ne neutralizzano la componente utopica e progettuale, azzerando il ruolo che in esso esercita la forza dell’immaginazione (mythologein), in grado di costruire un orizzonte di finalità irriducibile all’esistente. Nello sforzo di rendere Platone omogeneo a una presunta filosofia classica aliena dall’utopia o di farne un interlocutore integrabile nel dibattito filosofico contemporaneo, entrambe queste linee esegetiche depotenziano il significato di un pensiero la cui grandezza risiede proprio nella sua irriducibilità al nostro modo di concepire la politica e dunque in una certa forma di inattualità. Vegetti riconosce in Popper un lettore attento e largamente affidabile di Platone, certamente più profondo di tanti laudatores contemporanei. In particolare a Popper si deve il merito, contro una tendenza diffusa da circa un secolo e risalente a Hegel, di avere preso sul serio le «indicazioni programmatiche» esposte nella Repubblica relative alla kallipolis e di averne messo in luce l’assoluta irriducibilità a ogni forma di pensiero «liberal-democratico». Contro Gadamer, Strauss, Vogelin e i loro epigoni, Vegetti può sostenere, appellandosi a una serie di riflessioni metadiscorsive sviluppate da Platone nei libri V-VII della Repubblica, che le tre «ondate» contenute nel V libro risultano per l’autore sia desiderabili (ta beltista), sia in qualche misura possibili (dynata), cioè realizzabili. In conclusione del VII libro Socrate arriva ad affermare che la costituzione descritta «non è del tutto un pio desiderio, ma cosa bensì difficile da realizzarsi, in qualche modo però possibile, e non diversamente da come si è detto, una volta che i veri filosofi avranno assunto il potere nella città» (540d).
Secondo Vegetti lo statuto del programma descritto nella Repubblica è quello di un’utopia progettuale, del tutto irriducibile all’utopia di evasione prospettata da Gadamer: «progettuale, perché la sua realizzazione è desiderabile e possibile, o almeno non impossibile, benché difficile e necessariamente imperfetta» (Un paradigma in cielo, p. 163). Del resto Platone stesso sembra alludere alla natura paradigmatico-normativa della città perfetta ricostruita dall’immaginazione filosofica quando, verso la fine del V libro, invita a trovare una forma di governo che si approssimi in massimo grado (hos engytata) a quella di cui ha parlato (473a-b). Nel linguaggio della filosofia contemporanea si tratterebbe di una teoria normativa, che stabilisce i fini e gli strumenti atti a realizzare una società giusta. Tralascio di discutere le obiezioni che Vegetti muove all’interpretazione «etica» della Repubblica, la quale può appellarsi, oltre che alla celebre analogia tra il microcosmo dell’anima e il macrocosmo della città stabilita da Platone nel II libro, a un’affermazione contenuta alla fine del IX libro (il celebre sintagma heauton katoikizein, solitamente tradotto con «fondare una città giusta in se stesso»), di cui tuttavia Vegetti propone un’interpretazione alternativa e filologicamente meglio fondata, il cui esito consiste nel richiamo alla valenza normativa che il modello eidetico, collocato en ourano, ossia nel cielo, esercita per l’attività politica. Vegetti ha spesso assimilato la filosofia politica di Platone a un programma illuministico, perché si fonda sull’idea di un’alleanza tra sapere e potere, tra la ragione filosofica e il governo della città. In realtà l’importanza di Platone, le ragioni che motivano l’esigenza di fare i conti con la sua filosofia politica, si situano a un altro livello, e in particolare dipendono dalla natura di un progetto che assume il profilo della grande politica. Da questo punto di vista il richiamo a Platone nel dibattito filosofico-politico odierno comporta, per Vegetti, prima di tutto la consapevolezza di trovarsi di fronte a un pensiero irriducibile a quello contemporaneo, ma che forse proprio per questa ragione consente di mettere in discussione la presunta naturalità di quest’ultimo. Non si tratta di difendere Platone dagli attacchi del liberal-democratico Popper, ma di valutare senza pregiudizi i presupposti filosofici, politici e antropologici di entrambi, anche con l’obiettivo di relativizzare ciò che nella modernità appare assoluto, ossia l’individualismo proprietario.
Vorrei chiudere questo breve profilo del mio maestro menzionando un libretto da lui preparato per una collana di «Falsi d’autore». Si trattava di immaginare il ritrovamento di un manoscritto contenente un libro perduto della Repubblica di Platone (e la Lettera XIV). Vegetti attribuisce questa sensazionale scoperta, avvenuta nel 1937 in un convento dell’Armenia, a uno studioso sovietico dal non casuale nome di Josiph Vissarionovich. Il protagonista di questo immaginario XI libro della Repubblica è «uno straniero piuttosto tozzo e tarchiato, con una gran testa, un’incolta barba grigia e lo sguardo penetrante, cui faceva da seguito una piccola folla di manovali o di schiavi da poco liberati dalle loro catene». Questo Marx che dialoga con Socrate e con Trasimaco, delineando i contorni di una società certamente impensabile per Platone, una società senza sfruttati né sfruttatori, senza ricchi né poveri, rappresenta l’estrema concessione di Vegetti – nella forma di un ironico divertissement – alla passione politica che lo ha sempre accompagnato, alla sua fiducia in un comunismo aperto e libertario, tanto inattuale quanto ineludibile, almeno per una riflessione che non si accontenti di registrare passivamente il presente, ma si proponga di immaginare criticamente – forse platonicamente – il futuro.
# # NOTA BIBLIOGRAFICA# # Una versione più ampia di questo contributo è in corso di pubblicazione presso la rivista «Iride». I lavori di Mario Vegetti utilizzati per la stesura di questa pagine e di cui nel testo si dà menzione in forma abbreviata sono i seguenti: # L’etica degli antichi. Roma-Bari: Laterza 1989. # Aristotele e la filosofia pratica: qualche problema, «Paradigmi», 11 (1993) pp. 237-248. # Platone e la medicina, Venezia: Il Cardo 1995. Platone, La Repubblica, a cura di M. Vegetti, vol. I-VII, Napoli: Bibliopolis 1998-2007. # Guida alla lettura della Repubblica di Platone, Roma-Bari: Laterza 1999. # Quindici lezioni su Platone, Torino: Einaudi 2003. # Platone, Repubblica, libro XI / Lettera XIV. Socrate incontra Marx, lo Straniero di Treviri, Napoli: Guida 2004. # Lo strabismo dello storico (fra gli antichi e noi). Intervista teorico-biografica, a cura di M. Solinas, «Iride», 21 (2008) pp. 529-566. # “Un Paradigma in cielo”. Platone politico da Aristotele al Novecento, Roma: Carocci 2009. # Il potere della verità. Saggi platonici, Roma: Carocci 2018. # Tra gli altri contributi menzionati o comunque utilizzati nel testo si segnalano: # J. Annas, Platonic Ethics: Old and New, Ithaca-London: Cornell University Press 1999. # L. Canfora, La crisi dell’utopia. Aristofane contro Platone, Roma- Bari: Laterza 2014. # F. Ferrari, Platone illuminista? A proposito di un libro di Mario Vegetti, «Rivista di Storia della Filosofia», 65 (2010) pp. 507-514. # H.G. Gadamer, Platone e il pensare in utopie, in L’anima alle soglie del pensiero nella filosofia greca, Napoli: Bibliopolis 1988, pp. 61-91. # K.R. Popper, La società aperta e i suoi nemici, vol. 1: Platone totalitario, trad. it. Roma: Armando 1996. # L. Strauss, La città e l’uomo. Saggi su Aristotele, Platone, Tucidide, edizione italia a cura di C. Altini, Genova-Milano: Marietti 2010. # E. Vogelin, Ordine e storia. La filosofia politica di Platone, trad. it. Bologna: Il Mulino 1986. # F. Zuolo, Platone e l’efficacia. Realizzabilità della teoria normativa, Sankt Augustin: Academia 2009.
Fulvia de Luise
Fulvia de Luise è professore Associato di Storia della Filosofia Antica presso il Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università di Trento. Ha conseguito la Laurea in Filosofia presso l’Università degli Studi di Napoli e il Diploma di Perfezionamento in Storia della Filosofia Antica presso l’Università degli Studi di Pavia con una tesi dal titolo «Scrittura del dialogo e comunicazione filosofica in Platone». Dal 1994 al 2007 ha partecipato al seminario di studio sulla Repubblica di Platone, diretto dal prof. Mario Vegetti presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università agli Studi di Pavia. Ha svolto un’intensa attività di ricerca sui modelli antropologici ideali nel pensiero antico e sul tema della felicità nel pensiero antico e moderno, pubblicando due monografie, in collaborazione con G. Farinetti (Felicità socratica, Hildesheim 1997; Storia della felicità. Gli Antichi e i moderni, Torino 2001). I suoi studi si sono rivolti inoltre all’interpretazione della scrittura platonica, con particolare riferimento, oltre che alla Repubblica, al Fedro e al Simposio, di cui ha curato edizioni commentate.
La scrittura dell’utopia
Come mettere in moto un paradigma normativo
1. La scrittura politica della Repubblica
Restituire alla Repubblica il suo carattere eminentemente politico è stato il movente principale del progetto di ricerca che Mario Vegetti ha concepito nei primi anni Novanta. L’esigenza di farlo aveva come sfondo la grande disputa sui paradigmi interpretativi degli anni Settanta-Ottanta, in cui a un modello ermeneutico centrato su ciò che nei dialoghi c’è scritto si era opposto un modello orientato alla ricostruzione della parte non-scritta delle cosiddette ‘dottrine’ platoniche. C’era poi una diffusa tendenza a difendere il testo della Repubblica da se stesso, cioè dalle sue tesi più urtanti per la coscienza liberal-democratica, quelle denunciate come radici del totalitarismo da Karl Popper (1944) e derubricate a provocazioni intrise di ironia da Leo Strauss (1964); il che significava in molti casi, anche per alcuni interpreti autorevoli, come Julia Annas (1997 e 1999) e Giovanni Ferrari (2003), privilegiare i significati morali della ricerca platonica a scapito di quelli politici: un vero rovesciamento dell’ordine seguito nel dialogo della Repubblica per la ricostruzione politica della giustizia, prima nella città e poi nell’anima. Mario Vegetti ha dedicato uno studio attento e continuo ai motivi profondi per cui nella storia delle grandi interpretazioni del pensiero di Platone, e soprattutto nel quadro culturale segnato dalle tragedie politiche del Novecento, «la Repubblica è diventata impolitica».[1] Ed è dalla comprensione storica e filosofica di queste ragioni che nasce l’esigenza di rimuovere il loro impatto sulla lettura della Repubblica, per restituire al dialogo il carattere progettuale che gli è proprio e che si presenta al lettore come la scrittura di un’utopia politica. Il progetto di commento integrale concepito da Mario Vegetti, e realizzato con l’edizione commentata dei dieci libri della Repubblica in sette volumi (1998-2007), comportava un impegno più che decennale, che doveva concludere il suo personale percorso scientifico, ma realizzarsi nella forma di un’impresa collettiva: un seminario permanente sull’interpretazione del monumentale testo platonico che avrebbe dato vita a un commentario a più voci sul significato del testo. Io non credo di aver capito subito le implicazioni dirompenti di questo stile di lavoro, che da un lato si presentava con il tratto comunitario di una scuola, ma dall’altro non poneva alcuna pregiudiziale o scelta di indirizzo interpretativo. Come se la verità del testo dovesse emergere direttamente dalla forza comunicativa della scrittura platonica, in ciascuna delle parti che sarebbero state affidate ai partecipanti all’impresa.
2. Una lettura di grado zero vincolata solo alla struttura semantica del testo
Ciò che in realtà era presente fin dall’inizio, ma che solo progressivamente ho compreso nella sua reale portata di rivoluzione metodologica, era l’idea di procedere a una rilettura radicale del testo, completamente fedele alla sua struttura semantica, prendendo sul serio tutto ciò che il dialogo effettivamente dice, senza omissioni e senza immissioni di concetti e criteri elaborati a partire da altri luoghi platonici. Che questa fosse la sua intenzione, Vegetti lo dice con estrema chiarezza, in quella che è forse la sua ultima presa di posizione in materia di metodo e in difesa della «fedeltà ai testi», cioè nell’introduzione alla sua ultima raccolta di scritti platonici, che ha l’impegnativo titolo Il potere della verità (in stampa al momento della sua morte): «Mi preme soprattutto sottolineare l’esigenza di non integrare i testi, supplendo a quello che non dicono, e di non correggere o ignorare quello che invece dicono esplicitamente; si tratterà piuttosto, nel primo caso di interpretare le ragioni di silenzi e omissioni, nel secondo di interpretare tesi magari inaccettabili per il lettore».[2] Ancora più significativo e rivelatore anche delle ragioni extra-filologiche di questa scelta è ciò che soggiunge subito dopo tra parentesi: «non è detto che lo studioso di Platone debba condividere tutto ciò che Platone dice: questa identificazione patologica è il principio e la ragione di tante forzature dei testi, che mirano a far loro dire ciò che vorremmo dicessero per poter essere d’accordo. Amicus Plato…».[3] Che cosa significa ammettere la possibilità di non essere d’accordo con quanto Platone dice? Significa stabilire un rapporto dialettico, un rapporto di distanza e non di patologica vicinanza, col testo: chiudere la strada all’appropriazione indebita con cui ci si mette sotto l’ombrello del principio di autorità, e sviluppare invece un dialogo onesto e produttivo con ciò che l’autore trasmette e significa attraverso il testo, entrando in un rapporto vivo con le sue intenzioni strategiche, sul terreno da lui scelto, che per Platone è quello caldo e potenzialmente conflittuale della politica. Di qui l’attenzione estrema al modo di produrre significati della scrittura platonica: stili linguistici e singole parole, personaggi e dinamiche teatrali, campi metaforici e strutture argomentative diventavano specifici oggetti di indagine, senza un ordine ‘filosofico’ di importanza che prefigurasse il rilievo dei risultati a venire. Una sorta di katharsis, una depurazione da tutte le incrostazioni ermeneutiche, precedeva idealmente l’apertura del lavoro analitico, che avrebbe fatto emergere dal testo le sue figure di senso, senza attribuirgliene nessuna in anticipo. Da vincolo generale funzionava il rispetto dell’autonomia di ogni singolo libro della Repubblica: l’unità dialogica cui poteva applicarsi con una certa sicurezza la regola di coerenza che Platone aveva enunciato nel Fedro, dicendo che ogni discorso ben scritto deve avere la forma di un «organismo animato (zoon)» (Fedro 264c). Ma con ben altra cautela, e certo solo dopo lo scavo analitico nei singoli libri, il modello del ‘corpo vivente’ avrebbe potuto essere applicato all’insieme della Repubblica. Guidando la ricerca dei punti chiave nella rete semantica del testo, Vegetti segnalava luoghi e aspetti meritevoli di particolare attenzione, che si distribuivano tra i partecipanti all’opera collettiva. Una volta scelto il terreno di indagine, ciascuno aveva libertà di scavare a piacere in quella particolare zolla. Di anno in anno, sempre più sorprendente, non prevedibile, quasi interamente privo dei filtri di una coerenza preordinata o censoria, era il risultato complessivo dell’analisi, che si prestava a diversi tipi di sintesi.
3. I capisaldi finali dello scavo di Vegetti. Tra κατέβην e κατοικίζειν
Da questa fedeltà alle strutture semantiche del testo sono emersi quelli che, a lavoro finito, mi sono parsi i capisaldi del lavoro di scavo che Vegetti ha condotto in prima persona, nel quadro dell’opera collettiva. Lo troviamo non a caso attento a presidiare i luoghi di inizio e di fine del discorso con cui Platone dà vita e visibilità al paradigma di una città «perfettamente buona». Dell’importanza di questi due punti per la comprensione del disegno e del movimento complessivo della Repubblica vorrei ora accennare brevemente, per dire in che senso essi mi si sono rivelati, attraverso l’analisi di Vegetti, dispositivi cruciali per capire come funziona, a livello teorico e pratico, il paradigma politico delineato nel dialogo. Letteralmente: per capire come si mette in moto un paradigma costruito per essere normativo, cioè per dare una disciplina all’azione. Si tratta in realtà di due parole, tra cui l’intero lavoro di costruzione teorica si sviluppa. La prima è κατέβην, «scendevo», la prima parola della Repubblica, con cui il personaggio Socrate enuncia l’azione che lo porterà ad immergersi nel mondo umano che si raccoglie al Pireo, porto di Atene, ambiente misto di cui dovrà assimilare fino in fondo gli umori e i conflitti. La seconda è κατοικίζειν, che significa ‘andare ad abitare’ o ‘colonizzare’, usata alla fine del libro IX per indicare quale sia l’uso possibile del modello, appena costruito «en logois» (cioè solo a parole e in teoria), di una città che ora si rende visibile ben in alto al termine del percorso compiuto, come «un paradigma in cielo». L’attenzione analitica che Vegetti dedica a queste due parole, il modo in cui riesce a farne le chiavi di volta di una lettura profondamente politica, teorica e pratica allo stesso tempo, del testo platonico è qualcosa che non cessa di suscitare in me la meraviglia: quel tipo particolare di meraviglia che l’interprete prova quando un particolare rivela d’improvviso il senso dell’insieme; e più specificamente la meraviglia di scoprire che il potere delle parole non resta sulla carta, ma va a modificare il senso della realtà.
3.1. κατέβην
La scelta della parola κατέβην, come inizio del racconto di Socrate, non dice soltanto della sua ‘discesa’ al Pireo, dove, sorprendentemente, proprio nella casa di un facoltoso straniero residente ad Atene (il meteco Cefalo), si svolgerà il dialogo sulla giustizia nella città. La parola è immediatamente evocativa di un’altra, κατάβασις, la discesa agli inferi, ben presente nella cultura arcaica come possibilità di accesso a un percorso di iniziazione, di rivelazione e di possibile rinascita. Attivarne i significati simbolici – sottolineava Vegetti[4] – prepara il lettore ad attendersi significati altrettanto profondi e rivelatori dal percorso, diversamente ‘katabatico’, cui Socrate dà inizio, disponendo chi legge a comprendere il movimento di discesa e risalita che caratterizzerà il ritmo del dialogo. La novità di questa discesa socratica, di cui danno conto i primi tre libri della Repubblica, sarà scoprire che l’inferno è la selva oscura dei discorsi della città reale: discorsi che hanno la forza argomentativa del teorema di Trasimaco,[5] il più agguerrito tra gli antagonisti di Socrate, il quale sostiene la necessaria dipendenza della giustizia dagli interessi del potere politico (Repubblica I 338c-339a); o che, appoggiandosi alla naturalità antropologica del desiderio di sopraffazione, ne fanno una legge che si oppone al debole artificio delle regole civili, degradando la giustizia a bene di terza scelta, accettato controvoglia da chi ha l’intelligenza e la forza per prevalere (Repubblica II 357a-358a). Discorsi disorientanti per il nobile Glaucone, che dichiara di avere «le orecchie assordate» (Repubblica II 358c8) dal loro ripetersi e perciò si rivolge a Socrate perché gli dimostri che non è così che deve pensare. È il suo disagio a vivere immerso nella città reale, dove le parole e i comportamenti umani offrono continue conferme di uno stato di cose degradato, che dà il via alla ricerca socratica di un altro modo di pensare la polis, un modo più aderente a ciò che essa dovrebbe essere per garantire la vera funzionalità dell’ordine politico. Socrate dovrà regredire fino alle origini della socialità per rintracciare i moventi arcaici del vivere civile e dare inizio alla risalita, con l’esperimento teorico che disegna artificialmente una città degna di questo nome: una polis unita, le cui norme paradossali contrastano a tal punto quelle su cui si regge la città reale da costituire il suo virtuale rovesciamento.
3.2. κατοικίζειν
κατοικίζειν è invece la parola con cui la costruzione teorica della kallipolis si chiude, indicando una prospettiva d’azione che segna in un certo senso il ritorno alla realtà. La ricostruzione che Vegetti fa del suo significato,[6] gettando una luce inedita sulla strategia di fondo del dialogo, è forse l’esempio più efficace di riuscita del suo programma di revisione (o sovversione) ermeneutica. Il passo in cui la parola κατοικίζειν compare è quello – sottolinea Vegetti – «su cui hanno da sempre insistito gli interpreti che tendono a negare, o a ridimensionare, il carattere politico della Repubblica, e ad accentuarne invece l’interesse per la moralità individuale e interiorizzata».[7] La parola κατοικίζειν è il cuore della sua ambiguità. Socrate sta rispondendo a Glaucone, che si domanda dove e come potrà mai fare politica chi, come lui, ha partecipato alla costruzione teorica della kallipolis, ma pensa che una città come «quella che sta nei discorsi» non esista «da nessuna parte sulla terra» (Repubblica IX 492a10). La risposta di Socrate stabilisce uno stretto rapporto tra visione della città ideale e tipo di azione che ne consegue: «Ma forse – dissi io – è posta in cielo (en ourano) come un modello (paradeigma), offerto a chi voglia vederlo (boulomeno horan), e avendolo di mira (horonti), insediarvi se stesso (heauton katoikizein). Ma non fa alcuna differenza se essa esista da qualche parte o se esisterà in futuro: egli potrebbe agire solo in vista della politica di questa città e di nessun’altra» (Repubblica 592b1-4). La traduzione di Vegetti, puntigliosamente giustificata sul piano semantico e sintattico, legge l’indicazione come un invito a trasferire se stessi nel paradigma, e ad agire in funzione delle norme che esso racchiude, non a «rifondare sé stesso» o addirittura a «fondare una città in se stesso» (secondo la traduzione dell’autorevole Adam: «found a city in himself»), come se la cittadella interiore dell’anima fosse l’unico luogo in cui il paradigma possa realizzarsi. Nella lettura di Vegetti, le istruzioni per l’uso del paradigma, che Socrate fornisce al suo interlocutore eccellente, segnalano piuttosto la necessità di collocare se stessi altrove, ovvero in una prospettiva d’azione diversa da quelle praticate nella città esistente. La rilevanza della questione, per comprendere in che senso l’intenzione di Platone resti politica, è così sottolineata nell’Introduzione a Il potere della verità: «Non si tratta quindi di passaggio dall’esteriorità politica all’interiorità dell’anima, ma di dislocazione delle finalità dell’azione politica (ove essa sia possibile): dalla città storica, per la quale il filosofo non agirà affatto, all’orizzonte della città utopica, alla cui creazione egli dedicherà le sue energie» (Vegetti 2018, p. 13).
3.3. Tra le due parole: lo spazio dell’utopia
È abbastanza evidente ciò che quell’inizio e questa conclusione riverberano sull’intero spazio racchiuso tra le due parole, lo spazio occupato nella Repubblica dalla scrittura dell’utopia: possiamo leggervi il disegno di un paradigma ideale che nasce dal disagio a vivere secondo le regole (o l’assenza di regole) della città reale e si sviluppa nella ricerca dei tratti di desiderabilità di una città che funzioni secondo giustizia; fino a farne un modello perfettamente visibile, che non ha la funzione consolatoria di una fantasia della mente, ma quella di stimolo ad agire e di ricerca delle condizioni di efficacia dell’azione politica. Chiamare ‘utopia’ la kallipolis non è una forzatura rispetto al testo, che più volte problematizza l’assenza di esempi simili sul piano dell’esistente e la scarsa probabilità che si dia l’occasione per realizzare nei fatti quel che si enuncia a parole. Ma l’idea di un uso immediatamente attivo del paradeigma conferma il significato progettuale e il valore normativo che Platone attribuisce alla costruzione teorica, vietando di considerare il suo modello un «pio voto (ευχή)», un ‘castello in aria’, un rifugio per sognatori. La lettura di Vegetti induce a pensare che la funzione assegnata da Platone alla scrittura dell’utopia sia piuttosto quella di consentire al soggetto che soffre per il disordine politico esistente di espatriare, ma in una dimensione praticabile, pensando un altro ordine come reale e possibile. La teoria, rendendo visibile il «paradigma in cielo», aiuta a configurarlo e, in mancanza delle condizioni per un’azione efficace, a persistere in quel «diniego del consenso» alla città esistente, che – scrive Vegetti – «è in ogni caso già un atto politico».[8]
4. Il valore etico-pratico del Platone politico
Oltre il distacco dell’interprete, c’era dunque una consonanza profonda che metteva Vegetti in relazione empatica con Platone, al di là e oltre ogni punto specifico di disaccordo con lui: la fiducia nel valore politico della costruzione teorica, che non si misura sulla possibilità immediata di tradursi in pratica, ma sulla capacità di agire al livello della “grande politica”, pagando il prezzo della lunga attesa di momenti opportuni. «Un viaggio di mille anni», diceva Vegetti in un discorso del 2000, prendendo ancora una volta in prestito una formula platonica, quella con cui Platone evoca una prospettiva oltremondana alla fine del libro X della Repubblica: «e così sia qui sia nel cammino di mille anni di cui abbiamo discusso staremo bene (eu prattomen)» (621d1-3). Con quel discorso, pronunciato alla Casa della Cultura (e poi raccolto in volume con altri saggi in Vegetti 2007), Mario prendeva atto della fine di ogni improbabile filosofia della storia e della rinnovata difficoltà di immaginare forme di azione sul corso del mondo. Ma concludeva con una singolare risposta alla domanda di sapore kantiano “Che cosa possiamo sperare?”, e cioè prospettando un paradossale «ritorno all’etica» nella forma di una pratica dell’utopia: «Intendo con questo la riapertura di un discorso sulla giustizia, sui valori, sui fini; la decisione di tornare a pronunciare parole come libertà, uguaglianza, fraternità, di chiedersi che cosa può essere oggi la virtù – dopo quelle antiche e quelle giacobine – e quale il suo rapporto con la felicità» (Vegetti 2007, p. 318). Il ‘lungo viaggio’ del riferimento platonico «porterà forse alla città abitata dal senso e dal valore», ma avrà bisogno «che qualcuno decida di intraprenderlo, costrettovi magari dalla desolazione del presente, e questa stessa decisione costituisce il principio della riconfigurazione di una soggettività progettuale vincolata, e destinata, a quel viaggio. Se ciò è possibile, allora […] qualche embrione di quella comunità millenaria dello “star bene” può essere già presso di noi» (Vegetti 2007, p. 322).
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[1] Vegetti [2010] 2018, p. 61. Sul tema cfr anche Vegetti 2000 a e b, Vegetti 2005 e la più ampia trattazione storica in Vegetti 2009.
[2] Vegetti 2018, pp. 13-14.
[3] Vegetti 2018, p. 14.
[4] Cfr. Vegetti 1998a, in CR vol. I, libro I.
[5] Vegetti 1998b dimostra che hanno la forma di un vero e proprio teorema le stringenti argomentazioni costruite da Trasimaco a sostegno delle sue tesi sulla giustizia.
[6] Cfr. Vegetti 2005, in CR vol. VI, libri VIII-IX, con particolare riferimento al par. 5, Katoikizein, pp. 156-161.
[7] Vegetti 2005, p. 158-159.
[8] Vegetti 2000, p. 141, ora in Vegetti 2018, p. 160.
Alberto Maffi
Nato a Trento nel 1949, già docente di Diritto greco antico e Storia dei diritti dell’antichità presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Trieste, dal 1994 al 2016 ha insegnato Storia del diritto romano dapprima nel secondo corso di laurea della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Milano, poi nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Milano-Bicocca, presso la quale ha in seguito insegnato Istituzioni di diritto romano e Diritto greco. Ha partecipato a tutti i convegni internazionali (Symposia) di Storia del diritto greco ed ellenistico dal 1974 al 2017. È condirettore della rivista di storia del diritto greco “DIKE” e membro del Comitato di direzione della “Révue d’Histoire du droit français et étranger”. È membro del Collegium Politicum. Ha tenuto corsi presso l’Ecole de Hautes Etudes di Parigi, la Sorbonne e presso l’Università di Shangai. È autore di: «Studi di epigrafia giuridica greca», Milano 1983; «L’iscrizione di Ligdamis,» Trieste 1988; «Ricerche sul postliminium», Milano 1992; «Il diritto di famiglia nel Codice di Gortina», Milano 1998.
Trasimaco
fra Platone e Aristotele
L’acceso confronto fra Trasimaco e Socrate nel I libro della Repubblica ha destato in più di un’occasione l’interesse di Mario Vegetti.[1] Vorrei qui ripartire in particolare dall’importante commento che egli ha dedicato alla figura dell’inquietante sofista nel Commento al I libro da lui curato nel 1998. Vegetti ritiene che Trasimaco esponga due tesi distinte. La prima, contrassegnata dalla sigla Ta, riduce to dikaion[2] all’utile del più forte (338 c). Nella seconda, identificata con la sigla Tb, Trasimaco sostiene che dikaiosyne e dikaion sono essenzialmente “un vantaggio per altri” (allotrion agathon), ribadendo che si tratta dell’utile di chi è più forte e (quindi) comanda, mentre si traducono in un danno (blabe) per chi obbedisce e serve. Di conseguenza l’ingiustizia (adikia) è propria di chi comanda a uomini che sono realmente ingenui e giusti, tanto che essi realizzano ciò che risulta vantaggioso per colui che è più forte e, ponendosi al suo servizio, lo rendono felice, ciò che non si può dire di loro stessi (343 b ss.).
La tesi Ta viene sviluppata da Trasimaco attraverso ulteriori passaggi. Innanzi tutto occorre tenere presente che esistono tre regimi politici principali: la tirannide, la democrazia e l’oligarchia (che Trasimaco chiama aristocrazia) (338 d). In ognuno di tali regimi c’è un elemento dominante, definito appunto to archon. È attraverso le leggi che ciascuno di questi regimi rende noto agli archomenoi[3] che cosa devono considerare giusto, e che coincide con l’utile dei governanti: coloro che non si adeguano saranno puniti come persone che violano la legge e commettono un illecito (338 e). Il giusto è dunque ciò che è vantaggioso per l’arche costituita che ha il potere. Per questo il giusto è in ogni regime ciò che avvantaggia chi esercita il potere.
Vegetti sostiene che la tesi Tb non può derivare logicamente dalla tesi Ta, perché in base a quest’ultima il potere è eticamente neutro, né giusto né ingiusto, mentre in base a Tb chi comanda è ingiusto. Infatti, proprio perché è più forte, il detentore del potere finirà col cedere alla pleonexia, quindi all’ingiustizia. Secondo Vegetti (1998 p. 250), si passa così dal livello politico alla dimensione morale. E qui Trasimaco, ricorrendo ad argomentazioni retoriche di stampo tipicamente sofistico, tenterà di rovesciare la valutazione negativa, che attiene per definizione all’ingiustizia, in una valutazione positiva.
In un articolo relativamente recente Franco Trabattoni ha criticato l’interpretazione di Vegetti in particolare per quanto riguarda la Ta. Il punto di partenza è dato da Resp. 338 e: θέμεναι δὲ ἀπέφηναν τοῦτο δίκαιον τοῖς ἀρχομένοις εἶναι, τὸ σφίσι συμφέρον, καὶ τὸν τούτου ἐκβαίνοντα κολάζουσιν ὡς παρανομοῦντά τε καὶ ἀδικοῦντα.
Le traduzioni di questo brano sono relativamente concordi: le leggi, una volta promulgate, hanno stabilito nei diversi regimi che è dikaion ciò che è vantaggioso per i governanti; perciò puniscono chi non vi si attiene in quanto infrange la legge e commette ingiustizia.[4] Secondo Trabattoni la legge non determina la natura del giusto e dell’ingiusto, come vorrebbe Vegetti, ma si incarica di rendere noto il principio secondo cui il giusto è l’utile di chi comanda. Inoltre la legge esercita un ruolo coercitivo, costringendo coloro che sono comandati a realizzare la “giustizia” che essa ha rivelato loro, ossia l’utile dei governanti. Per qualificare la legislazione nella definizione Ta non si può quindi parlare di “Rechtspositivismus”, come fa invece Vegetti, perché i governanti non sono liberi di definire come giusta qualunque cosa piaccia loro definire come tale. La giustizia non è altro, e non può essere altro, che l’utile, cioè il benessere, dei governanti. L’unico elemento variabile consiste dunque nel numero dei beneficiari del comportamento “giusto” dei governati, numero che varia appunto a seconda del tipo di regime. Se l’ho ben compresa, la critica di Trabattoni su questo punto non mi sembra convincente. Intanto per rendere noto che il giusto è l’utile di chi comanda non c’è bisogno di leggi: basta che i governanti, essendo i più forti, dispongano di adeguati strumenti coercitivi per assicurare l’osservanza dei loro ordini. In secondo luogo le leggi non sono generalmente formulate in modo da rendere esplicito che le disposizioni in esse contenute mirano ad assicurare l’utile dei governanti. Infine l’utile, o, se si preferisce, il benessere dei governanti non corrispondono a realtà uniformi e costanti: il benessere degli oligarchi è certo qualitativamente e quantitativamente diverso da quello che perseguono i regimi democratici.
Quanto alla tesi Tb, Trabattoni giunge alla conclusione che, se la giustizia è definita come “il bene altrui”, gli unici che praticano la giustizia sono appunto i governati, mentre i governanti, che realizzano il bene proprio, praticano l’ingiustizia. Questa affermazione apodittica (che corrisponde in effetti a quanto Trasimaco dichiara in 343 b-d) non risolve però l’incongruenza fra Ta e Tb rilevata da Vegetti. Mi pare che ciò sia confermato dal fatto che la discussione relativa a Ta, così come Socrate la imposta, riguarda dapprima la nozione di utile (339 b-e), poi il significato da attribuire a più forte (341b – 342e), non l’eventuale ingiustizia dei governanti. Occorre tuttavia considerare che Trasimaco stesso, senza esservi stato provocato da Socrate, introduce il riferimento all’ingiustizia dei governanti in 343 c. Viene quindi fatto di pensare che anche in Ta fosse per lui implicito che il conseguimento dell’utile del più forte realizza comunque un’ingiustizia. Si tratta di un dato che a mio parere indebolisce la tesi di Vegetti secondo cui vi sarebbe un’incompatibilità sostanziale fra Ta e Tb. Ma nemmeno la riduzione ad una coerente unità delle argomentazioni di Trasimaco, propugnata da Trabattoni, convince del tutto. A mio parere, infatti, dal discorso di Trasimaco emerge una duplice considerazione della giustizia. Non parlerei però di due definizioni di giustizia, quanto piuttosto di due ambiti di applicazione della giustizia. Distinguerei cioè una giustizia “politica”, che attiene all’archein, più precisamente alla distribuzione del potere all’interno della cittadinanza, da una giustizia “civile”,[5] che attiene ai rapporti fra privati e ai rapporti fra privati e polis. La prima tesi di Trasimaco (Ta) si riferisce alla giustizia “politica”, mentre la seconda tesi (Tb), come mostra la lunga e accesa tirata di Trasimaco in 343 b – 344 c, si riferisce alla giustizia “civile”. Le due definizioni si sovrappongono soltanto nella figura del tiranno, che incarna il massimo di ingiustizia “politica” e di ingiustizia “civile” (ten teleotaten adikian: 344a).
Provo ora a motivare la distinzione tra le due forme di giustizia/ingiustizia. Nell’illustrare la sua prima tesi, Trasimaco insiste sul fatto che ogni regime politico emana una legislazione coerente con le caratteristiche che lo contraddistinguono (338 d-e). Ma Socrate, nel replicare, non si sofferma su questo aspetto squisitamente politico di Ta. Come ho anticipato, gli argomenti che Socrate mette in campo per contrastare il suo interlocutore fanno dapprima un generico riferimento ad archontes e archomenoi, dato che a Socrate interessa infatti mettere in rilievo la contraddizione logica derivante dall’ammissione di Trasimaco che gli archontes possono sbagliare se e quando prescrivano ciò che non è loro utile (339 d). In una seconda fase Socrate ricorre al paragone con il medico e il capitano della nave per dimostrare che anche il governante persegue l’utile dei governati (342 c). Ciò conduce quasi inevitabilmente a identificare gli archontes con i governanti in senso stretto, ossia con la ristretta élite che ricopre le magistrature supreme in qualsiasi tipo di regime. Tuttavia, se teniamo presente che Trasimaco ha incluso anche l’oligarchia e la democrazia fra i regimi che attuano una giustizia “politica”, dovrebbe risultare chiaro che, tanto nei regimi oligarchici quanto, a maggior ragione, nei regimi democratici, gli archontes non si identificano soltanto con i magistrati bensì includono l’intera componente della cittadinanza che detiene il potere.[6] Quanto alla giustizia “civile”, gli esempi con cui Trasimaco illustra Tb sono riferiti appunto, da un lato, ai rapporti obbligatori di natura privata,[7] e, dall’altro, ai rapporti con la città (en tois pros ten polin: 343 d): in entrambi i casi si tratta quindi di situazioni e di comportamenti che prescindono dalla natura del regime politico in cui si verificano.
Nell’esposizione di Platone i due ambiti di applicazione della giustizia/ingiustizia, che ritengo si possano identificare nel discorso di Trasimaco, tendono però a confondersi e a sovrapporsi, perché, così come era accaduto per Ta, anche con riferimento a Tb le argomentazioni di Socrate non entrano nel merito dei contenuti esposti da Trasimaco. La Politica di Aristotele consente forse di mettere meglio a fuoco sia le posizioni sostenute da Trasimaco sia la critica che di esse svolge Platone. Infatti, benché Aristotele non citi mai Trasimaco, ritengo che alcuni tratti distintivi della sua indagine sulle costituzioni si possano considerare direttamente ispirati dal dibattito della Repubblica fra Socrate e Trasimaco.[8] Prima di tutto va osservato che per Aristotele ogni regime politico emana una legislazione adeguata alle caratteristiche e allo scopo che lo contraddistinguono. Non solo, ma Aristotele sottolinea che la solidità del regime, riferendosi in particolare a oligarchia e democrazia, dipende soprattutto dalla partecipazione attiva e consapevole alla cosa pubblica dei cittadini di pieno diritto. Di qui la distinzione fra il buon cittadino, che pensa e agisce in modo consono al regime in cui vive, e l’aner agathos che conforma il suo agire ai dettami della giustizia intesa come virtù perfetta.[9] Ora, per quanto riguarda le legislazioni, in uno dei suoi ultimi lavori[10] Vegetti ha sottolineato che, per Aristotele, tutte le legislazioni vigenti nei regimi attualmente esistenti devono essere considerate ingiuste (Arist. Pol. 1282 b 8-13) in quanto non perseguono il bene comune. Ciò implica che favoriscano l’elemento dominante in perfetta corrispondenza con la prima tesi (Ta) di Trasimaco: dunque chi vuol essere “buon cittadino” non può evitare di praticare l’ingiustizia “politica” nei confronti di quella componente, libera e formalmente inclusa nella cittadinanza, della popolazione che è esclusa, o si autoesclude, dalla gestione del potere. Aristotele scioglie così l’ambiguità insita nelle nozioni di “più forte” e di “chi comanda” che si riscontra nella discussione di Ta fra Socrate e Trasimaco. A mio parere nel confronto fra Socrate e Trasimaco c’è anche un altro elemento che trova riscontro nella Politica aristotelica. A partire da 351c inizia una sezione della confutazione socratica in cui Socrate ritorna alla dimensione politica chiedendo a Trasimaco: “Ti pare che una città o un esercito o dei briganti o ladri […] che si propongano in comune qualche impresa ingiusta, possano combinare qualcosa se si fanno ingiustizia gli uni con gli altri?” (trad. Gabrieli). La risposta è negativa, perché, se così fosse, ne nascerebbero odio, scontri e in definitiva la stasis, la guerra civile (351 d). Di conseguenza ottiene (implicitamente) l’adesione di Trasimaco all’affermazione che, quando gli ingiusti hanno intrapreso un’azione comune, non possono aver praticato un’ingiustizia assoluta, ma hanno dovuto trattenersi e accondiscendere reciprocamente a una certa dose di giustizia. Con riferimento alla città, ciò si deve intendere riferito non solo ai rapporti fra coloro che esercitano il potere, ma anche nei confronti di coloro che ne sono esclusi, dato che, se così non fosse, non si potrebbe parlare di un’iniziativa di una città. Aristotele riprenderà questo spunto platonico trasformandolo nella proposta di accorgimenti di ingegneria costituzionale per evitare che un regime (come sappiamo, di per sé ingiusto) accentui i suoi caratteri distintivi fino a provocare una rottura insanabile al suo interno con conseguente rovina del regime stesso (Pol. 1298b con particolare riferimento agli organi deliberativi, su cui v. Maffi 2016).
Per quanto riguarda la pratica della giustizia “civile”, questa discende dalla scelta personale di ciascuno, la quale dipenderà a sua volta soprattutto dall’educazione ricevuta.[11] Normalmente, a proposito della Politica aristotelica, si contrappone la dimensione politica del buon cittadino (buono – spoudaios – in quanto coerente nel pensiero e nel comportamento con il regime di cui è parte attiva) alla dimensione etica dell’uomo buono (aner agathos). Ed è effettivamente riconducendo la discussione al piano etico che Socrate controbatte Tb, ossia la seconda esternazione di Trasimaco (343b – 344c). Socrate contrappone infatti la giustizia intesa come virtù (arete) all’ingiustizia intesa come vizio (kakia) (348c). Ma Trasimaco non intende seguirlo per questa via: per giustizia intende euetheia (dabbenaggine), e per ingiustizia intende euboulia (la capacità di prevedere e decidere con intelligenza); ovvero, per esprimersi in italica Umgangssprache, contrappone i fessi ai furbi, arrivando ad apprezzare in questa prospettiva, sia pure con un certo imbarazzo, anche i tagliaborse, in quanto si dimostrino abbastanza furbi da non farsi scoprire (348 c-d). Questo costringerà Socrate a “dimostrare” che l’uomo ingiusto è anche ignorante (349e ss.). L’uomo buono aristotelico non è dunque soltanto colui che pratica la virtù, ma anche colui che si astiene dal compiere azioni malvagie secondo quanto già enunciato da Aristotele nell’Etica Nicomachea (EN 1129b 14-25).[12] Quindi l’uomo “buono” si potrà trovare anche nei regimi deviati nei limiti in cui il sistema educativo non baderà soltanto alla formazione di una mentalità conforme al regime vigente (Pol. 1310a 12 ss.). Tuttavia la coincidenza tra le due figure sarà garantita solo nella polis ideale teorizzata nei libri VII-VIII della Politica.
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[1] Mi riferisco in particolare a Vegetti 1998 e 2018¹.
[2] Occorre ricordare che l’aggettivo sostantivato può indicare tanto ciò che è giusto quanto ciò che è conforme al diritto vigente.
[3] In italiano è abituale tradurre archomenoi con sudditi – v. lo stesso Vegetti, Commento, p. 240. Ora, è vero che in relazione ai governanti più forti, coloro che sono tenuti a obbedire ai loro ordini sono definiti inferiori o più deboli; ma, tenendo conto che fra i regimi presi in considerazione da Trasimaco c’è anche la democrazia, caratterizzata per definizione dall’alternanza dei cittadini nelle magistrature, mi pare meglio tradurre “i governati”.
[4] Ho volutamente evitato di tradurre dikaion, perché a mio parere qui significa insieme giuridicamente vincolante e, di conseguenza, giusto: la coesistenza dei due significati nel medesimo termine (v. n. 2) è confermata dalla presenza dei due participi paranomounta e adikounta. Aggiungo, ma è un punto che andrebbe naturalmente approfondito, che verosimilmente Socrate non si riferisce solo al dettato di legge, ma anche alle decisioni degli organi deliberativi e alle ordinanze dei magistrati: in questo senso mi sembra deponga l’uso dei verbi prostatto e keleuo.
[5] Per quanto riguarda la giustizia “politica” adopero questa qualifica in senso diverso da Vegetti 2016, p. 192. Per quanto riguarda la giustizia “civile” non mi riferisco ovviamente alla “giustizia civile” in senso tecnico, dato che, valutando dal dal nostro punto di vista, Trasimaco si riferisce soprattutto alla giustizia penale. Occorre tuttavia considerare che nella lista di delinquenti, che troviamo in 344 b, compaiono anche gli aposteretai. A mio parere questo termine è da mettere in relazione con il verbo aposterein, che negli oratori designa l’inadempimento contrattuale.
[6] Ce lo conferma il fatto che in particolare i magistrati di un regime democratico non si possono certo definire “più forti” del resto dei cittadini, se non nell’ambito delle competenze coercitive che la legge conferisce loro.
[7] Tois pros allelous symbolaiois (343 d) viene in genere riferito nelle traduzioni a rapporti contrattuali. Ma symbolaion va qui considerato un sinonimo di quei synallagmata che in EN 1131 includono le obbligazioni derivanti sia da atto lecito che da atto illecito.
[8] Sugli echi del discorso di Trasimaco in Aristotele si veda De Luise 2015, pp. 52 ss.
[9] Vegetti 20182, p. 29. V. anche Gastaldi 2017.
[10] Vegetti 2018² .
[11] Si vedano Vegetti 2016 cap. XII, e Gastaldi 2017.
[12] Vegetti 2018², p. 30-31, scorge una contraddizione fra il canone di giustizia come virtù, rappresentato dal nomos in EN 1129b 14-25, e l’attribuzione a tutti i regimi costituzionali esistenti di una legislazione ingiusta. Mi sembra, però, che proprio il confronto con le due prese di posizione di Trasimaco nella Repubblica (Ta e Tb) consenta di comprendere che le leggi qualificate “ingiuste” nella Politica non riguardano il comportamento quotidiano del cittadino nei suoi rapporti con i concittadini e con la città, ma riguardano le strutture costituzionali (ho tentato di dimostrare quest’opinione in Maffi 2018).
Fulvio Papi
Filosofo, politico, scrittore e giornalista italiano. È stato direttore del quotidiano del Partito socialista italiano Avanti!. Studia a Milano, a Stresa sul Lago Maggiore negli anni della seconda guerra mondiale, poi di nuovo all’Università di Milano fino alla laurea nel 1953. Politicamente attivo nella corrente lombardiana del PSI, segue un percorso che lo vedrà varcare le porte del Parlamento ed assumere la vice-direzione dell’Avanti!. Nel 1963, sospettando un aumento del tenore affaristico nella politica – così come lui stesso dichiara in un’intervista del 1989 – abbandona bruscamente tutto e si dedica all’insegnamento universitario che lascerà solo nel 2000. È insignito nello stesso anno del titolo di Professore Emerito dall’Università di Pavia e dell’Ambrogino d’oro. Nello stesso anno 2000 fonda inoltre la rivista di filosofia Oltrecorrente, che tuttora dirige. Con Mario Vegetti, Franco Alessio e Renato Fabietti, ha curato inoltre, per l’editore Zanichelli, il manuale di filosofia per i licei, in tre volumi, Filosofie e società.
Per Mario Vegetti
E sempre molto difficile trovare per un intellettuale di primo piano una definizione che sia, almeno approssimativamente, adeguata. E questo accade pure nel caso del mio carissimo amico perduto Mario Vegetti, ellenista di fama, filosofo per una fine educazione intellettuale. Mario Vegetti avrebbe potuto essere compreso alla luce dell’inattualità. Significato che non serve per nostalgie di altre epoche costruite con una immaginazione perita, ma che vuole indicare solo lo stile di uno studioso della cultura greca che ha saputo ereditare le virtù fondamentali della modernità, abbandonando il superfluo, il manierato, l’esibizionismo, il catastrofico, lo spettacolare, per valorizzare – al contrario – il lavoro tenace e amato, la coerenza morale della propria vita, il necessario riserbo critico della ricerca, i risultati storici controllati con un metodo in via continua di perfezionamento: una figura pubblica costruita su questo sfondo. Né va trascurata la sua sensibilità etica per le sorti collettive e sociali che furono di un comunismo privo di compromessi, sino a una razionale saggezza che era il modo per rispondere alle trasformazioni del mondo che invitano a complesse dimensioni analitiche della conoscenza e a una figura completamente trasformata della soggettività nella sua capacità potenziale.
Naturalmente ci sono eccezioni, e anche pregi e ricerche che hanno trovato il loro spazio, ma il mondo culturale della contemporaneità, nei suoi effetti più rilevanti, sembra divaricato tra un uno specialissimo puntiglioso fine a se stesso – che quindi studia i fenomeni della cultura come fossero raccolte di minerali – e, al contrario, un costume dominante che desidera proseguire solo l’effetto del consenso, il battimani pubblico con i vantaggi che ottiene l’abilità dello spettacolo. “Taglia e incolla”, ho letto in una importante rivista. Le culture hanno sempre avuto i loro luoghi dominanti, i poteri conformisti, le loro pratiche condivise. Ci vuol poco a immaginare che cosa accade in uno spazio dominato dal mercato e dalla comunicazione di superficie. Si diffonde una innocente corruzione.
Mario appartiene, all’opposto, a quelle virtù della modernità che sono il rigore nel proprio lavoro, il desiderio che esso sia comparato a un “meglio possibile”, a un amore e a una dedizione a questi compiti, a una presenza sociale laddove questo stile veniva apprezzato per i suoi risultati, e l’autore era un personaggio pubblico stimato per quanto aveva saputo dare di se stesso. Sembrano banalità, ma – al contrario – segnano uno spazio positivo che ha salvato se stesso dalle tragedie, dai conflitti, le violenze, le imposture, i ludi del Novecento e della sua crisi. Sapere conservare questo spazio nel mondo attuale richiede una scelta di sé che diviene una spontanea e quasi inconsapevole virtù. Mario era fatto proprio così, e la sua frequentazione era un’offerta di senso che doveva avere qualcosa di simile…
Il soggiorno al mare era la forma di riposo amata nel suo semplice privilegio, come per Banfi, Cantoni, Paci, Fornari, Sereni, Fortini e (si parva…) io stesso. Mario era un poco più moderno e voleva vivere il mare con una condivisione più intensa. Si era comperato una barca che non ho mai visto, ma che mi è stata presentata all’Università in un modo sconcertante. Mario mi disse: «D’ora in poi chiamami ammiraglio».
La sua filosofia nasceva certamente in un ambito razionalista. Non l’ho mai sentito discutere il mondo greco “alla Nietzsche” e secondo i suoi non entusiasmanti epigoni toccati dall’onda verbale di Heidegger. La sua tesi su Tucidide voleva mostrare, tra l’altro, il processo di razionalizzazione della narrativa storica greca. Questa misura razionalistica non lo lasciò mai, comunque fu il modo sapiente attraverso cui Mario ampliò e perfezionò con successo il suo stesso comprendere storico attraverso i nuovi strumenti che nascevano nella cultura contemporanea: la complessa riflessione sul linguaggio, il patrimonio semiologico, una sociologia capace di ascoltare il timbro vivente dei suoi oggetti, una trasformazione della ricerca storica molto meno “categorizzante” e sempre più prossima alle forme, alle istituzioni, alle consuetudini, agli stili della vita quotidiana, alla distribuzione sociale dei poteri, alla diffusione delle credenze. Era da questo panorama complesso che prendeva esistenza e forma la parola filosofica.
Ho sempre pensato quanto fosse difficile lavorare storicamente su un testo facendo centro su tutte queste prospettive. Ne derivava un tessuto obiettivo e vivente, quel tessuto che, in luoghi diversi, mantiene sempre la sua figura di senso ed evita quelle interpretazioni che fanno solo una storia delle idee e non della soggettività vivente che rende possibile trasferire il discorso in uno spazio ideale, anch’esso vittima inevitabile del tempo, anche se, attraverso il tempo stesso, poteva far giungere la sua voce, simile in questo alla trasformazione dei miti.
È molto facile, sulla scorta di indiscutibili classici (Hegel, Husserl, se non sbaglio Russell) sostenere che Platone segna la nascita della filosofia, ma più arduo compito è indagare come nasce, attraverso quali processi, quali domande, quali personaggi, attraverso quali saperi – dalla matematica alla medicina – quali eredità, quali fini, quali conseguenze “scolastiche”, quali appropriazioni o dispute politiche. Nel complesso una pluralità di “sentieri” da percorrere e da coordinare. E questo era il pregio dello straordinario libro di Mario di saggi platonici al termine della cui lettura veniva spontaneo pensare che la filosofia fosse la modalità intellettuale che sapeva discorrere su una pluralità di esperienze di una cultura ampia, complessa, anche professionalizzata secondo un proposito di verità – non la verità, ma al fine della verità.
Eppure, come un’abitudine un poco perversa ma difficilmente ignorabile, anche quella sera alla Casa della Cultura, quando si discuteva il libro di Mario, risorse la domanda: ma quale è la filosofia di Platone? Come se esistesse il rapporto tra un oggetto e una mente con un suo nome. Quando toccò a me rispondere feci il nome di Natorp quale interprete più attendibile. Mario mi rispose con un sorriso che voleva dire: «che altro ci si poteva aspettare da te che in fondo non hai mai abbandonato il neo-kantismo di Banfi». Certamente parlavo più della filosofia contemporanea che di Platone.
La lettura della Repubblica nell’edizione critica di Mario con la sua scuola, era, detta in breve, una lezione sui “come” si debbano leggere le opere di filosofia, ciascuna nella sua differenza. E quindi la Repubblica come un testo dove appaiono dottrine, personaggi, stilemi letterari, momenti narrativi, professioni, pregiudizi, potenze e tant’altro. Per non pochi è un avvertimento contro l’effimera felicità della generalizzazione.
Sul demos – spregevole per Platone – non c’è molto da discutere, ma sulla impresa costruttiva della polis, ordinata secondo una costituzione che impedisce il conflitti interni, c’è sempre il solido e motivato giudizio dell’utopia. Ebbene, Mario ci portava a leggere con attenzione per comprendere che Platone voleva dire che “per ora” il suo progetto non era attuabile, ma forse un tempo… Devo dire che se il “forse” è molto problematico: non provo una grande simpatia per autori come Popper (Mill è un’altra cosa) che oppongono la libertà individuale delle democrazie allo statalismo del filosofo greco. Mario non amava la democrazia liberale. E anch’io, visto dove è finita la democrazia alla prova di un capitalismo mondiale e della formazione di élite politiche impresentabili, ne apprezzo solo il fatto che il privato si può difendere sia dal mercato che dalla comunicazione. Fino a quando? A che prezzo? Qui si apre una voragine che Mario aveva valutato positivamente in un mio breve e lontano studio. Preferisco concludere dicendo che “il Vegetti” con la sua edizione della Repubblica ci ha regalato una dei più preziosi gioielli della nostra biblioteca.
Mario era comunista, com’era probabilmente suo destino poiché proveniva da una famiglia nella quale il padre, negli anni Venti, fu uno dei primi militanti del nuovo partito della sinistra, il fratello un valoroso partigiano, la sorella (che Franco Fergnani mi presentò nel ‘50-‘51) godeva già di un prestigio personale nel partito. A me, all’origine del nostro sempre felice rapporto, il suo stile militante richiamava più il radicalismo bordighiano dei primi anni Venti, piuttosto che la riflessione gramsciana che apprendevamo dalla prima e scorretta (come sappiamo tutti) edizione di Einaudi. Ma di questi problemi in realtà non ne abbiamo parlato mai. Forse la politica quotidiana copriva il tessuto della vita. Mario sapeva della mia appartenenza socialista, anche se non è mai stato attento alla sconfitta che nel ‘64 avevamo subito noi del gruppo dei “riformisti rivoluzionari”, come qualcuno poi ci chiamò. Fummo sconfitti da una potente coalizione (politici, potere industriale, apparati dello Stato), ma certamente ne esageravo le proporzioni, e sono certo che già da allora il PCI non vi diede gran peso nella sua visione storica.
Il comunismo di Mario era una fede rigorosa, militante e identitaria, e ogni tanto mi regalava qualche battuta ironica, ma priva di qualsiasi animosità. In realtà della condizione storica della nostra sinistra non parlavamo mai. Il perché forse porterebbe lontano; vale di più dire che tra di noi c’era un silenzio sotterraneo che comunque sottintendeva un “insieme”. Così avvenne al tempo della contestazione studentesca, anche se Mario era molto più esposto, con una positiva partecipazione politica che l’aveva allontanato dalla posizione del PCI per assumere le posizioni più rigorosamente marxiste dei “radiati” del Manifesto.
Fu una linea e una elaborazione politica che segnò una considerazione della “verità” marxista per molti anni. A me ora quell’esperienza fa venire in mente lo stile del primo «Ordine nuovo», quello torinese del 1919: una rinascita. Nella contestazione fummo insieme soprattutto per mantenere la conflittualità nell’interno dell’Università senza interventi autoritari o polizieschi, contro qualche imbecille che avrebbe desiderato applicando le “leggi vigenti” come se non si trattasse di una complesso fenomeno sociale, ma di un episodio di comune delinquenza. Tra noi c’era qualche differenza strategica, Mario più radicale, io molto più prudente. Il fatto era che “il Vegetti” ci metteva l’animo di un comunista rivolto alla speranza, io quella di un riformista sconfitto che rifletteva sulle ragioni della disfatta. Altri tempi, altre passioni.
Quale qualità d’anni passò da allora ad adesso (quasi mezzo secolo!) in qualche modo è noto. Mario però la sua partita con il senso della vita la vinse del tutto. Ampliando la sua ricerca, con lo stile che ha cercato di ricordare, divenne un maestro della cultura ellenistica che varcava le nostre frontiere: era il suo modo di mantenere la sua intransigente virtù dell’inattuale. Non ho mai sentito un suo discorso che varcasse quella soglia: “plebeo” era un aggettivo suo che segnava un altro confine, dove trionfavano gli eccessi ludici, le falsificazioni culturali i narcisismi sfrenati, gli individualismi ottusi. Personalmente era l’interlocutore cui forse tenevo di più, proprio perché sapevo che avrebbe condiviso il mio fare filosofico, anche se molto meno i soggetti della “crisi” con i quali dialogavo. Sarà così. Ma per il tempo che resta Mario è rimasto con me, con noi. «Non essere noioso, Fulvio».
Michelangelo Bovero
Michelangelo Bovero (1949) è Professore ordinario di Filosofia politica all’Università di Torino. Nel suo itinerario scientifico ha coniugato lo studio dei classici antichi e moderni con l’analisi delle teorie e dei problemi politici contemporanei, dedicandosi in particolare ai temi della democrazia e dei diritti fondamentali. È direttore della rivista internazionale «Teoria politica» e della «Scuola per la buona politica» di Torino. È membro del Comitato scientifico della rivista «Ragion pratica». Dal 1981 ha guidato numerosi gruppi e programmi di ricerca nazionali e internazionali nel campo della teoria politica. Tiene periodicamente conferenze, seminari e cicli di lezioni presso numerose Università e Istituzioni culturali in Europa e in America. È autore di oltre 300 pubblicazioni scientifiche.
Pensare la politica con Mario Vegetti
Ho conosciuto Mario Vegetti piuttosto tardi: una ventina d’anni fa, nel 1997. Ci eravamo già incrociati più volte anni prima, in occasione di alcuni seminari in Fondazione Feltrinelli, alla metà degli anni Settanta. Ma il vero e proprio incontro avvenne a Torino, nell’ambito di un’iniziativa organizzata dall’Unione culturale Franco Antonicelli – istituzione “cugina”, o forse gemella, della Casa della cultura milanese. Si trattava di un ciclo di incontri originale e un po’ stravagante, intitolato «Vino, poesia e virtù».
Ho ritrovato la locandina, anch’essa piuttosto originale. Per illustrare l’iniziativa, gli organizzatori prendevano spunto da un breve “poemetto in prosa” – così lo definivano – di Charles Baudelaire, intitolato Ubriacatevi. Ecco il testo riprodotto sulla locandina:
«Bisogna sempre essere ebbri. Ecco tutto: è l’unica questione. Per non sentire l’orribile fardello del tempo che spezza le vostre spalle e vi piega verso terra, dovete ubriacarvi senza tregua. Di che? Di vino, di poesia, di virtù, a vostro piacimento. Ma ubriacatevi. E se talvolta, sui gradini di un palazzo, sull’erba verde di un fossato, nella cupa solitudine della vostra camera, vi risvegliate, essendo già l’ebbrezza scomparsa o diminuita, chiedete al vento, all’onda, alla stella, all’uccello, all’orologio, a tutto ciò che fugge, a tutto ciò che geme, a tutto ciò che rotola, a tutto ciò che canta, a tutto ciò che parla, chiedete che ora è; e il vento, l’onda, la stella, l’uccello, l’orologio vi risponderanno: “È l’ora di ubriacarsi!”. Per non essere schiavi martirizzati del tempo, ubriacatevi senza posa! Di vino, di poesia o di virtù, a vostro piacimento».
A ragionare – sobriamente – di virtù, anzi, della regina delle virtù, la giustizia, fummo invitati, in coppia, Mario Vegetti ed io (ma ho sempre avuto il sospetto che chi aveva avuto l’idea di invitare me a questo ciclo avesse pensato non alla mia identità filosofica, bensì a quella etilica). Ci mettemmo d’accordo: Mario avrebbe parlato di Platone, l’amicus Plato, in particolare sarebbe partito dalla ricostruzione del discorso di Trasimaco nel primo libro della Repubblica; io avrei parlato di Aristotele, del quinto libro dell’Etica Nicomachea. C’era un folto pubblico, richiamato dalla presenza di Vegetti. Molti, credo, si aspettavano un confronto tra l’antico e il moderno, anzi il contemporaneo: tra l’antichista, amico di Platone, e il filosofo politico che, in quanto tale, si dava per scontato (allora) fosse amico di Rawls, sintonizzato con la cosiddetta “filosofia della giustizia” rawlsiana e post-rawlsiana. E invece no, chi aveva queste aspettative rimase deluso. Come diceva Bobbio – e io ripetevo spesso, in tutte le occasioni – «non siamo nati ieri». La filosofia politica non è nata nel 1971, anno di uscita della Theory of Justice di John Rawls. Se si vuole un dialogo fecondo e pertinente, è opportuno mettere a confronto Platone con Aristotele, che rispondono alla provocazione di Trasimaco in due modi differenti.
Fu così che in quell’incontro del 1997, Vegetti si dedicò a chiarire le due tesi-definizioni di giustizia (meglio: di “giusto”, to dikaion) sostenute da Trasimaco nel contraddittorio con Socrate: la prima, che dikaion-“giusto” sia to tou kreittonos sympheron, “l’utile del più forte”; la seconda, che sia allotrion agathon, “bene altrui”. Mise in luce la debolezza delle prime risposte di Socrate, ma sottolineò l’efficacia dell’ultima, secondo cui anche una banda di malfattori ha bisogno al proprio interno di giustizia, la quale pertanto non si risolve semplicemente nell’utile del più forte; e fece infine osservare che stranamente questo argomento non viene più ripreso in modo esplicito nello sviluppo del dialogo.
Per parte mia, proposi un’interpretazione del quinto della Nicomachea secondo cui Aristotele non respinge le tesi di Trasimaco come tali, anzi le accoglie entrambe, valorizzando soprattutto la seconda, ma nega la necessità delle implicazioni che Trasimaco ne trae: per Aristotele non è vero che l’utile della kathestekuia arche, del potere costituito, implichi necessariamente il danno dei subordinati, degli archomenoi; e non è vero che il bene altrui, in cui si risolve la giustizia, implichi necessariamente il male del giusto, di chi agisce secondo giustizia. Ne seguì una vivace discussione. Durante la quale, incorsi in una excusatio non petita. Rivolgendomi al pubblico, dissi: «Tenete sempre presente e abbiate ben chiaro che l’antichista “vero” è Mario Vegetti. Nella lettura dei classici antichi io sono solo un dilettante, un amateur, che dunque rischia spesso di dire sciocchezze per carenza di paideia adeguata; ma che ha tuttavia imparato dal suo maestro, Norberto Bobbio, a ragionare di politica, a “pensare la politica”, partendo dalla riflessione sul pensiero dei classici, antichi e moderni».
La mia frequentazione di Mario Vegetti, il dialogo con Vegetti nei vent’anni successivi è stato per me un formidabile aiuto a pensare la politica. Una volta glielo dissi, gli dissi proprio così: tu mi fai sempre pensare. Cerco di spiegare ciò che intendo. Nell’analisi, nell’interpretazione e nel commento dei classici, dell’amicus Plato e degli altri grandi (o meno grandi) scrittori antichi, Mario Vegetti è sempre rigorosissimo, ligio a canoni puntigliosi di acribia storica e filologica. Non indulge mai a facili attualizzazioni del discorso degli antichi. Tuttavia, il modo in cui li fa rivivere, ricostruendo e restituendo il senso dei loro testi, mette di fronte al lettore (e all’ascoltatore) veri e propri paradigmi di pensiero, argomenti e argomentazioni che appaiono subito esemplari: quasi modi della ragione, che contengono in nuce la possibilità di ripresentarsi sotto altre forme in altri mondi possibili, oltre al mondo reale nel quale sono nati.
Qualche tempo dopo quel nostro primo incontro-dialogo, invitai Vegetti a tenere una lezione nel mio corso di Filosofia politica, dedicato quell’anno ai problemi della democrazia. Mario presentò, anzi fece rivivere la critica platonica della democrazia nell’VIII libro della Repubblica. Senza alcun cenno di attualizzazione. Non ce n’era bisogno, per rendersi conto della fecondità dell’analisi di Platone, dell’efficacia dei suoi quadri concettuali – per l’appunto – paradigmatici.
In un’occasione successiva ci ritrovammo invitati, un’altra volta in coppia, al “festival Filosofia” di Modena, intitolato in quell’edizione al tema della “comunità”. Vegetti offrì una ricostruzione del rapporto nella teoria platonica tra l’anima individuale e il collettivo politico, la città, e tra i tipi antropologici di cittadini e le forme di politeia. Prendendo la parola dopo di lui, io presentai una ridefinizione del concetto di democrazia, delle sue condizioni in senso logico, ossia le condizioni di libertà ed eguaglianza alle quali ha senso riconoscere un regime come democratico, e delle sue condizioni in senso clinico, cioè delle degenerazioni attuali della democrazia (eravamo nel 2008). La simmetria tra le due relazioni – non voluta, non cercata, non prestabilita – risultò a tutti evidente e fu feconda per una discussione unitaria.
Nei giorni successivi, mi misi a pensare alla relazione che avrei dovuto presentare di lì a poco alla “Feria del libro” di Guadalajara (dove poi, mi piace qui ricordarlo, incontrai inopinatamente Eva Cantarella). Rilessi gli appunti che avevo preso alla lezione modenese di Vegetti. Il paradigma della simmetria tra l’anima e la città mi suggerì e mi stimolò a costruire una fenomenologia delle specie di cittadino nella democrazia degenerata. Decisi di intitolare la mia relazione – era uscito da non molto il film di Almodovar — La mala educación del ciudadano. Ne Il futuro della democrazia Bobbio aveva indicato nel «cittadino non educato» l’esito della sesta promessa non mantenuta della democrazia, e ne aveva identificate due specie, il cittadino apatico e il cittadino cliente. Le figure del «cittadino maleducato» dei nostri tempi sono peggiori e più numerose, anzi continuano a crescere e a peggiorare. La prima delle sei o sette che provai a delineare dieci anni fa, dopo aver recuperato e rimeditato quegli appunti modenesi, aveva un netto sapore platonico: il cittadino sfrontato e protervo, che si compiace di chiamare libertà la trasgressione delle regole della convivenza civile. Raccontai a Mario che l’idea mi era venuta proprio ripensando alla sua lezione modenese. Ecco quel che intendo per “pensare la politica con Mario Vegetti”.
Negli ultimi sette o otto anni, gli incontri con Vegetti si sono moltiplicati, diventando anzi una consuetudine di frequentazione, grazie a un’iniziativa che abbiamo promosso insieme Fulvia de Luise ed io: una serie di seminari alternati, a Trento e a Torino, che abbiamo concepito come un confronto e un dialogo tra studiosi del pensiero antico, prevalentemente di scuola vegettiana, e filosofi politici, prevalentemente di scuola bobbiana, preoccupati con i problemi del presente e orientati ad affrontarli anche attraverso la lezione dei classici.
L’ultimo di questi incontri avvenne a Torino, nel maggio del 2017. Fu dedicato ai principi e fondamenti del sapere politico in Aristotele; fu pensato anche come un’occasione per promuovere l’edizione Bertelli-Moggi della Politica, tuttora in corso di completamento. Le relazioni sono state pubblicate nella prima sezione del volume VIII, 2018 della nostra rivista torinese, Teoria politica. Mario Vegetti non ha potuto vederlo. Permettetemi di concludere riprendendo una pagina del mio editoriale a questo volume: La prima sezione, intitolata Aristotele. I fondamenti della politica, trae origine dal seminario svoltosi a Torino nei giorni 11 e 12 maggio del 2017, nel quale alcuni studiosi della cultura classica hanno aperto un confronto con filosofi non specialisti del mondo antico intorno alla natura della politica, del potere, della costituzione, della cittadinanza, della democrazia, a partire dal pensiero di Aristotele e in particolare dal libro III della Politica. Il confronto fu avviato da Mario Vegetti, con un’analisi di amplissimo orizzonte e lucida profondità sulla concezione aristotelica dei fondamenti del sapere politico, nella sua tensione con la concezione platonica. Mesi avanti, Vegetti aveva accolto l’invito ad aprire il seminario con qualche preoccupazione ma senza esitazioni: la proposta del tema lo aveva convinto. Durante l’incontro, in un momento conviviale, mi disse sottovoce che era molto contento di essere giunto all’appuntamento torinese con la nostra piccola comunità di dialogo. Animò il dibattito dopo ogni relazione. Fece commenti e osservazioni puntuali ad Alberto Maffi, impegnato a dipanare le intricate argomentazioni di Aristotele su politeia, politeuma e legislazione; a Silvia Gastaldi, che affrontava il tema del kyrion, centrale nel libro III; a Lucio Bertelli, che si dedicava a ricostruire il complesso pensiero aristotelico sulla democrazia; a Fulvia de Luise, che riesaminava, con tesi da lui giudicate «innovative», il controverso problema del rapporto tra uomo buono e buon cittadino; alle dotte divagazioni di Giuseppe Farinetti su virtù, felicità e politica; alla teoria «funzionale» della cittadinanza formulata da Patricia Mindus ripartendo dal pensiero di Aristotele; a José Luis Martí, che ricostruiva la fortuna moderna della tesi aristotelica secondo cui i molti giudicano e decidono meglio dei pochi o di uno solo; alle proposte avanzate da Bovero di ritraduzione e ridefinizione dei termini fondamentali del logos aristotelico che condividono la radice poli-. Quando giunse il momento di trasformare le relazioni negli articoli che ora compongono questa sezione del volume, Alberto Maffi ebbe il merito aggiuntivo di sollecitare gli altri studiosi, in particolare gli specialisti di Aristotele, ad un confronto epistolare sulle rispettive tesi interpretative, sui problemi incontrati, sui dubbi persistenti. In questo dialogo aneu phonés, ripreso e rinnovato dopo l’incontro torinese, sono certo che ciascuno ha riascoltato l’eco silenziosa della voce di Vegetti, è tornato a discutere con lui. Ma non solo questi studiosi, tutti i partecipanti al seminario ed ora i lettori di questo volume potranno continuare a fruire del suo insegnamento attraverso il testo che Vegetti ha inviato a Teoria politica nell’autunno scorso, dopo una prima revisione della sua relazione. Mario Vegetti verrà ancora a trovarci spesso nei nostri pensieri, rimarrà tra le voci e le luci più chiare del nostro mondo interiore. Caro Mario, a te dedichiamo questi nostri modesti lavori.
Valentina Pazé
Valentina Pazé è Professore associato di Filosofia politica all’Università di Torino, dove è titolare dei corsi di Filosofia politica e Teorie dei diritti umani. Tra i suoi interessi di ricerca ci sono le teorie dei diritti e della democrazia, antiche e moderne, il contrattualismo, il populismo. Tra le sue pubblicazioni: Il concetto di comunità nella filosofia politica contemporanea (Laterza 2002), Comunitarismo (Laterza 2004), In nome del popolo. Il problema democratico (Laterza 2011), Cittadini senza politica. Politica senza cittadini (EGA 2016).
La schiavitù tra natura e artificio
1. Ringrazio gli organizzatori per avermi invitato a prendere la parola in una giornata così speciale, e confesso di sentirmi un po’ a disagio di fronte ai relatori che mi affiancano, tutti illustri antichisti, nonché facenti parte del cerchio stretto degli amici e allievi di Mario Vegetti. Se mi trovo qui, insieme a Michelangelo Bovero, è tuttavia perché anche noi, filosofi politici cresciuti alla scuola di Bobbio, ci sentiamo un po’ allievi di Mario Vegetti, e suoi compagni di strada. Le occasioni di incontro e di confronto tra la “scuola di Torino” di filosofia politica e la “scuola di Pavia” di filosofia antica, in questi anni, sono state frequenti. L’ultima è un memorabile seminario su Aristotele. I fondamenti della politica, organizzato a Torino dalla rivista “Teoria politica”, che si è aperto per l’appunto con una relazione di Vegetti (Vegetti 2018). Ma bisogna ancora ricordare, per lo meno, i tre incontri organizzati a Trento da Fulvia de Luise sui paradigmi del pensiero politico (2011), le figure del potere nel mondo antico (2014), i criteri di legittimazione politica (2015), oltre al seminario internazionale Nomothetes, kybernetes, dikastes. Tre figure del potere, svoltosi a Torino nel novembre 2013, i cui atti sono stati pubblicati sulle pagine di “Teoria politica”.
Scendendo su un terreno più personale, ricordo con emozione il mio primo incontro de visu con Mario Vegetti, che risale al 2005, quando tenne una lezione sull’VIII libro della Repubblica all’interno del corso di Filosofia politica di Michelangelo Bovero. Una lezione, come sempre, di esemplare chiarezza e acume, che mi spinse a correre in libreria a prenotare i volumi del commento Bibliopolis che ancora mi mancavano, da quel momento divenuti punto di riferimento ineludibile nel mio rapporto con la Repubblica. Inutile aggiungere che anche la riflessione che sto per proporvi – sul tema della schiavitù in Platone – si è ampiamente nutrita della frequentazione dei testi di Mario Vegetti.
2. “Esiste la schiavitù nella Repubblica di Platone?”La domanda non è nuova. Se la poneva Gregory Vlastos in un articolo pubblicato nel 1968, che per decenni ha fatto testo sul tema (Vlastos 1968). La risposta di Vlastos era positiva. Al di là di alcuni indizi testuali che farebbero pensare alla presenza di schiavi nelle strade della kallipolis, a indurre a questa conclusione era una considerazione di carattere generale. Se Platone avesse inteso sfidare un’istituzione radicata nel suo tempo come la schiavitù, ed espellerla dalla sua città giusta, avrebbe argomentato in modo esplicito contro di essa. L’abolizione della schiavitù sarebbe stata una novità non meno “inaudita” e scandalosa dell’accesso delle donne a ruoli di comando, o dell’abolizione della famiglia. Ma non c’è alcuna critica esplicita della schiavitù da parte del Socrate platonico, che si limita a deplorare l’eventualità che i greci riducano in schiavitù altri greci, anziché i barbari (469b). Su questo tema, Platone sembra essere in linea con la tradizione largamente maggioritaria tra gli utopisti antichi, più disposti ad abolire proprietà privata e matrimonio che a mettere in discussione la schiavitù (Bertelli 1985). Il suo silenzio nella Repubblica andrebbe interpretato come accettazione di una pratica talmente scontata da rendere quasi superfluo nominarla. 2. “Esiste la schiavitù nella Repubblica di Platone?” La domanda non è nuova. Se la poneva Gregory Vlastos in un articolo pubblicato nel 1968, che per decenni ha fatto testo sul tema (Vlastos 1968). La risposta di Vlastos era positiva. Al di là di alcuni indizi testuali che farebbero pensare alla presenza di schiavi nelle strade della kallipolis, a indurre a questa conclusione era una considerazione di carattere generale. Se Platone avesse inteso sfidare un’istituzione radicata nel suo tempo come la schiavitù, ed espellerla dalla sua città giusta, avrebbe argomentato in modo esplicito contro di essa. L’abolizione della schiavitù sarebbe stata una novità non meno “inaudita” e scandalosa dell’accesso delle donne a ruoli di comando, o dell’abolizione della famiglia. Ma non c’è alcuna critica esplicita della schiavitù da parte del Socrate platonico, che si limita a deplorare l’eventualità che i greci riducano in schiavitù altri greci, anziché i barbari (469b). Su questo tema, Platone sembra essere in linea con la tradizione largamente maggioritaria tra gli utopisti antichi, più disposti ad abolire proprietà privata e matrimonio che a mettere in discussione la schiavitù (Bertelli 1985). Il suo silenzio nella Repubblica andrebbe interpretato come accettazione di una pratica talmente scontata da rendere quasi superfluo nominarla.
È vero, tuttavia, che questo silenzio potrebbe essere inteso anche in altro modo. Potrebbe essere considerato un sintomo della marginalità della schiavitù nell’architettura della kallipolis, della sua “inutilità”. In effetti, il lettore fa fatica ad accorgersi della presenza di schiavi nella città giusta disegnata da Platone: tutto sembra funzionare bene anche senza di loro. Da questa prospettiva, la questione della presenza o meno della schiavitù nella kallipolis risulta non scontata, e degna di qualche approfondimento. Provo qui a ricapitolare i termini della questione, formulando quattro ipotesi. La prima ipotesi è che gli schiavi, nella Repubblica, coincidano con i membri del terzo ceto, dediti ai lavori manuali e al commercio. A rendere non del tutto peregrina questa soluzione c’è, nel nono libro della Repubblica, il ricorso al termine douleia per descrivere lo stato di soggezione dei lavoratori manuali.[1] Si potrebbe tuttavia pensare a un uso metaforico della parola, cui Platone ricorre per alludere a una condizione di subordinazione politica dei “peggiori” nei confronti dei “migliori”. A una sorta di “servitù volontaria”, resa accettabile dalla “nobile menzogna”, oltre che da una certa dose di coercizione. Di certo, la condizione dei membri del terzo ceto appare lontana da quella dello schiavo dell’Atene del V-IV secolo, di cui il padrone poteva disporre a suo piacimento. Inoltre, a parte il fatto che Platone dice espressamente che i produttori sono pagati per il loro lavoro (433d), non si vede chi potrebbero essere i loro padroni, dal momento che famiglia e proprietà privata sono state abolite per i phylakes, che si sono così liberati della fastidiosa incombenza di occuparsi di “donne e domestici”.[2] Si potrebbe, al più, descrivere la condizione dei produttori come quella di “schiavi pubblici”, figura non ignota al tempo. Ma altri elementi non tornano. Lo schiavo storico era, per definizione, un “senza famiglia” (Finley 1985 : 97), mentre i membri del terzo ceto sono, nella Repubblica, gli unici a mantenere i legami familiari. Insomma, per quanto in posizione subordinata, i produttori sembrano essere a tutti gli effetti parte della polis. Uomini liberi, i cui figli, in linea di principio, se dotati di qualità eminenti, potrebbero addirittura venire cooptati in uno dei primi due gruppi. La seconda ipotesi, più convincente, è quella formulata a suo tempo da Vlastos: i membri del terzo ceto non sono schiavi, ma sono proprietari di schiavi. Sono anzi gli unici a poterne possedere data l’interdizione che colpisce il ceto dirigente. Anche questa ipotesi incontra tuttavia qualche difficoltà. Quella più significativa ha a che fare con la giustificazione della schiavitù fornita da Platone nel Liside. Una giustificazione “paternalista”, che assimila lo schiavo a un bambino, non dotato in modo sufficiente di razionalità, e dunque bisognoso di essere guidato dal logos del padrone (Vegetti 2017 : 28-29). Ora, il problema è che nella kallipolis i membri del terzo ceto si caratterizzano, a loro volta, per la carenza dell’elemento razionale – il logistikon – che risulta subordinato, nella loro anima, alla parte desiderante. La loro sottomissione ai primi due ceti, nel IX della Repubblica, viene giustificata proprio con lo stesso argomento che nel Liside è usato per la schiavitù. I produttori appaiono dunque palesemente inadatti a possedere-guidare schiavi, ai quali sembrano somigliare parecchio, quanto a struttura psichica. Gli unici in grado, teoricamente, di possedere schiavi sarebbero i phylakes. Ma ciò è a loro esplicitamente precluso (Calvert 1987 : 369). La constatazione dell’inquietante somiglianza, sul piano psicologico, tra schiavi e produttori, può indurci a fare un decisivo passo avanti verso l’ipotesi che la schiavitù non trovi posto nella kallipolis. Questa tesi è stata brillantemente sostenuta da Brian Calvert, che osserva come gli schiavi nella città giusta platonica risultino sostanzialmente “inutili”, essendo il lavoro manuale affidato a cittadini liberi in cambio di un salario. I (peraltro rari) riferimenti agli schiavi che compaiono nel testo sarebbero interpretabili, se non proprio come sviste, come esempi tratti dalla vita quotidiana degli ascoltatori del dialogo, utili a chiarire particolari snodi del discorso, e non come illustrazioni del funzionamento della città giusta.[3] Un ulteriore argomento che Calvert porta a sostegno della tesi “abolizionista” rinvia all’omologia tra la città e l’anima. Supponendo che, al di sotto dei produttori, vi siano gli schiavi, dovremmo aspettarci che la teoria dell’anima platonica, da tripartita, diventi quadripartita, per fare spazio all’elemento psichico proprio degli schiavi. Ma così non è. Come abbiamo visto, l’anima dello schiavo sembra non differire, qualitativamente, da quella dei componenti del terzo ceto. Esiste infine una quarta e ultima possibilità: che l’abolizione dell’oikos riguardi, in prospettiva, l’intera città, come suggerisce l’interpretazione retrospettiva della Repubblica proposta da Platone nel Timeo e nelle Leggi. In questo caso, potremmo concludere con certezza che anche la schiavitù è stata cancellata dall’orizzonte della città giusta, insieme alla proprietà privata. Sono tuttavia molte – e ben note – le difficoltà di una simile interpretazione della Repubblica, su cui ha basato la sua critica Aristotele (Calabi 2000, Vegetti 2000).
3. Senza alcuna pretesa di dire qualcosa di definitivo, provo ad avanzare tre osservazioni a margine di questa rassegna di posizioni. La prima: se anche si propende per la tesi dell’implicita abolizione della schiavitù nella kallipolis, ciò non fa di Platone un pensatore egualitario, o addirittura mosso da sentimenti umanitari. Semmai, la previsione di un ceto di cittadini-produttori formalmente liberi, ma con una psicologia molto simile a quella degli schiavi, incapaci di farsi guidare dal principio razionale e bisognosi di essere etero-diretti, testimonia dell’irriducibile pessimismo antropologico di Platone, su cui è più volte tornato Vegetti, e della sua avversione profonda nei confronti dell’ideologia democratica.
Secondo Finley, il sistema schiavistico inizia a svilupparsi ad Atene ai tempi delle riforme di Solone, che aboliscono la schiavitù per debiti e altre forme non schiavistiche di lavoro involontario (Finley 1985 : 112 e sg.). Il ricorso massiccio al lavoro degli schiavi – e la “caccia” ai barbari da ridurre in schiavitù – si rende necessario per rimpiazzare la forza lavoro dei cittadini ateniesi di condizioni più basse, non più disponibili a lavorare alle dipendenze altrui. «Uomo libero – scrive Finley – era [ormai considerato] chi non viveva sotto la costrizione di un altro, né era impegnato a lavorare a beneficio di un altro; chi viveva preferibilmente sul pezzo di terra avito, con gli altari e le tombe degli antenati. La creazione di questo tipo di uomo libero in un mondo tecnologicamente arretrato, preindustriale, portò alla creazione di una società schiavistica. Non c’era alcuna realistica alternativa» (Finley 1985 : 118). La conquista della libertà e dell’eguaglianza politica da parte degli strati più umili della società ateniese, secondo questa interpretazione, va di pari passo con lo sviluppo del modo di produzione schiavistico. Potremmo allora intravedere nella kallipolis di Platone un modello che guarda all’indietro, a un’epoca pre-democratica, quando di schiavi non c’era bisogno perché il lavoro necessario era svolto da una massa di cittadini poveri, in condizioni semi-servili. Una seconda considerazione verte sul nesso tra ragione e storia nella filosofia platonica. Mario Vegetti in più occasioni ha contrapposto la “naturalizzazione normativa della normalità” di Aristotele all’«artificialismo ricostruttivo» di Platone (Vegetti 2000). In Aristotele la “normalità” – la regolarità dei comportamenti, osservabile sul piano sociologico – diventa criterio per identificare ciò che è “naturale”, e dunque anche “normativo”: «normale è ciò che le cose sono o dovrebbero essere per realizzare la propria natura essenziale» (Vegetti, Ademollo 2016 : 209). Di qui la celebre giustificazione della schiavitù per natura, che procede non senza qualche intoppo, dovendo fare i conti con anomalie come quella dello schiavo che non ha un “corpo da schiavo”, come ci si aspetterebbe.
Il riferimento alla natura, in Platone, gioca un ruolo diverso, assumendo in molti casi un significato rivoluzionario, di critica del costume vigente. Lo si coglie nelle pagine dedicate all’illustrazione delle novità più scandalose del progetto illustrato nella Repubblica: l’equiparazione delle donne agli uomini quanto a capacità di comando (la “prima ondata”), e l’abolizione della famiglia (la “seconda ondata”). Il superamento della discriminazione fondata sul genere, in particolare, doveva apparire del tutto contro natura ai contemporanei di Platone. Ma il Socrate platonico, partendo dall’esempio delle femmine dei cani, insinua il dubbio che siano “le istituzioni attuali” ad essere “contro natura”, e a dover essere radicalmente ripensate (456c). Nel caso della proposta ancora più destabilizzante dell’abolizione della famiglia e della messa in comune delle donne e dei figli, il riferimento alla natura viene abbandonato. A convincere i partecipanti al dialogo della necessità e desiderabilità di una simile innovazione sembra essere sufficiente la dimostrazione razionale della sua utilità per la città.
Certo, con riferimento alla schiavitù, Platone non sfida il senso comune del suo tempo. Vegetti osserva che egli attribuisce la stessa inferiorità di banausoi e cheirotecnai «a motivi psicologici, e non sociali, scambiando l’effetto con la causa (un errore che non aveva commesso a proposito del sesso femminile, la cui inferiorità psicologica era stata attribuita a un’educazione sbagliata)».[4] Se Platone non mette esplicitamente in dubbio la naturalità della schiavitù, non è tuttavia per scarso coraggio: il coraggio non gli era mancato nel proporre le due prime “ondate” che avrebbero dovuto condurre alla costruzione della kallipolis. Il che mi conduce ad una terza, e ultima, considerazione. Mi chiedo se non sia proprio questa attitudine rivoluzionaria, e visionaria, di Platone ad avere sedotto Mario Vegetti e ad avere fatto sì che abbia stretto con lui quell’“amicizia” profonda e duratura che è ben percepibile dai suoi scritti.
Riferendosi alla critica aristotelica del comunismo platonico, Vegetti osserva che Aristotele si mostra «forse più ‘idealista’ e probabilmente anche più ideologico di Platone, che non aveva sicuramente dato prova di atopia nel riconoscere nel conflitto tra ricchi e poveri l’origine della stasis nella città, e nel pensare che se questo conflitto non fosse stato risolto alla radice ben poco ci si sarebbe potuti attendere dai costumi, dalle leggi e dalla filosofia» (Vegetti 1998: 158).[5] In questa capacità di andare “alla radice” dei problemi mi sembra consista una delle principali lezioni del Platone di Mario Vegetti. Un pensatore che non ha mai esplicitamente criticato la schiavitù, e forse non ha neanche inteso metterla in discussione, ma ne ha reso il superamento pensabile, offrendoci gli strumenti per andare oltre la normalità e le convenzioni del suo – e del nostro – tempo.[6]
Bibliografia
Bertelli, L. (1985). Schiavi in utopia, “Studi storici”, 26, n. 4, pp. 889-901.
Calabi, F. (2000). Aristotele discute la Repubblica in La Repubblica, traduzione e commento a cura di M. Vegetti, vol. IV, Libro V, Bibliopolis, Napoli, pp. 421-38.
Calvert, B. (1987). Slavery in Plato’s Republic, “The Classical Quarterly”, vol. 37, n. 2.
Finley, M. (1981). Schiavitù antica e ideologie moderne, tr. it. Laterza, Roma-Bari.
Pievatolo, M.C. (2008). La via verso l’alto: autonomia dell’anima e politica nella Repubblica di Platone, in La filosofia politica di Platone, a cura di G.M. Chiodi e R. Gatti, FrancoAngeli, Milano, pp. 173-84.
Vegetti, M. (1989). L’etica degli antichi, Laterza, Roma-Bari.
Vegetti, M. (1998). Ricchezza/ povertà e l’unità della polis, in Platone, La Repubblica, vol. III, libro IV, traduzione e commento a cura di M. Vegetti, Bibliopolis, Napoli.
Vegetti, M. (2000). La critica aristotelica alla Repubblica nel secondo libro della Politica, il Timeo e le Leggi, in La Repubblica, traduzione e commento a cura di M. Vegetti, vol. IV, Libro V, Bibliopolis, Napoli, pp. 439-52.
Vegetti, M. (2000a). Normale, naturale, normativo in Aristotele, “Quaderni di storia”, 52, pp. 73-84.
Vegetti, M. (2017). Chi comanda nella città? I Greci e il potere, Carocci, Roma 2017.
Vegetti, M. (2018). I fondamenti del potere politico. Aristotele contro Platone?, “Teoria politica” n.s., Annali, vol. VII, pp. 23-34.
Vegetti, M., Ademollo, F. (2016). Incontro con Aristotele. Quindici lezioni, Einaudi, Torino.
Vlastos, G. (1968). Does Slavery
Exist in Plato’s Republic?, “Classical Philology”, vol. 63, n. 4,
pp. 291-295.
[1] Lo osservava Vegetti in Vegetti, 1989 : 123-24.
[2] «Quanto ai minori mali di cui si saranno sbarazzati, esito persino a parlarne perché sono cose sconvenienti: adulare i ricchi, loro poveri, e le penose difficoltà che si incontrano nell’allevamento dei figli e nei tentativi di guadagnare per dare ai domestici il cibo necessario, ora contraendo prestiti, ora rifiutando di pagare i debiti, ricorrendo a ogni espediente per cercare di procurarsi del denaro da consegnare a donne e domestici con l’incarico di amministrarli […]» (La Repubblica, 465c).
[3] Si pensi al passo, su cui molto insiste Vlastos, in cui Socrate sostiene l’importanza che «ogni singolo individuo svolga il compito che gli è proprio» e fa, tra gli altri, l’esempio dello schiavo (433d).
[4] Platone, La Repubblica, a cura di M. Vegetti, Bur, Milano 2006, p. 1084, nota.
[5] Corsivo mio.
[6] Si potrebbe aggiungere – come mi suggerisce Fulvia De Luise, che ringrazio – che un ulteriore indizio dell’apertura di Platone ad “altri mondi possibili” è l’esistenza di un certo schiavo che, nel Menone, riesce a rispondere correttamente a un quesito geometrico… A sostegno della tesi che Platone, pur non criticando la schiavitù, ci offra le premesse per farlo, cfr. anche Pievatolo, 2008: 182-84.
Federico Zuolo
Federico Zuolo è ricercatore in Filosofia politica presso l’Università di Genova. Ha lavorato precedentemente presso le università di Pavia e Trento ed è stato borsista della fondazione von Humboldt nelle università di Berlino e Amburgo. Ha pubblicato una monografia su Platone (Platone e l’efficacia. Realizzabilità della teoria normativa), una nuova edizione dello Ierone di Senofonte (Carocci 2012) e un’introduzione all’etica animale (Etica e animali. Come è giusto trattarli e perché, il Mulino 2018).
Radicalità e attualità.
Sull’uso contemporaneo dei classici
Abbiamo bisogno dei classici tanto quanto non abbiamo bisogno della retorica sull’utilità dei classici. A fasi alterne si alza un dibattito auto-referenziale e ripetitivo tra coloro che vorrebbero fare a meno dei classici (e del liceo classico!) e i difensori d’ufficio che ne sostengono la necessità educativa e culturale. Eppure, a pensarci bene la questione sembra mal posta. Secondo una delle definizioni standard, “classico” è ciò che non passa mai di moda ed è sempre a noi contemporaneo. Questa definizione, coperta dal felice gioco di parole, nasconde una profonda verità e un’inquietante ambiguità. La verità è che il vero classico può dire qualcosa nonostante il passare delle epoche perché nella complessità della tessitura del suo discorso si nascondono molteplici chiavi di lettura aperte a diverse epoche. L’ambiguità invece è che questa apertura polisemica possa risiedere in una sottodeterminazione concettuale. Se di sottodeterminazione si trattasse, forse rischieremmo di sopravvalutare il messaggio del classico in questione, che sembra avere molte cose da dirci perché siamo noi a mettergliele in bocca.
Senza addentrarci ulteriormente in questa diatriba senza fine, vorrei qui riportare alcune considerazioni su ciò che io ho imparato da Mario Vegetti riguardo all’uso dei classici. Senza concedere ulteriore spazio a un dibattito, pur importante, che rischia però di guardare al classico come un’entità monumentale ed eterna, come se fosse un busto marmoreo, cercherò di interrogare questi problemi a partire da una coppia di nozioni apparentemente sempre in tensione – radicalità e attualità – che però nel magistero di Mario Vegetti ho sempre percepito come fruttuosamente unite. A di là delle apparenze o del gusto fine a se stesso del paradosso, certi autori classici possono essere radicali e inattuali ma proprio per questo dirci qualcosa di significativo e non finire per ripetere un ruolo museale. O per lo meno questo è quello che cercherò di sostenere in questo breve pezzo.
Prima di iniziare è necessario esplicitare una breve premessa metodologica. Quando ci si propone di discutere termini così ovvi e quotidiani come attualità e radicalità si corrono due rischi. Da un lato, si rischia di muoversi sul filo della noia del discutere l’ovvio. Dall’altro, si può dare l’impressione di essere troppo presuntuosi, se si cerca di mettere in discussione il senso consolidato e stratificato dei termini, come se la semplice analisi concettuale e storica fatta a tavolino potesse realmente ribaltare il significato di una costruzione collettiva di lunga data. A costo di rischiare la noia dell’ovvio o la presunzione dell’arroganza penso si possa parlare dei termini in questione in maniera non banale ma nemmeno presuntuosamente rivoluzionaria. Infatti, la presunta ovvietà nasconde un atteggiamento irriflesso che a sua volta richiede analisi.
Il paradigma radicale
Per radicalità si intende solitamente un qualcosa che pare in aperto contrasto con gli standard etici, sociali o estetici di una certa epoca. E questa diversità non implica solo la differenza rispetto agli impliciti normativi di un’epoca, ma anche lo scontro e la pretesa di cambiamento che essa propone. Radicale è quella proposta etica o politica che richiede un cambiamento complessivo di pratiche sociali e assunti valoriali che sono incardinati in un’epoca. In tal senso e in prima istanza ciò che è radicale sembra mettere in discussione l’attualità in quanto insieme di pratiche, assunti e istituzioni correntemente date per ovvie o esplicitamente sostenute. La radicalità cerca di svelare gli impliciti e di riaprire la questione dell’ovvietà di ciò che esiste, che persiste grazie all’inerzia pigra della consuetudine.
Nell’ambito etico e politico l’atteggiamento radicale si inaugura, così come per molte altre cose, con Platone e in particolare con le celeberrime tesi della Repubblica. Nel voler rifondare la polis partendo zero, dopo una tabula rasa, e nel volerne ricostruire le fondamenta più essenziali (proprietà, famiglia e accesso al potere) la kallipolis platonica è sicuramente radicale e pertanto sembra anche perennemente inattuale, tanto rispetto agli standard della sua epoca, quanto rispetto ai nostri standard poiché ciò che ha cercato di mettere in discussione è diventato un carattere in un qualche senso permanente delle nostre società. Eppure, nonostante l’evidenza di questa tesi si può dubitare della necessaria contrapposizione tra radicalità e attualità. Per capire in che senso questa opposizione non ha necessariamente luogo, dobbiamo però fare un détour attraverso il significato di attualità. È quest’ultima nozione, infatti, ad essere più ambigua e sottoposta alla coperta offuscante di ciò che è ovvio ma non discusso. Tutti diamo per scontato cosa voglia dire essere attuali, più di quanto pensiamo riguardo al concetto di radicalità, ma specificare cosa voglia dire attualità e in particolare attualità di un classico solleva molte questioni.
Tre tipi di attualità
Venendo ora al concetto di attualità, possiamo delineare tre tipi di attualità del passato o del classico. La prima è l’attualità di prossimità, la seconda è l’attualità del portavoce e la terza è l’attualità come rilevanza. In tutti e tre i casi ciò che viene considerato attuale è ciò in cui a partire dal nostro punto di vista ritroviamo qualcosa del passato che ci sembra familiare o appartenente al nostro mondo.
In un primo e ovvio senso l’attualità si può caratterizzare come una sorta di prossimità o similarità funzionale. Si possono fare molteplici esempi di similarità di un fenomeno o di una tesi classica. Ad esempio, si può dire che il dibattito tra Platone e i sofisti è molto attuale poiché mostra i problemi della professionalizzazione della comunicazione (oggi diremmo di marketing) e dell’importanza della comunicazione per ottenere il potere. Oppure si pensi al dialogo tra Ierone e Simonide nello Ierone di Senofonte quando si dice che il governo tirannico non può che basarsi sulle persone ingiuste, dissolute e servili perché sono gli unici di cui si può servire il tiranno dato che sono gli unici ad apprezzare un governo ingiusto (Senofonte 2012, V, 1-3).
Ma oltre a questi aspetti poco controversi, la grande ambiguità del concetto di attualità ruota attorno alla presunta esigenza di attualizzare un classico. Una delle cose che più mi ha segnato della visione ermeneutica vegettiana è la rottura di un malinteso riguardo alle attualizzazioni. Si potrebbe dire in termini molto semplici che non è vero che per essere interessante o per essere sentito vicino a noi un classico deve essere attualizzato (per lo meno attualizzato nel primo senso di attualizzazione). Ciò che è interessante non è necessariamente l’attualizzazione della prossimità e somiglianza, e non è necessariamente qualcosa di vicino a noi.
Una paura inconfessata di non riuscire a destare interesse è dietro al secondo modo di intendere il senso dell’attualizzazione. Chiamo questa forma di attualità l’attualità del portavoce, laddove l’attualità consiste nel cercare di far dire a un classico una tesi sostantiva attualmente in voga. Chiaramente anche l’attualità di prossimità in parte sfrutta questa mossa esegetica. Ma l’attualità del portavoce più che una dinamica di avvicinamento (come la prima forma di attualizzazione) implica una forma di sostituzione o di espressione per interposta persona, e per questo la chiamo del portavoce. Infatti, in questa forma di attualizzazione si scopre che un certo classico aveva già sostenuto una tesi – solitamente normativa – e solitamente questa tesi è anche quella preferita dall’interprete di turno. Quindi più che avvicinare il classico alla contemporaneità si tratta di riscoprire quanto tale classico può ancora parlare in nostra vece nel presente e sostenere la nostra tesi preferita. In tal senso si dice che il classico “anticipa”, “prefigura”, fenomeni o esigenze care al presente. A differenza della prima forma di attualizzazione qui non si tratta di mostrare che il classico può parlare a noi, bensì si tratta di mostrare che il classico può parlare per noi tra noi contemporanei.
Anche in questo caso si possono fare vari esempi. Mi limito solo a due mosse molto note: l’utilizzo di Aristotele da parte di Martha Nussbaum e di Spinoza da parte di Toni Negri. Come è noto Nussbaum ha cercato di ritrovare in Aristotele le basi di un’attività statale di tipo social-democratico (Nussbaum 1988; 1990; 1992) che intende fornire a tutte le persone le opportunità per sviluppare le capacità di base. Aristotele negli intenti di Nussbaum fornisce una teoria del bene e della natura umana che si contrappone a un certo relativismo o non-fondazionalismo del liberalismo contemporaneo. Tale teoria sostantiva e spessa del bene è alla base dell’approccio delle capacità come teoria riguardo a ciò che si deve distribuire in uno stato impegnato a sostenere la libertà e l’eguaglianza. In alternativa, si pensi, con un altro tipo di anacronismo, l’attualizzazione di interpretare Spinoza come un rivoluzionario (Negri 1981). Secondo Negri Spinoza è il pensatore che anticipa un certo approccio rivoluzionario perché è capace di pensare la moltitudine come generatrice autonoma di potenza e attività politica, superando in tal modo le mediazioni liberali e borghesi che si frappongono tra gli individui e l’agire politico.
A cavallo tra la storia della filosofia antica e la filosofia politica ho a volte guardato con interesse a queste proposte. Ma Vegetti mi ha mostrato la fallacia di questo modo di fare attualizzazioni. Nell’attualizzazione del portavoce si nasconde un problema culturale insidioso che non ha soltanto a che fare con la necessità di essere corretti da un punto di vista esegetico. Ovviamente i testi classici garantiscono una certa libertà ermeneutica grazia alla loro polisemia e all’evolvere dei problemi con cui vengono interrogati. Ma un conto è interpretare un testo in maniera aggiornata, o cercare porre questioni nuove, un altro è far dire a un testo una tesi sostantiva (tipicamente normativa) a lui aliena. Nel sostenere che un certo autore ha anticipato la socialdemocrazia o la rivoluzione si rende un pessimo servizio alla socialdemocrazia, alla rivoluzione e al classico stesso. E questo non è tanto (e soltanto) perché abbiamo un dovere di correttezza ermeneutica, quanto perché si dà l’impressione che si debba scavare nel passato e far dire a un classico una certa cosa affinché tale tesi sia sufficientemente robusta. Nel fare questo si rischia di dare l’impressione che la questione contemporanea sia debole senza l’aiuto del classico, e che il classico abbia bisogno di essere attualizzato in questo senso per essere in un qualche modo interessante. Allo stesso tempo si prende a prestito l’autorevolezza del classico ma se ne diminuisce la distanza, come se fosse impegnato realmente nella diatriba contemporanea in questione.
Se le categorie che ho proposto sinora sono valide, possiamo discutere il terzo tipo di attualizzazione in cui forse Mario Vegetti avrebbe potuto parzialmente riconoscersi. Nell’interrogare il classico in maniera opportuna si apre uno spettro di possibili interpretazioni (più o meno ampio a seconda dei casi). Nel farlo si devono ovviamente usare le categorie più adeguate che sono state elaborate nel corso della storia, comprese quelle più recenti. Ma non necessariamente devono essere le più recenti per rendere il pensatore più attuale. Benché secondo Vegetti l’attività di analisi storica ed esegetica non abbia bisogno di giustificare il proprio senso rispetto all’attualità (soprattutto se intesa nei primi due sensi), ciò non vuol dire che debba essere intesa come avulsa dal presente. Ma questo senso di attualità non consiste né in un mostrare la vicinanza (attualità come prossimità), né in un far dire al classico tesi del presente (attualità del portavoce). Bensì consiste in qualcosa di più sottile che ha a che fare con la questione della radicalità e che investe i presupposti delle nostre pratiche sociali. Per questo l’ho definita attualità della rilevanza.
Forse risuona qui l’eco di ciò che Bernard Williams (2009) chiamava “il senso del passato”. La ricostruzione genealogica a cui si dedica Bernard Williams serve a riappropriarsi di una storia complessa e ramificata ma anche a mostrare la distanza tra noi e una certa epoca storica. La distanza è un esercizio di riflessione indiretta sull’attualità. E superando in qualche modo Williams possiamo aggiungere che è per questo motivo che l’estremamente inattuale può risultare in un certo senso attuale. Ma non perché attualizzabile o fattibile. Bensì perché presente nella sua distanza.
Nel terzo tipo di attualità che stiamo prendendo in considerazione, l’attualità non è una categoria di somiglianza o di prossimità, e l’attualità non è nemmeno il tentativo di mettere in bocca al classico cose che forse non ha detto. In questo terzo senso l’attualità è una categoria di interesse. E un’idea può essere interessante, e di conseguenza attuale, anche se si tratta di un’idea molto distante da quelle in voga, anzi proprio perché lo è può trattarsi di un’idea attuale.
Attualità del radicale
Ad esempio, il radicalismo politico platonico, tanto nascosto da molti interpreti spiritualisti e liberali, è attuale perché mette in discussione un assunto di molte (ma non tutte) le teorie attualmente più in voga. Ad esempio, il primato genealogico e assiologico dell’individuo sulla collettività. Oppure l’impossibilità di cambiare le basi strutturali della società (ad esempio riguardo alla famiglia). È qui opportuno ricordare il volume di Vegetti, Un paradigma in cielo. Platone politico da Aristotele al novecento (Vegetti 2009). Nella millenaria storia delle interpretazioni politiche di Platone, e qui ci riferiamo soprattutto alle tesi scandalose e rivoluzionarie della Repubblica, si hanno varie fasi. Dapprima si riconosce che la Repubblica ha un contenuto dal carattere fortemente politico, ma si considera la sua realizzazione impossibile e indesiderabile (Aristotele e successori). Poi dal neoplatonismo in poi si inizia a interpretare la questione in termini maggiormente moralizzati: pur senza negare la dimensione politica, si dà priorità all’ordine dell’anima invece che a quello della città. L’autorità intellettuale platonica deve in qualche modo essere protetta dalla pericolosità delle sue tesi. Lo scandalo del radicalismo politico va nascosto e quindi emerge l’idea di una Repubblica come dialogo che si occupa prevalentemente, anche se non esclusivamente, della giustizia nell’anima. Non possiamo qui ripercorrere tutte le vicende di una questione complessa e millenaria. Ci basti ricordare che nel secondo dopoguerra, dopo che Popper attaccò Platone quale maestro dei totalitarismi, in molti hanno cercato di sminuire la politicità della Repubblica. In estrema sintesi gli interpreti hanno cercato di conciliare Platone con il pensiero liberaldemocratico, o hanno sostenuto che Platone ironicamente voleva dire l’opposto di quanto detto esplicitamente (Leo Strauss) o hanno ricondotto l’intento fondamentale della Repubblica al miglioramento etico dell’individuo, indipendentemente dalle prospettive politiche. Di fronte a questo tipo di negazione non si può non pensare che si tratti di una forma di rimozione semicosciente, in senso psicanalitico, ovvero la rimozione di un conflitto tra un qualcosa che si deve onorare (il pensiero platonico) e gli assunti morali in cui si vive. Ma il mostrare la radicalità e contrarietà di un pensatore rispetto agli assunti morali e sociali del presente non dovrebbe squalificarne l’interesse. Non dovrebbe se si prende sul serio il terzo tipo di attualità e se non ci si fa abbindolare dalle sirene dei primi due tipi di attualità.
Alla luce di queste considerazioni si può pensare all’attualità del Platone della Repubblica con le categorie della rilevanza e dell’interesse. Senza usare giochi di parole del tipo l’attualità dell’inattuale, ci può essere attualità-interesse in un pensatore molto diverso e radicale rispetto all’attuale. Il presunto paradosso può essere spiegato se ripartiamo da Platone. Come detto, la radicalità si esprime nel mettere in discussione gli assunti fondamentali non solo della società a lui coeva ma anche delle nostre società. Le famose tre ondate, volutamente scandalose e sempre inattuali, attaccano i capisaldi della proprietà (individuale e famigliare), dell’educazione dei figli (famigliare) e della regola per esercitare l’autorità legittima (che non si basa sulla conoscenza). Ma nel mettere in discussione le regole fondamentali della proprietà, della crescita dei figli e dell’autorità politica il radicalismo platonico ne mostra gli assunti costitutivi e raramente discussi.
Mario Vegetti si trova a discutere di questi temi in termini leggermente diversi in un dibattito impostato dall’idea di Carlo Augusto Viano di un “modello chiuso” di interpretazione della storia della filosofia antica. Secondo questo modello la filosofia antica non deve avere rapporti diretti né con la contemporaneità (e quindi deve risultare inattuale) ma non dobbiamo nemmeno pensarla come pienamente coerente e integrata con la società e la vita dell’epoca coeva. Piuttosto dobbiamo vederla come a sua volta marginale e in opposizione con l’ethos imperante di una certa epoca. Questa tesi serviva a Viano per opporsi sia al classicismo secondo il quale i modelli classici possono essere direttamente applicati poiché eternamente validi in ogni epoca, sia a interpretazioni più storicistiche che non cercano di riappropriarsi direttamente della filosofia classica ma la pensano comunque perfettamente integrata con lo spirito dell’epoca. Vegetti rimarca i limiti di questa idea chiusa dell’interpretazione della storia della filosofia antica poiché rischia di limitare il senso e l’utilità dello studio dei classici filosofici. E propone una via d’uscita che consiste in un diverso modello di approccio ai classici.
Forse è possibile evitare il rischio della irrilevanza senza perdere questo vantaggio. Si tratterebbe di capovolgere la prospettiva: cioè di usare gli antichi, e la loro filosofia, come un punto di vista esterno e straniante su di noi. Un punto di vista cioè che proprio in virtù della sua distanza e della sua differenza ci consenta di vedere in modo più chiaro e radicale presupposti inconsapevoli, pregiudizi radicati, idées reçues accettate acriticamente, che intessono il nostro modo di pensare. (Vegetti, 2009b, pp. 344)
Questa prospettiva critica è offerta dai classici, o per lo meno da certi classici e da un certo modo di studiare i classici, perché i classici permettono di intrecciare distanza e rilevanza. Sono rilevanti, come detto, perché pongono questioni interessanti di messa in discussione dei nostri assunti. Ma hanno anche il vantaggio di essere distanti, ovvero di poter effettuare l’esercizio critico offrendo il contraltare di modelli teorici e storici non immediatamente spendibili nell’agone politico e culturale contemporaneo. Questa distanza, lungi dall’essere uno svantaggio, come potrebbero pensare i due primi tipi di attualizzazione che abbiamo visto (di prossimità e del portavoce), è in realtà una risorsa intellettuale formidabile perché garantisce al classico l’autorevolezza del non immischiarsi nel limite delle polemiche e allo stesso tempo ne mantiene l’interesse intatto.
Per fare qualche esempio, magari banale. Siamo sicuri che la critica platonica all’egualitarismo e alla democrazia non ci offra ancora un punto di vista critico sull’ideologia liberal-democratica e sui rischi di un pensiero unico considerato dogmaticamente incontrovertibile? E d’altra parte: il pessimismo antropologico di Platone, come del resto molti hanno già osservato, non contribuisce a spiegare l’illusione di perfettibilità che ha portato al fallimento vari tentativi di ingegneria sociale collettivista? Oppure, e per finire: comprendere la struttura della teoria aristotelica secondo la quale ciò che è normale è naturale, e ciò che è naturale è normativo, non può renderci più chiari dispositivi di pensiero tuttora attivi in molti settori? (Vegetti, 2009b, pp. 344-5)
Attualità di Aristotele?
Dopo il paradosso dell’attualità (di rilevanza) di Platone, siamo giunti quindi alla questione dell’attualità di Aristotele. Da un lato, Aristotele sembrerebbe un pensatore eminentemente attuale, soprattutto se intendiamo l’attualità nei primi due sensi (di prossimità e del portavoce). Molti (in ambito anglosassone e tedesco) hanno ripreso Aristotele come pensatore attuale per una gran serie di motivi. Giusto per menzionarne alcuni e senza pretesa di completezza, si ricordi la teoria aristotelica della politia che sembra prefigurare la positività di un governo non ristretto all’aristocrazia dei migliori. Oppure si pensi l’importanza del ragionamento dialettico nella dimensione pratica poiché rende conto di diverse forme di sapere che non sono riconducibili all’unico modello deduttivo o nomologico delle scienze naturali. E, infine, si consideri la saggezza pratica in quanto una componente essenziale della capacità dell’agire umano. Queste famose idee aristoteliche sembrano (e probabilmente sono) attuali perché almeno in parte individuano caratteri fondamentali delle interazioni umane. Ma la loro attualità come prossimità è forse sovrastimata. Infatti, nel presentarsi come tesi ovviamente universali – come quasi tutte le tesi propriamente filosofiche – riescono particolarmente bene a nascondere la loro determinatezza storica. Infatti, le tesi summenzionate hanno ovviamente dei presupposti ineludibili per poter darsi socialmente e per avere un senso determinato. Questi presupposti sono banalmente l’esistenza della polis, un certo ethos condiviso, le istituzioni sociali antiche che permettono la libertà dal lavoro (la schiavitù e l’esclusione della donna dalla politica).
Le tesi di cui sopra sono ambigue nella misura in cui oscillano tra l’avere un contenuto normativo e il porsi come verità generali non connotate normativamente. Ad esempio, la saggezza pratica ha bisogno di presupposti particolari per esercitarsi e non è necessariamente data. Però è una tesi parzialmente indipendente dalle condizioni in cui è sorta, quindi è facilmente digeribile e riproponibile in epoche diverse. Ovviamente non potrà avere lo stesso significato ma non sembra così aliena dalla nostra condizione. In sostanza si tratta di tesi molto meno cariche normativamente di quelle platoniche, o perché si pongono come “neutrali” o perché essendo maggiormente conservatrici sono più in linea con la nostra realtà. Quindi da un certo punto di vista sono tesi più “attuali”. Sono più attuali nel senso della prossimità perché si pongono su una linea di continuità con pratiche a noi presenti. E sono anche più attuali perché nella loro presunta atemporalità possono essere rivestite in un senso molto prossimo alle esigenze contemporanee, ovvero possono più facilmente di altre tesi essere prese in prestito e utilizzate come portavoce e sfondo di posizioni normative più chiaramente determinate.
Però la cosa in Aristotele non è ovviamente così semplice dato che l’apparente trasversalità delle tesi aristoteliche si combina con il bisogno che ci sia una sorta di incarnazione del normativo nel reale. E qui riprendo la famosa e insuperata analisi di Vegetti sul naturale-normale e normativo in Aristotele (Vegetti 2000b). In estrema sintesi, secondo Aristotele ciò che definisce lo standard di bontà e giustizia sociale è la norma diffusa e accettata socialmente che si esprime nel cittadino virtuoso (spoudaios). In tal senso la quintessenza di una norma socialmente diffusa diventa anche ciò che è propriamente naturale, poiché costituisce la realizzazione teleologica più piena di ciò che è per natura umano (la vita politica). Quindi ciò che è considerato giusto convenzionalmente, diviene anche giusto naturalmente poiché si esprime attraverso la sua forma più propria. Di conseguenza ciò che è naturale è anche normativamente buono poiché realizza al meglio la forma essenziale di una cosa. Sebbene si presenti come una tesi sulla naturalità di un certo tipo di attività e di virtù, questa naturalità nasconde la convenzionalità che vi è alla base e veicola la distinzione di una norma.
Per questo motivo potremmo dire che nonostante l’apparente maggiore vicinanza di Aristotele alle nostre società, la sua attualità è forse solo apparente e per altro aumentata dal maggiore conservatorismo sociale della prospettiva aristotelica che ci fa sembrare più vicino a noi ciò che forse è ancora più lontano. Vi è una tensione ben nascosta al centro della teleologia aristotelica. O ogni tipo di norma socialmente accettata diventa normativa in generale e quindi naturale, ma così si finisce per essere relativisti (cosa che ad Aristotele e agli aristotelici non sarebbe andata a genio) e quindi ridursi a sostenere una mera accettazione del presente; oppure ci sono solo alcuni tipi di norme sociali, e non altre, che possono essere definite naturali, ma allora ciò che è normativo è definito indipendentemente dall’incarnazione sociale.
Chiaramente la tesi aristotelica è più vicina a questa seconda opzione, ma l’insistenza aristotelica nel perseguire un approccio descrittivo e naturalistico lo obbliga a far dipendere la normatività di una cosa dalla sua diffusione empirica.
Dopo aver visto il rapporto tra Aristotele e i primi due sensi di attualità, ci possiamo ora chiedere se si caratterizza anche come attuale nel terzo senso. È il pensiero aristotelico attuale in quanto rilevante per il nostro sguardo contemporaneo? In un certo senso lo è ovviamente, nella misura in cui è anche attuale negli altri due sensi. Però non necessariamente è rilevante se ci interessa una prospettiva critica o uno sguardo diverso sui nostri presupposti sociali.
Di altro tipo è l’(in)attualità Platonica che attraverso il radicalismo mette in discussione presupposti sociali più radicati. L’impossibile presenza platonica può avere una capacità di guida non scontata nel discutere i limiti di possibilità vere o presunte e nel pensare ciò che si può fare ed esigere. Non voglio qui dire che Aristotele sia meno attuale di Platone, tesi solo volutamente paradossale. Voglio solo dire che non è ovvio cosa sia più rilevante. Non è scontato cosa sia più rilevante e interessante: una fondazione apparentemente meta-empirica e neutrale di alcune pratiche sociali o uno svelamento della loro convenzionalità? Cosa è più rilevante intellettualmente: l’apparente continuità aristotelica o la rottura platonica? Senza poter fornire una risposta conclusiva mi limito a suggerire che anche l’estremamente inattuale e radicale, benché lontano e probabilmente impossibile, può essere estremamente attuale poiché ci mostra i presupposti e i limiti in cui vivono le società presenti.
Estendere il possibile tra radicalità e attualità
Sinora ci siamo intrattenuti sul significato delle nozioni di attualità e radicalità rispetto alle esigenze di senso e interpretazione di se stessi da un punto di vista sociale. Ovvero ci siamo chiesti che significato hanno le proposte politiche, ad esempio, di Platone, o le tesi di Aristotele. Non abbiamo ancora toccato la questione collegata ma differente che concerne la possibilità degli ideali politici in questione. A costo di risultare un po’ troppo semplificatorio, si può dire che la dimensione del possibile è una nozione modale fondamentale che difficilmente può essere definita senza ricorrere circolarmente a se stessa. Per i nostri scopi sia sufficiente concentrarsi su ciò che possiamo chiamare come il politicamente e socialmente possibile. Per definirlo non è necessario scomodare la non-impossibilità metafisica come requisito minimo. Chiaramente ciò che è possibile ha come limite definitorio il perimetro dell’impossibile e include una serie di mondi possibili che partono dal mondo attuale. L’attuale è ovviamente possibile, ma sono anche possibili tuti quegli stati alternativi di cose che sono più o meno “vicini” al possibile. Da un lato, il possibile è una nozione binaria che si oppone all’impossibile. Definire uno stato di cose, soprattutto in ambito politico e sociale, come impossibile è una critica fondamentale. Si pensi, ad esempio, alla critica aristotelica nella Politica alla Repubblica platonica, come indesiderabile e impossibile poiché contravviene agli aspetti fondamentali della natura e socialità umana. Ma in realtà definire qualcosa come impossibile è solitamente un’esagerazione retorica per sostenere che si tratta di un cambiamento molto difficile e oneroso. Platone stesso era ben conscio del fatto che la kallipolis fosse difficile ma non impossibile (Vegetti 2000a). Piuttosto, ci si può chiedere se attuare certi cambiamenti sociali (ad esempio quelli proposti da Platone) sia strettamente impossibile, o non piuttosto molto difficile da realizzare e da mantenere. Per comprendere questi aspetti dobbiamo introdurre altre due categorie per caratterizzare meglio il senso della possibilità sociale e politica. In primo luogo, si deve intendere la possibilità anche come una dimensione scalare, ovvero come una proprietà avente gradi diversi di soddisfazione. In tal senso ci si riferisce alla nozione di fattibilità politica e sociale. Uno stato di cose può essere più o meno fattibile, e più o meno possibile socialmente, nella misura in cui si realizza in un mon do possibile più o meno distante dal mondo attuale.
In secondo luogo, si deve distinguere tra due dimensioni della fattibilità: l’accesso e la stabilità. Accedere a uno stato di cose, ovvero mettere in pratica la realizzazione di un mondo possibile (accesso) pone una serie di problemi, che sono ben diversi dal quelli che riguardano il mantenimento nel tempo di questo stato di cose (stabilità) (Gilabert and Lawford-Smith 2012). Infatti, potrebbe essere molto difficile e oneroso realizzare un certo stato di cose politico e sociale per via delle resistenze tradizionali o dei gruppi di potere che vi si oppongono. Altra questione è capire con quali risorse interne al nuovo stato di cose realizzato si possa mantenere stabilmente la situazione.
Se questo tipo di mappa concettuale è minimamente convincente possiamo tornare alle questioni da cui eravamo partiti. La dimensione dell’attualità è ovviamente l’orizzonte ineludibile da cui partire. Ma non è necessariamente l’orizzonte di senso e normatività entro cui rimanere. L’attualità stessa è una nozione spessa poiché può esprimere molte esigenze che mettono in crisi la solidità di ciò che diamo per attualmente scontato. A partire da questi bisogni si può ricorrere al radicale per mostrare stati di cose alternativi. In tal senso, il radicale è sia una messa in discussione dell’ovvietà dell’attuale, sia un modo di prospettare alternative, mondi possibili, che si discostano dalle vicinanze dell’attuale. Quanto siano effettivamente accessibili e stabili è una questione che possiamo momentaneamente mettere da parte. Quindi ciò che il senso comune sociale definisce come radicale non è soltanto il contraltare negativo dell’attuale, il suo lato bello ma impossibile. Ne definisce anche infatti le aspirazioni e il campo di sperimentazione della possibilità. Quindi mettere in campo opzioni radicali estende il dominio della possibilità e non la fa appiattire esclusivamente sui mondi possibili molto vicini al mondo attuale.
In tal senso, l’esercizio di radicalità svolge diverse funzioni rispetto alla persistenza dell’attuale. Ne mette in discussione i presupposti ovvi e non discussi. Mostra un’alternativa possibile. Estende il dominio della possibilità oltre ciò che è immediatamente visibile. Potremmo quindi dire che l’attualità è almeno in parte legata all’esercizio di radicalità, non soltanto come suo negativo ma anche come termine di riferimento dell’estensione della possibilità che è necessaria per esprimere il perimetro dell’attualità. I due termini, invece, si distanziano nei primi due sensi di attualità (di prossimità e del portavoce).
Conclusione
Nell’interrogare il significato di attualità e radicalità riguardo all’uso dei classici si è visto che queste nozioni si comportano come una coppia dialettica inscindibile. Possono essere definite l’una indipendentemente dall’altra ma nel loro uso sociale si mettono in gioco reciprocamente. In questa coppia i classici svolgono una funzione molto importante perché danno linfa alla continuità e persistenza dell’attuale (i primi due significati di attualità) o all’opposto ne mettono in discussione la consistenza tramite la funzione radicale del classico. Il radicale non mette in crisi soltanto le fondamenta apparentemente ovvie dell’attualità ma configura anche un insieme di possibilità alternative più o meno distanti dall’attuale. In tal senso si può intendere l’attualità del classico: come un dispiegarsi di possibilità alternative che non sono interessanti solo se prossime alla nostra attualità. Nell’essere interessanti ci toccano in qualche modo pur rimanendo distanti e nel mostrare l’interesse del distante non ci fanno appiattire su ciò che abbiamo già.
Bibliografia
Gilabert, P., Lawford-Smith, H. (2012), “Political Feasibility: A Conceptual Exploration”, Political Studies 60, pp. 809-825.
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Nussbaum, M. (1988) “Nature, Function, and Capability: Aristotle on Political Distribution”, Oxford Studies in Ancient Philosophy: Supplementary Volume (Oxford: Oxford University Press), pp. 145- 183.
Nussbaum, M. (1990) “Aristotelian Social Democracy”, in R. B. Douglass, G. M. Mara and H. Richardson (eds.), Liberalism and the Good (New York: Routledge), pp. 203-252.
Nussbaum, M. (1992), “Human Functioning and Social Justice. In Defense of Aristotelian Essentialism”, Political Theory 20(2), pp. 202-246.
Senofonte (2012), Ierone o della tirannide, traduzione e cura di F. Zuolo (Roma: Carocci)
Vegetti, M. (2000a), “Beltista eiper dunata. Lo statuto dell’utopia nella Repubblica”, Platone, Repubblica, traduzione e commento a cura di M. Vegetti, vol. IV (Napoli: Bibliopolis), pp. 107-147.
Vegetti, M. (2000b), Naturale, normale e normativo in Aristotele, «Quaderni di storia», 52, pp. 73-84.
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Vegetti, M. (2009b) “«Il modello chiuso» nell’interpretazione della storia della filosofia antica”, Rivista di filosofia 100(3), pp. 335-346.
Williams, B. (2009) Il senso del passato. Scritti di storia della filosofia (Milano: Feltrinelli), tr. it di The Sense of the Past (Princeton: Princeton University Press).
Mario Vegetti – La filosofia e la città: processi e assoluzioni .
Mario Vegetti – Il lettore viene introdotto a una sorta di visita guidata in uno dei più straordinari laboratori di pensiero politico nella storia d’Occidente.
Mario Vegetti e Francesco Ademollo – Incontro con Aristotele: la potenza del suo pensiero è ancora in grado di parlarci.
Mario Vegetti – Il coltello e lo stilo. Animali, schiavi, barbari e donne alle origini della razionalità scientifica.
Mario Vegetti (1937-2018) – «Scritti sulla medicina galenica». Il volume raccoglie i principali scritti su Galeno e sul Galenismo composti da Mario Vegetti in circa un cinquantennio di attività.
Mario Vegetti (1937-2018) – Il tempo, la storia, l’utopia. Cè il tempo dell’utopia, cioè della realizzazione della kallipolis attuata. L’avvento della kallipolis rappresenta un’esigenza necessaria come intenzione di governare il disordine, ma esso è improbabile (non però, per le stesse ragioni, impossibile).
Anna Beltrametti – Scritti per onorare la memoria di Diego Lanza e Mario Vegetti
Silvia Fazzo – Grazie Mario Vegetti! Per la lucidità luminosa delle tue intuizioni. Amavi la vita per tutto ciò che ha di più vero. Hai formato una intera generazione di allievi e di allievi degli allievi.
Luca Grecchi – Mario Vegetti: un ricordo personale e filosofico
Mario Quaranta – L’avvincente lettura del libro «Scritti con la mano sinistra» di Mario Vegetti che, per sostenere l’attualità del discorso filosofico, mette in campo alcune cruciali questioni.
Massimo Stella – Scritti per onorare la memoria di Diego Lanza e Mario Vegetti
Il testo è già stato pubblicato anche sul sito della Società di Psicoanalisi Crritica (29-03-2018) con questa nota di accompagnamento: “Pubblichiamo di seguito un ricordo di Mario Vegetti, notissimo studioso e docente di Storia della Filosofia antica e intellettuale rigoroso, amico personale di alcuni di noi e della Società di Psicoanalisi Critica”.
ADDIO A MARIO VEGETTI
Ricordano l’amico e il protagonista della Casa della Cultura: Ferruccio Capelli, Mauro Bonazzi, Fulvio Papi, Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri, Salvatore Veca
Ricordo di Mario Vegetti – Rai Filosofia
Addio a Mario Vegetti, l’utopia di Platone e i suoi chiaroscuri – La Stampa
Mario Vegetti, filosofo studioso di Platone – Corriere della Sera
Mario Vegetti, Il coltello e lo stilo. Animali, schiavi, barbari e donne alle origini della razionalità scientifica.
ISBN 978-88-7588-228-0, 2018, pp. 192, formato 140×210 mm., Euro 20 – Collana “Il giogo” [82]. In copertina: Affresco raffigurante gli Istrumenta sciptoria. In quarta: bassorilievo del tempio di Esculapio di Atene.
indice – presentazione – autore – sintesi
Premessa alla nuova edizione del 2018
Il coltello e lo stilo fu pubblicato nella primavera del 1979. Fin dalla sua comparsa, suscitò un vivace interesse, non solo, e non tanto, fra gli specialisti di antichistica, quanto presso un pubblico composito di lettori che frequentavano i territori che allora si chiamavano “cultura critica”: epistemologia, antropologia, psicoanalisi, ed eventualmente movimenti come quello femminista e animalista. Ne uscirono naturalmente diverse interpretazioni del senso e degli intenti del libro (dalla critica irrazionalistica ai fondamenti “violenti” della scienza, a una rivisitazione moderata di Foucault). Nell’introduzione all’edizione del 1996, riprodotta in questo volume, ho tentato di delineare le coordinate culturali entro le quali Il coltello e lo stilo era stato concepito, e di indicare un punto di vista d’autore sulla collocazione del libro. Ha fatto però bene l’editore a ristampare qui la prima edizione, quella del 1979. Da un lato, questo restituisce ai primi lettori la possibilità di un rinnovato incontro con il testo; dall’altro, e soprattutto, consente a nuovi lettori l’accesso alla forma originale del libro ormai da gran tempo esaurita. Non è immotivato pensare che questa ristampa possa apparire a qualcuno come una riscoperta, e ridestare almeno in parte l’interesse e la discussione così vivaci tanti anni or sono. Se così fosse, potremmo augurare “bentornato” al Coltello e lo stilo, e renderne il merito che gli spetta al generoso editore, Carmine Fiorillo di “Petite Plaisance”.
Mario Vegetti
Febbraio 2018
Mario Vegetti, Tra Edipo e Euclide. Forme del sapere antico.
ISBN 978-88-7588-227-3, 2018, pp. 208, formato 140×210 mm., Euro 20 – Collana “Il giogo” [84]. In copertina: Frammento di cratere a calice a figure rosse [scena dell’Edipo Re di Sofocle] (330-320 a.C.) e Papiro de Oxirrinco [frammento degli Elementi di Euclide].
indice – presentazione – autore – sintesi
Premessa alla nuova edizione del 2018
Edipo e Euclide rappresentano simbolicamente i due limiti estremi della razionalità greca. Il primo – nell’interpretazione che offre dell’Edipo re sofocleo il primo dei saggi qui raccolti – impersona una forma di razionalità indagatrice, che procede per indizi e per segni, e ha di mira la “scoperta”: una scoperta legata sempre alla circostanza particolare, al kairòs, all’individuo. Una razionalità, dunque, nella quale si riflettono l’indagine diagnostica e prognostica sia della medicina ippocratica sia della storiografia tucididea (che si presenta esplicitamente come una ricerca diagnostica sulla crisi di Atene).
All’estremo opposto si colloca la forma della razionalità che può andare sotto il nome di Euclide. La sua geometria costituiva già per gli antichi, e costituisce tuttora, un modello di pensiero astrattivo e dimostrativo, il luogo elettivo di un’idea forte della verità come acquisizione universalmente valida, incontrovertibile e immutabile. Come mostra l’ultimo dei saggi raccolti nel volume, la razionalità euclidea è l’asse teorico su cui si impernia gran parte della scienza ellenistica (sia pure con qualche eccezione).
Fu Galeno a tentare una sintesi di questi due stili di razionalità nel suo progetto di ricostruzione epistemologica della medicina, come indicano i due saggi che qui gli sono dedicati. Da un lato, egli continuava a ritenere che la medicina dovesse essere una techne di stile ippocratico, capace di diagnosticare e pronosticare le vicende individuali della malattia grazie a un’indagine semiologica di modello “edipico”. Dall’altro però era convinto che la medicina dovesse dotarsi di un robusto impianto teorico di tipo universalizzante e dimostrativo, alla maniera delle scienze forti di modello “euclideo”, sfidando le tensioni che questa doppia esigenza epistemologica veniva producendo nel suo pensiero.
Anche per il rigoroso razionalismo stoico conciliare la teoria di un’anima costituita dal solo logos con l’evidenza dell’insorgere nel soggetto umano di pulsioni irrazionali come le passioni costituiva un serio problema. Il capitolo IV del libro mostra come una delle spiegazioni stoiche abbia individuato nel condizionamento sociale ed educativo subito fin dalla primissima infanzia la matrice delle deviazioni passionali: la natura mette al mondo neonati buoni, ma i successivi processi di allevamento e di socializzazione lo predispongono a cedere all’irrazionalità delle passioni.
I saperi antichi vengono naturalmente forgiati da forme di razionalità intermedie od oblique rispetto agli estremi che ne abbiamo indicati. C’è il potente ricorso a modelli metaforici che rendono possibile e persuasivo il discorso scientifico intorno a fenomeni difficilmente accessibili o comprensibili. Così la metafora della politica agevola per i medici la comprensione dei processi somatici interni (cap. II), e quella derivata da un’esperienza tanto diffusa nella società romana come lo spettacolo circense orienta la costruzione del sapere di Plinio intorno al mondo animale (cap. V). La scimmia, infine, con il suo corpo troppo simile a quello umano, mette suo malgrado in contatto due mondi così lontani come quello leggero del gioco e dello spettacolo, da un lato, e dall’altro quello dell’anatomia e della vivisezione, con la sua razionalità scientifica “dura” (cap. III).
Nell’ambito dei miei studi, queste ricerche svolgono un ruolo di transizione. Da lato, continuano e sviluppano temi trattati ne Il coltello e lo stilo (1979), dall’altro anticipano quelli sull’etica antica e sulla medicina ellenistica e galenica, che avrebbero occupato i decenni successivi. Il comune orientamento metodologico di questo campo di studi è definito nel testo sulla Questione dei metodi, con il quale si apre il volume; i saggi raccolti possono venire letti come esempi e verifiche delle indicazioni che vi vengono discusse.
In questo doppio carattere, di lavori di ricerca e di esercizi di metodo, credo possa consistere il perdurante interesse dei saggi raccolti, e per questo mi è giunta benvenuta l’idea di riproporli al lettore per i tipi di Petite Plaisance.
Mario Vegetti
Dicembre 2017
Mario Vegetti, Scritti sulla medicina ippocratica.
ISBN 978-88-7588-225-9, 2018, pp. 416, formato 140×210 mm., Euro 30 – Collana “Il giogo” [86]. In copertina: Rilievo dal santuario di Anfiarao a Oropo, 400-350 a.C., Atene, Museo Archeologico Nazionale.
indice – presentazione – autore – sintesi
Prefazione
Ho esitato ad accettare la proposta dell’editore Carmine Fiorillo e dell’amico collega Luca Grecchi di raccogliere in volume i miei scritti sulla medicina ippocratica. Per la gran parte, infatti, essi risalgono a quasi cinquant’anni or sono, ed era evidentemente fuori questione tentarne un aggiornamento, che avrebbe equivalso a riscrivere larga parte della ricerca ippocratica del Novecento: in effetti, questi scritti avevano un carattere pioneristico, e non solo in Italia. Erano allora rari gli studi d’insieme sulla medicina greca di epoca classica, le edizioni commentate di singoli testi ippocratici, e naturalmente non si parlava ancora di Colloqui ippocratici internazionali, la cui serie iniziò nel 1972 dando luogo ad incontri via via più affollati di studiosi e di specialisti. Ma è stata poi proprio la precocità di questa stagione di studi, nell’ambito della vicenda mia personale e in quello della ricerca ippocratica in Italia, a convincermi infine ad accettare la proposta.
Si respirava in quegli scritti un’aria di scoperta: l’emozione per l’incontro con un episodio fondativo alle origini della tradizione medica e del pensiero scientifico in Occidente, l’entusiasmo per l’esplorazione del più vasto continente di sapere scientifico che la cultura greca ci abbia lasciato prima di Aristotele e della geometria euclidea. Si trattava per giunta di una techne razionale – fra le prime a varcare la soglia della scrittura durante il V secolo a.C. – che offriva il modello di un sapere capace di coniugare conoscenza ed efficacia. Essa si collocava più sul versante semiotico, individualizzante della scienza che su quello dimostrativo-astrattivo, e costituiva quindi un suggestivo modello intellettuale per le scienze dell’uomo allora in corso di formazione, dalla storia alla politica, come mostrò precocemente Jaeger e come del resto aveva già intuito Platone.
Nei saggi qui raccolti venivano seguiti due approcci principali nell’accostarsi a questo ricco ambito del sapere antico, entrambi del resto consoni all’atmosfera intellettuale degli anni Sessanta del secolo scorso. Il primo, e di gran lunga prevalente, era l’interesse per il metodo, concepito come il terreno di incontro cognitivo fra ragione ed esperienza, configurate così come i due poli del processo della conoscenza. Si trattava di un approccio orientato da una epistemologia di ispirazione kantiana, com’è facile vedere, ma che risultava adatto a mettere in luce la nascente sensibilità metodologica in cui consisteva uno dei tratti di originalità teorica del pensiero medico nel V secolo. Esso sembrava infatti proporre, in forme più o meno esplicite, una funzione della ragione come strumento di comprensione e di organizzazione significativa del materiale di esperienza, e dell’esperienza stessa come territorio disponibile al controllo cognitivo e anche operativo della ragione, che da esso comunque non poteva prescindere.
Con questa idea di “metodo”, la medicina ippocratica sembrava trovare una sua via – la via propria di una techne – tra le due opposte “sostanzializzazioni”, della ragione e dell’esperienza. La prima veniva concepita dagli Eleati non in rapporto ma in opposizione all’esperienza, e costituiva dunque non solo uno strumento della verità, ma il suo unico contenuto. L’esperienza dei processi naturali veniva per contro concepita dagli Ionici come autoesplicativa, perché bastava la scelta di uno o più elementi della natura per spiegarne tutto il resto, senza l’impegno a costruire un discorso capace di darsi regole e giustificazioni metodiche eterogenee rispetto al mondo naturale.
Il secondo approccio, più vicino questo a un’ispirazione marxista, comportava invece un’attenzione, allora non molto diffusa, all’ambiente sociale che aveva favorito lo sviluppo della medicina e del suo peculiare profilo intellettuale. Si trattava della polis democratica, teatro della crescita delle technai profane e secolarizzate, legate all’ambiente sociale dell’agorà, e della parallela crisi dei saperi tradizionali di matrice sacerdotale: il luogo culturale, dunque, dove il medico laico di affiliazione ippocratica poteva sfidare i sacerdoti guaritori dei templi di Apollo e di Asclepio, i purificatori, i maghi e gli indovini della tradizione. Sul piano filosofico, questo stesso ambiente della medicina era condiviso da un filosofo come Anassagora, il che contribuisce a spiegarne la particolare rilevanza per l’ippocratismo, come si insiste a più riprese nei lavori qui raccolti.
A tanta distanza di anni, e dopo così rilevanti sviluppi nella ricerca, i loro limiti emergono con chiarezza: in parte possono venir considerati inevitabili visto l’entusiasmo pioneristico che li animava, in parte possono esser fatti risalire alle concezioni diffuse nella cultura del tempo, oltre che a inclinazioni proprie dell’autore.
Quanto a queste ultime, credo si possa definire alquanto eccessiva l’enfasi posta sul rapporto, in positivo e in negativo, tra filosofia e medicina. È indubbio che le grandi correnti filosofiche abbiano influito, o tentato di influire, sulla formazione della concettualità medica: dopo tutto, è in Antica medicina che si trova la più antica citazione (polemica) di Empedocle e della sua “filosofia”; ed è altamente probabile che il nascente pensiero “ippocratico” possa aver rivolto la sua attenzione al magistero anassagoreo. D’altra parte, è ben nota la profonda impressione che la medicina destò in tutto l’arco del pensiero di Platone, sia nel suo versante metodico (come testimoniano il Fedro e il Carmide), sia nella sua esemplarità etico-politica, a più riprese sottolineata dal Gorgia alla Repubblica, dal Politico alle Leggi. Ma è prudente non immaginare un’intensa circolazione di libri e dottrine fra due aree così intellettualmente e anche professionalmente e socialmente lontane come la filosofia e la medicina delle origini, e fra ambiti geografici distanti come la Magna Grecia e la costa ionica dell’Asia minore. La stessa pur rilevante elaborazione metodologica prodotta dai medici del V secolo non avrà probabilmente avuto quella piena consapevolezza teorica e filosofica che tendevo ad attribuirle, quasi si trattasse non di Ippocrate ma – seicento anni più tardi – di Galeno.
Tipico del tempo in cui prese forma la mia ricerca è invece un certo eccessivo ottimismo nella possibilità di risolvere la “questione ippocratica”, identificando le opere autenticamente attribuibili alla figura storica di Ippocrate, e persino tentando di leggerne l’evoluzione interna. Ero allora convinto che il “vero” Ippocrate fosse riconoscibile nelle opere tradotte nelle prime due sezioni del mio Ippocrate del 1964, che Ludovico Geymonat volle accogliere nella sua storica collana di “Classici della scienza”: L’antica medicina, Le arie le acque i luoghi, Il prognostico, Il regime nelle malattie acute, Male sacro, Le epidemie (libri I e III), Le ferite nella testa, Fratture e articolazioni; e che, di conseguenza, queste opere contenessero una dottrina medica coerente e unitaria. Continuo a pensare che, se ha senso cercare un nucleo “ippocratico” del Corpus, esso andrà più o meno cercato nel perimetro indicato, e che sia tanto difficile escluderne Antica medicina quanto includervi Il regime, come molti studiosi hanno sostenuto. Ma già nell’Introduzione del 1973 alla seconda edizione dell’Ippocrate manifestavo una giusta cautela sulla possibilità di raggiungere conclusioni definitive in proposito, e anche un certo scetticismo sull’utilità della modalità filologico-attribuzionistica della ricerca ippocratica, che rischiava di mettere in secondo piano la cosa più importante, cioè la comprensione storico-critica di opere e gruppi di opere, quale che ne fosse la presunzione di “autenticità” ippocratica.
Più interessante mi sembra segnalare ora un abbaglio, o un equivoco, in cui incorrevano sia la mia ricerca sia gran parte della storiografia dell’epoca. Ne era motivo il pregiudizio classicistico, che assegnava un maggior valore culturale e sociale alle forme politiche e intellettuali appunto dell’età detta “classica” (V e IV secolo a.C.), e conseguentemente considerava epoche di decadenza quelle posteriori, a partire dall’ellenismo (un pregiudizio tenace che risaliva a Hegel ed è resistito fino a pochi decenni orsono). Aleggiava dunque la convinzione che la grande età della medicina greca fosse appunto quella ippocratica, e che la medicina posteriore, per quanto tecnicamente evoluta – dagli anatomisti alessandrini a Galeno – avesse perduto la carica innovativa e l’apertura intellettuale dei fondatori. Parallelo a quello epistemico, c’era il pregiudizio storico secondo il quale la grande età della storia greca era stata quella “periclea”, insomma l’età della polis matura, e che la successiva storia dei regni ellenistici fosse a sua volta una storia di decadenza politico-sociale.
Non c’è bisogno di dire che gli sviluppi della ricerca, e la critica del classicismo, hanno fatto giustizia di entrambi questi pregiudizi. La medicina ellenistica e imperiale è stata riconosciuta come uno straordinario edificio di sapere teorico e di competenza tecnica, dai vasti orizzonti intellettuali e dal forte prestigio sociale (nella mia storia personale, questa svolta ha avuto luogo nel 1978, con l’avvio degli studi su Galeno, anch’essi stimolati da Ludovico Geymonat). Quanto al mondo dei regni ellenistici, ne sono stati generalmente riconosciuti i meriti nella promozione della cultura letteraria e scientifica, i successi tecnologici ed economici, lo spirito di tolleranza nei riguardi delle religioni e delle culture che facevano parte dei loro domini. Veniva certo meno l’intensa partecipazione dei cittadini alla vita politica comune, che era stata propria della polis; ma veniva anche meno la chiusura etnica e sociale di questa comunità di “autoctoni” di fronte agli stranieri, cui essa non riconosceva alcun diritto. È almeno discutibile che le scienze e le tecniche abbiano trovato nella polis un ambiente più favorevole al loro sviluppo rispetto ai regni ellenistici: la fondazione del Museo e della Biblioteca di Alessandria, oltre che di simili istituzioni nelle altre capitali ellenistiche, sembra dare decisamente un’indicazione contraria, anche se certo in questi casi si tratta di mecenatismo regio e non di deliberazione democratica.
Una rilettura di questi testi, ricollocati così nelle coordinate culturali in cui videro la luce, ritengo possa mantenere un suo valore e una sua utilità per tutti i lettori interessati a comprendere lo sviluppo storico e le strutture intellettuali della medicina greca di epoca ippocratica – cioè dell’episodio fondativo dell’intera tradizione medica occidentale.
Gli scritti sono presentati in ordine cronologico, ad eccezione delle due introduzioni del 1964 e del 1973, che sono poste al termine del volume per il loro carattere di trattazione complessiva. Non sono stati inclusi in questa raccolta scritti già comparsi nei volumi La medicina in Platone, Il Cardo, Venezia 1995, e Tra Edipo e Euclide. Forme del sapere antico, Il Saggiatore, Milano 1983.
Non posso concludere questa premessa senza rivolgere il mio più caloroso ringraziamento all’editore Carmine Fiorillo, per lo straordinario impegno profuso nell’allestimento di questo volume.
Febbraio 2018
Mario Vegetti
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Mario Vegetti
Scritti sulla medicina galenica
ISBN 978-88-7588-215-0, 2018, pp. 464, Euro 35 .
indice – presentazione – autore – sintesi
Il volume raccoglie i principali scritti su Galeno e sul Galenismo composti da Mario Vegetti in circa un cinquantennio di attività. La selezione dei saggi qui pubblicati è stata realizzata dall’Autore negli ultimi mesi della sua vita. A causa della sua morte, avvenuta il giorno 11 marzo 2018, l’Autore non ha potuto rivedere le bozze.
Questo libro, cui l’Autore teneva tanto, ci consente di mantenere vivo il ricordo anche di questa parte della sua opera; ecco dunque il motivo per cui siamo lieti, insieme alla sua famiglia, di offrire ai lettori, soprattutto a quelli più giovani, la presente raccolta. Per la quale, innanzitutto, dobbiamo ringraziare Mario.
Sommario
Nota preliminare di Luca Grecchi
Introduzione a Galeno
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Tradizione e verità. Forme della storiografia filosofico-scientifica
nel De placitis Hippocratis et Platonis di Galeno
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I nervi dell’anima
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Enciclopedia ed antienciclopedia: Galeno e Sesto Empirico
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Galeno e la rifondazione della medicina
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L’épistémologie d’Érasistrate et la technologie hellénistique
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La psicopatologia delle passioni nella medicina antica
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Historiographical strategies in Galen’s physiology
(De usu partium, De naturalibus facultatibus)
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De caelo in terram. Il Timeo in Galeno
(De placitis Hippocratis et Platonis, Quod animi mores corporis temperamenta sequuntur)
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Il confronto degli antichi e dei moderni in Galeno
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Galeno
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Corpo e anima in Galeno
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Corpo, temperamenti e personalità in Galeno
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Galeno, il “divinissimo” Platone e i platonici
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Fra Platone e Galeno: curare il corpo attraverso l’anima, o l’anima attraverso il corpo?
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I nuovi testi di Galeno: tra epistemologia e storia della cultura
Paola Manuli – Mario Vegetti
Cuore, sangue e cervello
indice – presentazione – autore – sintesi
Paola Manuli – Mario Vegetti, Cuore, sangue e cervello. Biologia e antropologia nel pensiero antico. In Appendice: Galeno e l’antropologia platonica.
ISBN 978-88-7588-028-6, 2009, pp. 288, formato 140×210 mm., Euro 25. Collana “Il giogo” [22]. In copertina: Asclepio cura un malato, rilievo in marmo, V secolo a.C.
Prefazione alla nuova edizione
Questo libro è esaurito da molti anni, e non è stato possibile ristamparlo perché la casa editrice Episteme, che l’aveva pubblicato nel 1977, ha nel frattempo cessato la sua attività. Mi è spesso accaduto di ascoltare il rammarico di studiosi che ne lamentavano l’irreperibilità, considerandolo ancora un utile strumento di lavoro.
Quando l’editore CARMINE FIORILLO mi ha espresso la sua generosa disponibilità ad una riedizione del volume, ho tuttavia provato qualche incertezza. Provvedere a un aggiornamento risultava impossibile per due ragioni. La prima era la dolorosa e prematura scomparsa di PAOLA MANULI, autrice della parte sostanziale del lavoro (a me era spettato soltanto, oltre al progetto complessivo, la stesura dell’introduzione). La seconda consisteva nell’immensa mole di lavori scientifici comparsi nei trent’anni intercorsi dalla pubblicazione del libro: per limitarmi a qualche esempio, ricorderò solo gli atti dei numerosi colloqui ippocratici e galenici, le opere collettive sulla biologia di ARISTOTELE edite da GOTTHELF, LENNOX, PELLEGRIN e KULLMANN, il libro della DUMINIL sul sangue e il cuore nel Corpus Hippocraticum (1983), il volume della ANRW su GALENO (II 37.2, 1994), gli studi di G.E.R. LLOYD; e citerò da ultimo tre recentissime e importanti ricerche in lingua italiana, quella di D. QUARANTOTTO sul finalismo nella scienza aristotelica (2005), quella di R. LO PRESTI sull’encefalocentrismo ippocratico (2008), e quella di T. MANZONI sul cervello in ARISTOTELE (2007).
Una rilettura del libro mi ha tuttavia convinto che nonostante tutto esso conservi ancora motivi di attualità tali da renderne opportuna e motivata una riedizione.
Vorrei indicarli schematicamente in quattro punti.
1. L’opera non si limita ad una ricostruzione degli atteggiamenti del pensiero scientifico antico in merito al problema di individuare la parte egemonica del complesso psico-somatico. C’è inoltre uno sforzo intelligente e sistematico di integrare questi atteggiamenti all’interno di una serie di veri e propri paradigmi epistemologici, che mette in chiaro come le opzioni intorno a questo problema si inseriscano in un quadro complesso di posizioni gnoseologiche e di scelte filosofiche, come risultino solidali rispetto a tutta una costellazione di conoscenze scientifiche, di pratiche tecniche e anche di pregiudizi ideologici, che in ultima istanza risultano riferibili a concezioni rivali circa il rapporto fra uomo e natura.
In questo senso, il libro presenta ancora a mio avviso un rilevante interesse di ordine metodico, come saggio di un’interpretazione della scienza antica che non si limita a un repertorio di “progressi” e di “errori”, ma si sforza di comprendere l’insieme delle ragioni che motivano (non certo meccanicamente) sviluppi, regressi, aporie, innovazioni e contraddizioni.
2. Il libro presenta inoltre una sostanziale novità storiografica, che non mi risulta sia stata superata dalla letteratura critica più recente, e di cui anzi forse non sono ancora state pienamente sviluppate tutte le potenzialità euristiche. Si tratta della distinzione (nel campo degli avversari dell’encefalocentrismo) fra un paradigma cardiocentrico, ben noto grazie ad ARISTOTELE, e un paradigma emocentrico, che spesso, ma erroneamente, viene identificato con il cardiocentrismo. PAOLA MANULI non solo ha identificato con chiarezza questo secondo paradigma, che risale a EMPEDOCLE, ma soprattutto ne ha seguito la persistenza, spesso meno evidente ma non per questo meno efficace, dal Timeo platonico allo stesso ARISTOTELE e persino in GALENO, dove residui emocentrici appaiono tanto insuperati quanto latori ci contraddizioni e difficoltà di ricomposizione sistematica. Si tratta a mio avviso di un contributo tuttora prezioso per una comprensione non frettolosa e schematica dell’intera storia del pensiero biologico antico.
3. Il commento al peri kardies, nonostante che le opinioni sulla cronologia tendano oggi ad una datazione più bassa, resta di grande utilità per precisione di analisi e ricchezza di informazioni critiche, che offrono un quadro problematico ancora indispensabile all’interpretazione di quest’opera per molti aspetti enigmatica.
4. L’appendice su GALENO, infine, costituisce un pionieristico repertorio critico dei problemi relativi all’anatomo-fisiologia, alla psicologia e all’antropologia galeniche – problemi che sono tuttora al centro delle ricerche in questo settore – nonché una indagine penetrante intorno alle strategie con le quali GALENO affronta la tradizione da cui dipende, operando a volte un sapiente montaggio delle sue actoritates (in primo luogo IPPOCRATE, PLATONE, ARISTOTELE), a volte invece contrapponendole per finalità polemiche (come ad esempio IPPOCRATE e PLATONE contro ARISTOTELE e gli stoici sul tema del cardiocentrismo).
Mi sono sembrate, queste ed altre, buone ragioni per accettare volentieri e con gratitudine la proposta dell’editore di ripubblicare Cuore sangue e cervello, che viene in questa nuova veste corredato da un indice delle opere e degli autori citati. Spero che l’opera risulti utile e ben accetta agli studiosi; per quanto mi riguarda, considero questa nuova edizione anche come una rinnovata testimonianza del ricordo di PAOLA MANULI, la cui persona e il cui lavoro sono tuttora ben presenti nella memoria della comunità scientifica.
MARIO VEGETTI
indice – presentazione – autore – sintesi
Mario Vegetti, Scritti con la mano sinistra.
ISBN 88-7588-014-X, 2007, pp. 160, formato 140×210 mm., Euro 15 – Collana “Il giogo” [18]. In copertina: Kouros, IV secolo a. C. Atene, Museo Archeologico Nazionale.
Prefazione
1. Non avrei mai pensato di raccogliere questi scritti, se non fosse stato per la cortese e generosa insistenza dell’amico Luca Grecchi e dell’editore Carmine Fiorillo. A loro va dunque, nel bene e nel male, la responsabilità dell’esistenza di questo piccolo volume. A me spetta tuttavia di giustificare – nei limiti del possibile – l’accoglimento della loro proposta.
Quello che mi ha colpito, nel rileggere questi testi dispersi in sedi molto diverse lungo l’arco di più di un quarto di secolo, è stata in primo luogo la loro coerenza. Devo dire subito che non ritengo che la coerenza sia necessariamente una virtù: essa può significare in effetti testardaggine cocciuta, miopia e sordità nei confronti di ciò che di nuovo accade nelle cose e nelle idee, insomma anelasticità intellettuale.
Ci può tuttavia essere qualcosa di virtuoso nella coerenza. Si tratta – per prelevare due parole dal lessico caro a Franco Fortini – dei suoi aspetti di insistenza e resistenza. Insistenza, nel senso non di ribadire tesi e dogmi, ma di continuare tenacemente a porre, e a pormi, problemi e domande, senza variare disinvoltamente il punto di vista da cui l’interrogazione viene posta, e accettando invece l’apertura e la variabilità della gamma delle risposte cercate. E anche nel senso di rifiutare la convinzione secondo la quale sconfitte storiche sono di per sé la prova di errori nella teoria: convincersi di “aver sbagliato” perché si è perduto rappresenta secondo me il residuo di una concezione teologica (il nemico è uno strumento divino per punirci delle nostre colpe). Qualche volta può essere così, ma più spesso l’avversario vince semplicemente perché è più forte sul terreno.
E resistenza: che significa accettare i mutamenti imposti dalla riflessione e dalle cose stesse su cui ci si interroga, ma invece rifiutare pentitismi compiacenti, cedimenti corrivi alle mode correnti o alle “luci della ribalta”; restare fedeli, insomma, a ciò che di noi hanno fatto la nostra storia intellettuale e morale, da un lato, la nostra collocazione in un mondo, dall’altro (insomma, in lettere minuscole, il nostro destino). Almeno in questo senso, la coerenza può forse risultare una virtù, e questa è stata la prima ragione che mi ha indotto ad accettare la proposta di raccogliere questi scritti, affidandoli volentieri a un piccolo ma coraggioso editore.
Scritti con la mano sinistra, appunto. Ovviamente nel doppio senso che si tratta, da un lato, di scritti marginali, parerga, rispetto al mio impegno professionale di studioso della filosofia antica; dall’altro, di scritti che rispecchiano più direttamente la mia collocazione politica, la mia presa di partito (questa espressione non ha naturalmente a che fare con appartenenze di “tessera”, ma con una decisione di fondo, la scelta “da che parte stare”). “A sinistra”, dunque. Una posizione alla quale mi consegnano la mia tradizione familiare, il mio percorso intellettuale e morale, la mia convinzione di un futuro possibile alternativo alla barbarie che attraversa il nostro tempo e ne minaccia l’orizzonte. Un futuro comunista, anche: con la necessaria precisazione che per “comunismo” non intendo un’identità ereditata e conclusa, in qualche misura “anagrafica” o certificata da un’iscrizione, ma appunto un orizzonte di ricerca e di azione, una prospettiva di liberazione e di giustizia, che si situa all’intersezione fra la parzialità della “presa di partito” e l’universalità che appartiene ai valori. Un’utopia, forse, della quale non nego l’ascendenza platonica oltre che giacobina e marxiana, che tuttavia, se vuole essere presa sul serio, deve poter individuare i suoi vettori storici di realizzabilità, le sue condizioni di possibilità, i livelli concreti di attuazione parziale e approssimata.
È appena il caso di aggiungere che in questi scritti non devono venire cercati né la chiave di lettura né il senso “segreto” dei miei lavori professionali di ricerca nel campo della storia della filosofia antica. Come ogni indagine disciplinare e a suo modo “scientifica”, essi contengono in se stessi, cioè nella relazione interpretativa che istituiscono con i testi e gli autori, e negli strumenti di metodo dichiaratamente messi in opera, le condizioni per la propria validità, e presentano il proprio specifico ambito di significazione. Stabilita questa necessaria clausola di salvaguardia, sarebbe tuttavia ingenuo, e anche a mio avviso metodicamente erroneo, assumere una perfetta “neutralità” dell’osservatore di fronte ai suoi oggetti di indagine, o una totale immunità di questa indagine dalla posizione extra-scientifica dello studioso. Ingenuo, erroneo e dal mio punto di vista anche inammissibile: credo infatti che la stessa tensione razionale, lo stesso sforzo di comprensione e argomentazione, ispirino e sorveglino (o almeno dovrebbero sorvegliare) sia il lavoro di ricerca sia la “presa di partito” che coinvolge l’uomo prima che il ricercatore.
Può darsi, dunque, che questi “scritti con la mano sinistra”, dichiarando esplicitamente la seconda senza riguardo per la finzione di “neutralità” del primo, contribuiscano a definire più chiaramente gli interessi intellettuali, i punti di vista da cui vengono formulate le domande di senso messe in questione nell’indagine storica. Anzi, l’esser consapevoli della propria parzialità può evitare di cadere in una tentazione, di commettere un errore storiografico in cui spesso si incorre, più o meno ingenuamente: quelli di “piantare le proprie bandierine” sul campo di indagine, cioè di riconoscere nel passato “precursori” delle idee in cui si crede (che siano il comunismo o il socialismo o il liberalismo o il cristianesimo: quanto spesso xe “Platone”Platone è stato arruolato sotto queste insegne?). Si tratta di un errore particolarmente funesto, perché lo studio del passato non serve allora a conoscere il passato stesso e per suo tramite a comprendere meglio noi stessi, bensì soltanto, narcisisticamente, a specchiarsi nel passato per riconoscervisi: il che non porta ad alcun incremento di comprensione né da una parte né dall’altra.
2. Questo libro è diviso in tre parti. La prima, Tra filosofia e politica, comprende scritti che discutono alcune problematiche filosofiche rilevanti dal punto di vista di interrogazioni che vengono, in senso lato, dalla politica. Che cosa significa la “crisi della ragione” e delle sue pretese universalistiche, tematizzata nel dibattito filosofico dell’ultimo scorcio del Novecento, dal punto di vista dei conflitti sociali e valoriali? Qual è il rilievo dell’esaurimento teorico della filosofia storicistico-dialettica dello “sviluppo”, e la sfida che esso propone a un pensiero non evoluzionistico della rivoluzione come progetto di emancipazione? Quale autonomia e quale ruolo restano all’intellettuale, e in particolare al filosofo, di fronte al dominio dei poteri sociali di conformazione della soggettività? Infine: c’è ancora uno spazio possibile per una prospettiva etica come orizzonte di senso della politica? Intorno a queste domande insistenti si articola la riflessione sviluppata – certo in modo solo incoativo – in questo primo gruppo di scritti.
La seconda sezione si intitola, per contro, Tra politica e filosofia. Qui l’oggetto di indagine sono le prospettive della politica considerate da un punto di vista filosofico. Un primo nodo problematico è costituito dalle condizioni di possibilità di una soggettività collettiva antagonista (il “partito dei comunisti”) nell’epoca del tardo-capitalismo in cui si è prodotto il progressivo logoramento delle grandi strutture di formazione di identità sociale (la fabbrica, il sindacato, l’esercito), in altre epoche capaci di esprimere una propria guida e rappresentanza politica. Emerge qui l’urgenza di pratiche collettive intese primariamente a “fare società”, cioè a creare legami sociali e progettualità collettive di cui la politica possa farsi interprete e strumento. E ancora una volta la questione dell’etica si profila come decisiva per costruire forme nuove di aggregazione sociale.
Un compito imprescindibile in questa prospettiva è quello di comprendere le ragioni della crisi dei modelli di stato e di società storicamente sperimentati dal movimento operaio e dai suoi partiti nel corso nel Novecento, e in primo luogo delle forme del cosiddetto “socialismo reale”. Ma altrettanto importante è riflettere – al di fuori delle semplificazioni propagandistiche e delle deformazioni ideologiche – sui temi della guerra e della “violenza”, tanto nelle loro dimensioni antropologiche quanto nelle implicazioni politiche che vi sono connesse.
Infine, e soprattutto, c’è l’esigenza imprescindibile di immaginare un futuro possibile, come orientamento della prassi quotidiana e anche come presupposto di un recupero valoriale della tradizione, ai fini della ricostruzione di una soggettività progettuale, di una nuova presa di coscienza della storicità capace di uscire dalle secche del “pensiero unico” e dalla minaccia della “fine della storia”. Al pari della società, la storicità non è un dato di fatto che si possa considerare acquisito, ma un obiettivo da costruire, un compito da perseguire, insomma una possibilità che non è garantita ma deve venir prodotta nell’azione collettiva di comprensione e di trasformazione.
La terza sezione, Fra gli antichi e noi, torna ad una riflessione sulla società e il pensiero dell’antichità dal punto di vista delle prospettive filosofico-politiche che si sono venute fin qui delineando. Da un lato si discutono le possibilità e i limiti di un’impiego delle categorie marxiane per l’interpretazione delle forme sociali e culturali del mondo antico: si tratta ancor oggi di uno strumento euristico indispensabile, anche per rettificare vedute dell’antico ingenue o ideologiche che ne oscurino il carattere profondamente conflittuale; uno strumento che va però maneggiato con cautela metodica e consapevolezza critica, vista la differenza che intercorre fra il sistema sociale del capitalismo moderno, in cui quelle categorie si sono formate, e la struttura delle “forme economiche pre-capitalistiche” su cui ci interroghiamo. Dall’altro lato sono in questione importanti episodi di reinterpretazione dell’antico da parte del pensiero contemporaneo, come le recenti indagini di M. Foucault sull’etica e l’antropologia antiche, e la vicenda novecentesca delle interpretazioni del pensiero politico di Platone, con i suoi abusi ideologici. Questo stesso pensiero viene infine indagato in due direzioni: l’utopia della comunità “giusta”, da un lato, e la critica – non disgiunta da un’inquietante attrazione – per una forma di potere politico assoluto ed efficace quale fu rappresentata nel IV secolo dalla tirannide: il circolo in questo modo si chiude, perché l’utopia della comunità giusta e la prospettiva del potere tirannico come strumento di trasformazione sociale ci riportano prepotentemente a questioni centrali della riflessione politica contemporanea.
3. Grandi interrogativi, dunque, per piccoli scritti. Che non aspirano davvero a fornire risposte, e neppure, in molti casi, a formulare le domande in modo filosoficamente adeguato. Ma che possono, forse, rivendicare a proprio merito lo sforzo di tenere aperto lo spazio dell’incertezza, di riproporre l’urgenza della riflessione, resistendo sia al cedimento di fronte all’omologazione del pensiero, sia alla rassegnazione di fronte all’estrema durezza dell’epoca. Non si tratta di un compito esclusivo del filosofo, e tanto meno dell’antichista, perché esso coinvolge la responsabilità morale e intellettuale di ognuno. Ma se sarà riuscito a riproporre, con la sua insistenza, un richiamo a questa responsabilità, a suscitare qualche consenso e naturalmente molti dissensi intorno al suo modo (certo controvertibile) di porre questioni e di condurre il ragionamento, questo piccolo libro non avrà del tutto deluso la fiducia di coloro cui si deve il progetto della sua realizzazione, e le speranze del suo autore.
Mario Vegetti
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Luca Grecchi – Mario Vegetti: un ricordo personale e filosofico
Mario Vegetti:
un ricordo personale e filosofico
di Luca Grecchi
Il mio rapporto con Mario Vegetti risale al 2004. Da studioso della filosofia antica mi sono infatti formato, come molti altri, sui suoi testi, che ho sempre apprezzato in maniera particolare (insieme a quelli di Enrico Berti). Decisi per questo, pur non avendolo mai incontrato di persona, di chiedergli una introduzione ad un libro che avevo appena concluso (Conoscenza della felicità). In maniera inattesa, anche in quanto Mario era ancora alle prese con l’insegnamento accademico, egli lesse velocemente il manoscritto di quel giovane sconosciuto che allora ero per lui, e ne realizzò una generosa introduzione, che iniziava con queste parole: «Luca Grecchi è un pensatore, a suo modo, classico…». Inutile dire la gioia che provai quando la ricevetti.
Nel tempo i nostri rapporti, soprattutto epistolari, sono continuati, ma si sono molto intensificati nell’ultimo anno, quando Mario mi rivelò di essere malato. Questi rapporti si sono intensificati soprattutto per motivi editoriali, che ora accennerò, ma il tema che li ha caratterizzati è sempre stato la costante ironia di Mario, la quale costituisce il tratto della sua personalità che rammento con maggiore affetto. Ricordo, a solo titolo di esempio, che quando all’inizio dello scorso anno gli telefonai per chiedergli alcuni consigli, in quanto ero stato incaricato di realizzare il volume Natura nella collana Questioni di filosofia antica per la casa editrice Unicopli (un lavoro assai impegnativo, richiedente una vasta trattazione di questo ambito – insieme filosofico, scientifico e letterario – su oltre dieci secoli), mi disse testualmente queste parole: «Tu sei l’unico matto che poteva accettare un lavoro del genere. Ma chi te lo fa fare?». L’ironia di Mario era meravigliosa, in quanto esprimeva sempre in forma iperbolica una idea che lui realmente sentiva, e che aveva il suo fondamento. Come quando, anni prima, invitato ad una conferenza con Giovanni Reale sul tema fede/ateismo, mi disse che gli era stato richiesto di “fare la parte del non credente„, anche se poi appunto affermava di credere pure lui ad alcune cose, e di non sapere bene a che cosa non credesse.
I ricordi sono molti, ma penso sia più utile qui soffermarmi sui lavori di questi ultimi tempi di Mario, cui egli teneva in maniera particolare. Gli ultimi mesi si sono infatti svolti a stretto contatto epistolare con me e la casa editrice Petite Plaisance di Pistoia (nella figura del carissimo amico Carmine Fiorillo), in quanto abbiamo insieme deciso di ripubblicare, nella collana filosofica da me diretta, alcuni testi di Mario oramai introvabili. In particolare, dopo avere ripubblicato qualche anno fa Cuore, sangue e cervello, che Mario scrisse negli anni Settanta con Paola Manuli, e soprattutto dopo avere edito Scritti con la mano sinistra (una raccolta di suoi scritti di carattere in senso ampio “politico„), sono appena stati ristampati, appunto da Petite Plaisance, altri due libri di Mario, Tra Edipo e Euclide ed Il coltello e lo stilo.
Con specifico riferimento a Scritti con la mano sinistra – un testo che mi permetto davvero di consigliare a chi non lo avesse ancora letto –, mi torna alla mente un altro piccolo aneddoto, che mi consente di svolgere qualche considerazione più filosofica sul suo lavoro. Mi disse infatti, quando gli feci la proposta di raccogliere i suoi testi più politici: “Vorrei sapere perché ci tieni così tanto che siano ripubblicati i miei articoli, che tranne l’Inter e il comunismo non la pensiamo mai allo stesso modo„. Condividevamo, in effetti, le stesse “fedi laiche„ calcistiche e politiche, sebbene di ambedue negli ultimi tempi, per motivi contingenti (noti agli appassionati), parlassimo poco. Mario tuttavia aveva ragione sul fatto che non sempre noi si concordasse. In effetti, negli anni, a più riprese gli feci presente che, a mio modestissimo avviso, erano un poco eccessive le sue considerazioni critiche sul carattere “agonale„ della civiltà omerica, sul carattere poco democratico dell’epoca classica, così come il suo insistere su alcuni aspetti a mio avviso minori del pensiero di Aristotele (le donne, gli schiavi, ecc.). Mi sembrava, insomma, che egli mettesse in evidenza gli aspetti più oscuri in quelle civiltà ed in quei pensieri, in questo modo riducendo la visibilità degli aspetti migliori. Ma, naturalmente, lui faceva bene a proseguire la sua strada, la quale ha in effetti consentito di problematizzare ed eliminare molti desueti luoghi comuni sulla cultura classica, oltre che di tracciare alcuni importanti sentieri scientifici prima di lui inesistenti.
Ci divideva anche un altro contenuto, come emerse in una conferenza che si tenne a Milano nel 2009 con me, lui, Carmelo Vigna ed Enrico Berti (che a dire il vero arrivò fino in stazione Centrale, si infortunò ad un piede scendendo dal treno, e tornò a Padova senza purtroppo poter partecipare). Mario non riteneva infatti che il pensiero antico potesse essere considerato un pensiero dotato di contenuti onto-assiologici veritativi, tali cioè da costituire stabili riferimenti di senso e di valore validi anche per il nostro tempo. Da antichista puro – per quanto aperto al pensiero filosofico moderno e contemporaneo –, egli sosteneva in effetti la necessità di collocare sempre gli antichi nel loro contesto, senza potere trarre da essi messaggi sovrastorici. Questa era la sua impostazione filosofica, che io scherzando gli dicevo essere quella del vecchio “storicismo marxista„; lui mi ripagava dicendo che io ero un “metafisico classico„, per il mio insistere sempre sulla verità e sul bene, e così eravamo pari. In ogni caso, come prova il suo ampio commento alla Repubblica di Platone edito da Bibliopolis, emergeva anche dalla sua opera, sebbene talvolta egli lo velasse, un afflato utopico-progettuale davvero importante, derivante proprio dal sostrato filosofico greco.
Per ritornare ai suoi testi, quelli che egli teneva maggiormente a ripubblicare erano le due raccolte, Scritti di medicina ippocratica (uscita purtroppo il giorno dopo la sua morte) e Scritti di medicina galenica (in uscita a breve), che compattano materiale di studio sulla medicina antica redatto da Mario in oltre cinquanta anni di lavoro. Sono davvero felice di avergli potuto fare questa proposta, manifestandogli al contempo la dovuta gratitudine per il grande valore della sua opera, esso sì realmente sovrastorico. L’ultimo plico che ha spedito, una settimana circa prima di morire, credo lo abbia mandato proprio a Petite Plaisance, con il suo generoso apprezzamento per la qualità editoriale dei volumi appena ristampati. Anche nella correzione degli impaginati non è peraltro mai mancata la sua ironia: “Mi stai facendo lavorare come un matto, sai che in questo periodo non sono in grado di effettuare grandi performance lavorative…„, mi scriveva in una sua email prenatalizia.
Eravamo rimasti in accordo che avrebbe partecipato con un saggio ad un volume collettaneo che sto curando, che si intitolerà Teoria e prassi in Aristotele, in uscita in autunno. Conoscevo che le sue condizioni di salute erano in peggioramento (per la presentazione dei volumi galenico ed ippocratico, in corso di organizzazione sia alla Casa della Cultura di Milano che in Università, sapeva che non avrebbe comunque potuto partecipare), ma non pensavo che ci avrebbe lasciati così in fretta. Ha fatto in tempo a sapere – è il contenuto dell’ultima sua email che ho ricevuto, dell‘8 marzo – della morte dell’amico e collega di una vita, Diego Lanza, avvenuta il 7 marzo.
Ho appreso della sua morte, come molti, lunedì 12 marzo sfogliando Il corriere della sera, che gli ha dedicato, come doveroso, una bella pagina. Perdiamo con lui, sicuramente, un pensatore originale ed un grande antichista, animato – come erano stati, prima di lui, Rodolfo Mondolfo ed il suo amico Gabriele Giannantoni – da una rigorosa passione politica, sempre attenta ai problemi di chi è più in difficoltà. Concludo ricordando che Mario, pur nella consueta riservatezza, era massimamente orgoglioso del suo ruolo di nonno, padre e marito: alla famiglia, pertanto, va il mio pensiero più caro, ben conoscendo il valore dell‘uomo che hanno avuto accanto.
Luca Grecchi
Il testo è già stato pubblicato anche sul sito della Società di Psicoanalisi Crritica (29-03-2018) con questa nota di accompagnamento: “Pubblichiamo di seguito un ricordo di Mario Vegetti, notissimo studioso e docente di Storia della Filosofia antica e intellettuale rigoroso, amico personale di alcuni di noi e della Società di Psicoanalisi Critica”.
ADDIO A MARIO VEGETTI
Ricordano l’amico e il protagonista della Casa della Cultura: Ferruccio Capelli, Mauro Bonazzi, Fulvio Papi, Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri, Salvatore Veca
Ricordo di Mario Vegetti – Rai Filosofia
Addio a Mario Vegetti, l’utopia di Platone e i suoi chiaroscuri – La Stampa
Mario Vegetti, filosofo studioso di Platone – Corriere della Sera
Mario Vegetti, Il coltello e lo stilo. Animali, schiavi, barbari e donne alle origini della razionalità scientifica.
ISBN 978-88-7588-228-0, 2018, pp. 192, formato 140×210 mm., Euro 20 – Collana “Il giogo” [82]. In copertina: Affresco raffigurante gli Istrumenta sciptoria. In quarta: bassorilievo del tempio di Esculapio di Atene.
indice – presentazione – autore – sintesi
Premessa alla nuova edizione del 2018
Il coltello e lo stilo fu pubblicato nella primavera del 1979. Fin dalla sua comparsa, suscitò un vivace interesse, non solo, e non tanto, fra gli specialisti di antichistica, quanto presso un pubblico composito di lettori che frequentavano i territori che allora si chiamavano “cultura critica”: epistemologia, antropologia, psicoanalisi, ed eventualmente movimenti come quello femminista e animalista. Ne uscirono naturalmente diverse interpretazioni del senso e degli intenti del libro (dalla critica irrazionalistica ai fondamenti “violenti” della scienza, a una rivisitazione moderata di Foucault). Nell’introduzione all’edizione del 1996, riprodotta in questo volume, ho tentato di delineare le coordinate culturali entro le quali Il coltello e lo stilo era stato concepito, e di indicare un punto di vista d’autore sulla collocazione del libro. Ha fatto però bene l’editore a ristampare qui la prima edizione, quella del 1979. Da un lato, questo restituisce ai primi lettori la possibilità di un rinnovato incontro con il testo; dall’altro, e soprattutto, consente a nuovi lettori l’accesso alla forma originale del libro ormai da gran tempo esaurita. Non è immotivato pensare che questa ristampa possa apparire a qualcuno come una riscoperta, e ridestare almeno in parte l’interesse e la discussione così vivaci tanti anni or sono. Se così fosse, potremmo augurare “bentornato” al Coltello e lo stilo, e renderne il merito che gli spetta al generoso editore, Carmine Fiorillo di “Petite Plaisance”.
Mario Vegetti
Febbraio 2018
Mario Vegetti, Tra Edipo e Euclide. Forme del sapere antico.
ISBN 978-88-7588-227-3, 2018, pp. 208, formato 140×210 mm., Euro 20 – Collana “Il giogo” [84]. In copertina: Frammento di cratere a calice a figure rosse [scena dell’Edipo Re di Sofocle] (330-320 a.C.) e Papiro de Oxirrinco [frammento degli Elementi di Euclide].
indice – presentazione – autore – sintesi
Premessa alla nuova edizione del 2018
Edipo e Euclide rappresentano simbolicamente i due limiti estremi della razionalità greca. Il primo – nell’interpretazione che offre dell’Edipo re sofocleo il primo dei saggi qui raccolti – impersona una forma di razionalità indagatrice, che procede per indizi e per segni, e ha di mira la “scoperta”: una scoperta legata sempre alla circostanza particolare, al kairòs, all’individuo. Una razionalità, dunque, nella quale si riflettono l’indagine diagnostica e prognostica sia della medicina ippocratica sia della storiografia tucididea (che si presenta esplicitamente come una ricerca diagnostica sulla crisi di Atene).
All’estremo opposto si colloca la forma della razionalità che può andare sotto il nome di Euclide. La sua geometria costituiva già per gli antichi, e costituisce tuttora, un modello di pensiero astrattivo e dimostrativo, il luogo elettivo di un’idea forte della verità come acquisizione universalmente valida, incontrovertibile e immutabile. Come mostra l’ultimo dei saggi raccolti nel volume, la razionalità euclidea è l’asse teorico su cui si impernia gran parte della scienza ellenistica (sia pure con qualche eccezione).
Fu Galeno a tentare una sintesi di questi due stili di razionalità nel suo progetto di ricostruzione epistemologica della medicina, come indicano i due saggi che qui gli sono dedicati. Da un lato, egli continuava a ritenere che la medicina dovesse essere una techne di stile ippocratico, capace di diagnosticare e pronosticare le vicende individuali della malattia grazie a un’indagine semiologica di modello “edipico”. Dall’altro però era convinto che la medicina dovesse dotarsi di un robusto impianto teorico di tipo universalizzante e dimostrativo, alla maniera delle scienze forti di modello “euclideo”, sfidando le tensioni che questa doppia esigenza epistemologica veniva producendo nel suo pensiero.
Anche per il rigoroso razionalismo stoico conciliare la teoria di un’anima costituita dal solo logos con l’evidenza dell’insorgere nel soggetto umano di pulsioni irrazionali come le passioni costituiva un serio problema. Il capitolo IV del libro mostra come una delle spiegazioni stoiche abbia individuato nel condizionamento sociale ed educativo subito fin dalla primissima infanzia la matrice delle deviazioni passionali: la natura mette al mondo neonati buoni, ma i successivi processi di allevamento e di socializzazione lo predispongono a cedere all’irrazionalità delle passioni.
I saperi antichi vengono naturalmente forgiati da forme di razionalità intermedie od oblique rispetto agli estremi che ne abbiamo indicati. C’è il potente ricorso a modelli metaforici che rendono possibile e persuasivo il discorso scientifico intorno a fenomeni difficilmente accessibili o comprensibili. Così la metafora della politica agevola per i medici la comprensione dei processi somatici interni (cap. II), e quella derivata da un’esperienza tanto diffusa nella società romana come lo spettacolo circense orienta la costruzione del sapere di Plinio intorno al mondo animale (cap. V). La scimmia, infine, con il suo corpo troppo simile a quello umano, mette suo malgrado in contatto due mondi così lontani come quello leggero del gioco e dello spettacolo, da un lato, e dall’altro quello dell’anatomia e della vivisezione, con la sua razionalità scientifica “dura” (cap. III).
Nell’ambito dei miei studi, queste ricerche svolgono un ruolo di transizione. Da lato, continuano e sviluppano temi trattati ne Il coltello e lo stilo (1979), dall’altro anticipano quelli sull’etica antica e sulla medicina ellenistica e galenica, che avrebbero occupato i decenni successivi. Il comune orientamento metodologico di questo campo di studi è definito nel testo sulla Questione dei metodi, con il quale si apre il volume; i saggi raccolti possono venire letti come esempi e verifiche delle indicazioni che vi vengono discusse.
In questo doppio carattere, di lavori di ricerca e di esercizi di metodo, credo possa consistere il perdurante interesse dei saggi raccolti, e per questo mi è giunta benvenuta l’idea di riproporli al lettore per i tipi di Petite Plaisance.
Mario Vegetti
Dicembre 2017
Mario Vegetti, Scritti sulla medicina ippocratica.
ISBN 978-88-7588-225-9, 2018, pp. 416, formato 140×210 mm., Euro 30 – Collana “Il giogo” [86]. In copertina: Rilievo dal santuario di Anfiarao a Oropo, 400-350 a.C., Atene, Museo Archeologico Nazionale.
indice – presentazione – autore – sintesi
Prefazione
Ho esitato ad accettare la proposta dell’editore Carmine Fiorillo e dell’amico collega Luca Grecchi di raccogliere in volume i miei scritti sulla medicina ippocratica. Per la gran parte, infatti, essi risalgono a quasi cinquant’anni or sono, ed era evidentemente fuori questione tentarne un aggiornamento, che avrebbe equivalso a riscrivere larga parte della ricerca ippocratica del Novecento: in effetti, questi scritti avevano un carattere pioneristico, e non solo in Italia. Erano allora rari gli studi d’insieme sulla medicina greca di epoca classica, le edizioni commentate di singoli testi ippocratici, e naturalmente non si parlava ancora di Colloqui ippocratici internazionali, la cui serie iniziò nel 1972 dando luogo ad incontri via via più affollati di studiosi e di specialisti. Ma è stata poi proprio la precocità di questa stagione di studi, nell’ambito della vicenda mia personale e in quello della ricerca ippocratica in Italia, a convincermi infine ad accettare la proposta.
Si respirava in quegli scritti un’aria di scoperta: l’emozione per l’incontro con un episodio fondativo alle origini della tradizione medica e del pensiero scientifico in Occidente, l’entusiasmo per l’esplorazione del più vasto continente di sapere scientifico che la cultura greca ci abbia lasciato prima di Aristotele e della geometria euclidea. Si trattava per giunta di una techne razionale – fra le prime a varcare la soglia della scrittura durante il V secolo a.C. – che offriva il modello di un sapere capace di coniugare conoscenza ed efficacia. Essa si collocava più sul versante semiotico, individualizzante della scienza che su quello dimostrativo-astrattivo, e costituiva quindi un suggestivo modello intellettuale per le scienze dell’uomo allora in corso di formazione, dalla storia alla politica, come mostrò precocemente Jaeger e come del resto aveva già intuito Platone.
Nei saggi qui raccolti venivano seguiti due approcci principali nell’accostarsi a questo ricco ambito del sapere antico, entrambi del resto consoni all’atmosfera intellettuale degli anni Sessanta del secolo scorso. Il primo, e di gran lunga prevalente, era l’interesse per il metodo, concepito come il terreno di incontro cognitivo fra ragione ed esperienza, configurate così come i due poli del processo della conoscenza. Si trattava di un approccio orientato da una epistemologia di ispirazione kantiana, com’è facile vedere, ma che risultava adatto a mettere in luce la nascente sensibilità metodologica in cui consisteva uno dei tratti di originalità teorica del pensiero medico nel V secolo. Esso sembrava infatti proporre, in forme più o meno esplicite, una funzione della ragione come strumento di comprensione e di organizzazione significativa del materiale di esperienza, e dell’esperienza stessa come territorio disponibile al controllo cognitivo e anche operativo della ragione, che da esso comunque non poteva prescindere.
Con questa idea di “metodo”, la medicina ippocratica sembrava trovare una sua via – la via propria di una techne – tra le due opposte “sostanzializzazioni”, della ragione e dell’esperienza. La prima veniva concepita dagli Eleati non in rapporto ma in opposizione all’esperienza, e costituiva dunque non solo uno strumento della verità, ma il suo unico contenuto. L’esperienza dei processi naturali veniva per contro concepita dagli Ionici come autoesplicativa, perché bastava la scelta di uno o più elementi della natura per spiegarne tutto il resto, senza l’impegno a costruire un discorso capace di darsi regole e giustificazioni metodiche eterogenee rispetto al mondo naturale.
Il secondo approccio, più vicino questo a un’ispirazione marxista, comportava invece un’attenzione, allora non molto diffusa, all’ambiente sociale che aveva favorito lo sviluppo della medicina e del suo peculiare profilo intellettuale. Si trattava della polis democratica, teatro della crescita delle technai profane e secolarizzate, legate all’ambiente sociale dell’agorà, e della parallela crisi dei saperi tradizionali di matrice sacerdotale: il luogo culturale, dunque, dove il medico laico di affiliazione ippocratica poteva sfidare i sacerdoti guaritori dei templi di Apollo e di Asclepio, i purificatori, i maghi e gli indovini della tradizione. Sul piano filosofico, questo stesso ambiente della medicina era condiviso da un filosofo come Anassagora, il che contribuisce a spiegarne la particolare rilevanza per l’ippocratismo, come si insiste a più riprese nei lavori qui raccolti.
A tanta distanza di anni, e dopo così rilevanti sviluppi nella ricerca, i loro limiti emergono con chiarezza: in parte possono venir considerati inevitabili visto l’entusiasmo pioneristico che li animava, in parte possono esser fatti risalire alle concezioni diffuse nella cultura del tempo, oltre che a inclinazioni proprie dell’autore.
Quanto a queste ultime, credo si possa definire alquanto eccessiva l’enfasi posta sul rapporto, in positivo e in negativo, tra filosofia e medicina. È indubbio che le grandi correnti filosofiche abbiano influito, o tentato di influire, sulla formazione della concettualità medica: dopo tutto, è in Antica medicina che si trova la più antica citazione (polemica) di Empedocle e della sua “filosofia”; ed è altamente probabile che il nascente pensiero “ippocratico” possa aver rivolto la sua attenzione al magistero anassagoreo. D’altra parte, è ben nota la profonda impressione che la medicina destò in tutto l’arco del pensiero di Platone, sia nel suo versante metodico (come testimoniano il Fedro e il Carmide), sia nella sua esemplarità etico-politica, a più riprese sottolineata dal Gorgia alla Repubblica, dal Politico alle Leggi. Ma è prudente non immaginare un’intensa circolazione di libri e dottrine fra due aree così intellettualmente e anche professionalmente e socialmente lontane come la filosofia e la medicina delle origini, e fra ambiti geografici distanti come la Magna Grecia e la costa ionica dell’Asia minore. La stessa pur rilevante elaborazione metodologica prodotta dai medici del V secolo non avrà probabilmente avuto quella piena consapevolezza teorica e filosofica che tendevo ad attribuirle, quasi si trattasse non di Ippocrate ma – seicento anni più tardi – di Galeno.
Tipico del tempo in cui prese forma la mia ricerca è invece un certo eccessivo ottimismo nella possibilità di risolvere la “questione ippocratica”, identificando le opere autenticamente attribuibili alla figura storica di Ippocrate, e persino tentando di leggerne l’evoluzione interna. Ero allora convinto che il “vero” Ippocrate fosse riconoscibile nelle opere tradotte nelle prime due sezioni del mio Ippocrate del 1964, che Ludovico Geymonat volle accogliere nella sua storica collana di “Classici della scienza”: L’antica medicina, Le arie le acque i luoghi, Il prognostico, Il regime nelle malattie acute, Male sacro, Le epidemie (libri I e III), Le ferite nella testa, Fratture e articolazioni; e che, di conseguenza, queste opere contenessero una dottrina medica coerente e unitaria. Continuo a pensare che, se ha senso cercare un nucleo “ippocratico” del Corpus, esso andrà più o meno cercato nel perimetro indicato, e che sia tanto difficile escluderne Antica medicina quanto includervi Il regime, come molti studiosi hanno sostenuto. Ma già nell’Introduzione del 1973 alla seconda edizione dell’Ippocrate manifestavo una giusta cautela sulla possibilità di raggiungere conclusioni definitive in proposito, e anche un certo scetticismo sull’utilità della modalità filologico-attribuzionistica della ricerca ippocratica, che rischiava di mettere in secondo piano la cosa più importante, cioè la comprensione storico-critica di opere e gruppi di opere, quale che ne fosse la presunzione di “autenticità” ippocratica.
Più interessante mi sembra segnalare ora un abbaglio, o un equivoco, in cui incorrevano sia la mia ricerca sia gran parte della storiografia dell’epoca. Ne era motivo il pregiudizio classicistico, che assegnava un maggior valore culturale e sociale alle forme politiche e intellettuali appunto dell’età detta “classica” (V e IV secolo a.C.), e conseguentemente considerava epoche di decadenza quelle posteriori, a partire dall’ellenismo (un pregiudizio tenace che risaliva a Hegel ed è resistito fino a pochi decenni orsono). Aleggiava dunque la convinzione che la grande età della medicina greca fosse appunto quella ippocratica, e che la medicina posteriore, per quanto tecnicamente evoluta – dagli anatomisti alessandrini a Galeno – avesse perduto la carica innovativa e l’apertura intellettuale dei fondatori. Parallelo a quello epistemico, c’era il pregiudizio storico secondo il quale la grande età della storia greca era stata quella “periclea”, insomma l’età della polis matura, e che la successiva storia dei regni ellenistici fosse a sua volta una storia di decadenza politico-sociale.
Non c’è bisogno di dire che gli sviluppi della ricerca, e la critica del classicismo, hanno fatto giustizia di entrambi questi pregiudizi. La medicina ellenistica e imperiale è stata riconosciuta come uno straordinario edificio di sapere teorico e di competenza tecnica, dai vasti orizzonti intellettuali e dal forte prestigio sociale (nella mia storia personale, questa svolta ha avuto luogo nel 1978, con l’avvio degli studi su Galeno, anch’essi stimolati da Ludovico Geymonat). Quanto al mondo dei regni ellenistici, ne sono stati generalmente riconosciuti i meriti nella promozione della cultura letteraria e scientifica, i successi tecnologici ed economici, lo spirito di tolleranza nei riguardi delle religioni e delle culture che facevano parte dei loro domini. Veniva certo meno l’intensa partecipazione dei cittadini alla vita politica comune, che era stata propria della polis; ma veniva anche meno la chiusura etnica e sociale di questa comunità di “autoctoni” di fronte agli stranieri, cui essa non riconosceva alcun diritto. È almeno discutibile che le scienze e le tecniche abbiano trovato nella polis un ambiente più favorevole al loro sviluppo rispetto ai regni ellenistici: la fondazione del Museo e della Biblioteca di Alessandria, oltre che di simili istituzioni nelle altre capitali ellenistiche, sembra dare decisamente un’indicazione contraria, anche se certo in questi casi si tratta di mecenatismo regio e non di deliberazione democratica.
Una rilettura di questi testi, ricollocati così nelle coordinate culturali in cui videro la luce, ritengo possa mantenere un suo valore e una sua utilità per tutti i lettori interessati a comprendere lo sviluppo storico e le strutture intellettuali della medicina greca di epoca ippocratica – cioè dell’episodio fondativo dell’intera tradizione medica occidentale.
Gli scritti sono presentati in ordine cronologico, ad eccezione delle due introduzioni del 1964 e del 1973, che sono poste al termine del volume per il loro carattere di trattazione complessiva. Non sono stati inclusi in questa raccolta scritti già comparsi nei volumi La medicina in Platone, Il Cardo, Venezia 1995, e Tra Edipo e Euclide. Forme del sapere antico, Il Saggiatore, Milano 1983.
Non posso concludere questa premessa senza rivolgere il mio più caloroso ringraziamento all’editore Carmine Fiorillo, per lo straordinario impegno profuso nell’allestimento di questo volume.
Febbraio 2018
Mario Vegetti
Paola Manuli – Mario Vegetti
Cuore, sangue e cervello
indice – presentazione – autore – sintesi
Paola Manuli – Mario Vegetti, Cuore, sangue e cervello. Biologia e antropologia nel pensiero antico. In Appendice: Galeno e l’antropologia platonica.
ISBN 978-88-7588-028-6, 2009, pp. 288, formato 140×210 mm., Euro 25. Collana “Il giogo” [22]. In copertina: Asclepio cura un malato, rilievo in marmo, V secolo a.C.
Prefazione alla nuova edizione
Questo libro è esaurito da molti anni, e non è stato possibile ristamparlo perché la casa editrice Episteme, che l’aveva pubblicato nel 1977, ha nel frattempo cessato la sua attività. Mi è spesso accaduto di ascoltare il rammarico di studiosi che ne lamentavano l’irreperibilità, considerandolo ancora un utile strumento di lavoro.
Quando l’editore CARMINE FIORILLO mi ha espresso la sua generosa disponibilità ad una riedizione del volume, ho tuttavia provato qualche incertezza. Provvedere a un aggiornamento risultava impossibile per due ragioni. La prima era la dolorosa e prematura scomparsa di PAOLA MANULI, autrice della parte sostanziale del lavoro (a me era spettato soltanto, oltre al progetto complessivo, la stesura dell’introduzione). La seconda consisteva nell’immensa mole di lavori scientifici comparsi nei trent’anni intercorsi dalla pubblicazione del libro: per limitarmi a qualche esempio, ricorderò solo gli atti dei numerosi colloqui ippocratici e galenici, le opere collettive sulla biologia di ARISTOTELE edite da GOTTHELF, LENNOX, PELLEGRIN e KULLMANN, il libro della DUMINIL sul sangue e il cuore nel Corpus Hippocraticum (1983), il volume della ANRW su GALENO (II 37.2, 1994), gli studi di G.E.R. LLOYD; e citerò da ultimo tre recentissime e importanti ricerche in lingua italiana, quella di D. QUARANTOTTO sul finalismo nella scienza aristotelica (2005), quella di R. LO PRESTI sull’encefalocentrismo ippocratico (2008), e quella di T. MANZONI sul cervello in ARISTOTELE (2007).
Una rilettura del libro mi ha tuttavia convinto che nonostante tutto esso conservi ancora motivi di attualità tali da renderne opportuna e motivata una riedizione.
Vorrei indicarli schematicamente in quattro punti.
1. L’opera non si limita ad una ricostruzione degli atteggiamenti del pensiero scientifico antico in merito al problema di individuare la parte egemonica del complesso psico-somatico. C’è inoltre uno sforzo intelligente e sistematico di integrare questi atteggiamenti all’interno di una serie di veri e propri paradigmi epistemologici, che mette in chiaro come le opzioni intorno a questo problema si inseriscano in un quadro complesso di posizioni gnoseologiche e di scelte filosofiche, come risultino solidali rispetto a tutta una costellazione di conoscenze scientifiche, di pratiche tecniche e anche di pregiudizi ideologici, che in ultima istanza risultano riferibili a concezioni rivali circa il rapporto fra uomo e natura.
In questo senso, il libro presenta ancora a mio avviso un rilevante interesse di ordine metodico, come saggio di un’interpretazione della scienza antica che non si limita a un repertorio di “progressi” e di “errori”, ma si sforza di comprendere l’insieme delle ragioni che motivano (non certo meccanicamente) sviluppi, regressi, aporie, innovazioni e contraddizioni.
2. Il libro presenta inoltre una sostanziale novità storiografica, che non mi risulta sia stata superata dalla letteratura critica più recente, e di cui anzi forse non sono ancora state pienamente sviluppate tutte le potenzialità euristiche. Si tratta della distinzione (nel campo degli avversari dell’encefalocentrismo) fra un paradigma cardiocentrico, ben noto grazie ad ARISTOTELE, e un paradigma emocentrico, che spesso, ma erroneamente, viene identificato con il cardiocentrismo. PAOLA MANULI non solo ha identificato con chiarezza questo secondo paradigma, che risale a EMPEDOCLE, ma soprattutto ne ha seguito la persistenza, spesso meno evidente ma non per questo meno efficace, dal Timeo platonico allo stesso ARISTOTELE e persino in GALENO, dove residui emocentrici appaiono tanto insuperati quanto latori ci contraddizioni e difficoltà di ricomposizione sistematica. Si tratta a mio avviso di un contributo tuttora prezioso per una comprensione non frettolosa e schematica dell’intera storia del pensiero biologico antico.
3. Il commento al peri kardies, nonostante che le opinioni sulla cronologia tendano oggi ad una datazione più bassa, resta di grande utilità per precisione di analisi e ricchezza di informazioni critiche, che offrono un quadro problematico ancora indispensabile all’interpretazione di quest’opera per molti aspetti enigmatica.
4. L’appendice su GALENO, infine, costituisce un pionieristico repertorio critico dei problemi relativi all’anatomo-fisiologia, alla psicologia e all’antropologia galeniche – problemi che sono tuttora al centro delle ricerche in questo settore – nonché una indagine penetrante intorno alle strategie con le quali GALENO affronta la tradizione da cui dipende, operando a volte un sapiente montaggio delle sue actoritates (in primo luogo IPPOCRATE, PLATONE, ARISTOTELE), a volte invece contrapponendole per finalità polemiche (come ad esempio IPPOCRATE e PLATONE contro ARISTOTELE e gli stoici sul tema del cardiocentrismo).
Mi sono sembrate, queste ed altre, buone ragioni per accettare volentieri e con gratitudine la proposta dell’editore di ripubblicare Cuore sangue e cervello, che viene in questa nuova veste corredato da un indice delle opere e degli autori citati. Spero che l’opera risulti utile e ben accetta agli studiosi; per quanto mi riguarda, considero questa nuova edizione anche come una rinnovata testimonianza del ricordo di PAOLA MANULI, la cui persona e il cui lavoro sono tuttora ben presenti nella memoria della comunità scientifica.
MARIO VEGETTI
indice – presentazione – autore – sintesi
Mario Vegetti, Scritti con la mano sinistra.
ISBN 88-7588-014-X, 2007, pp. 160, formato 140×210 mm., Euro 15 – Collana “Il giogo” [18]. In copertina: Kouros, IV secolo a. C. Atene, Museo Archeologico Nazionale.
Prefazione
1. Non avrei mai pensato di raccogliere questi scritti, se non fosse stato per la cortese e generosa insistenza dell’amico Luca Grecchi e dell’editore Carmine Fiorillo. A loro va dunque, nel bene e nel male, la responsabilità dell’esistenza di questo piccolo volume. A me spetta tuttavia di giustificare – nei limiti del possibile – l’accoglimento della loro proposta.
Quello che mi ha colpito, nel rileggere questi testi dispersi in sedi molto diverse lungo l’arco di più di un quarto di secolo, è stata in primo luogo la loro coerenza. Devo dire subito che non ritengo che la coerenza sia necessariamente una virtù: essa può significare in effetti testardaggine cocciuta, miopia e sordità nei confronti di ciò che di nuovo accade nelle cose e nelle idee, insomma anelasticità intellettuale.
Ci può tuttavia essere qualcosa di virtuoso nella coerenza. Si tratta – per prelevare due parole dal lessico caro a Franco Fortini – dei suoi aspetti di insistenza e resistenza. Insistenza, nel senso non di ribadire tesi e dogmi, ma di continuare tenacemente a porre, e a pormi, problemi e domande, senza variare disinvoltamente il punto di vista da cui l’interrogazione viene posta, e accettando invece l’apertura e la variabilità della gamma delle risposte cercate. E anche nel senso di rifiutare la convinzione secondo la quale sconfitte storiche sono di per sé la prova di errori nella teoria: convincersi di “aver sbagliato” perché si è perduto rappresenta secondo me il residuo di una concezione teologica (il nemico è uno strumento divino per punirci delle nostre colpe). Qualche volta può essere così, ma più spesso l’avversario vince semplicemente perché è più forte sul terreno.
E resistenza: che significa accettare i mutamenti imposti dalla riflessione e dalle cose stesse su cui ci si interroga, ma invece rifiutare pentitismi compiacenti, cedimenti corrivi alle mode correnti o alle “luci della ribalta”; restare fedeli, insomma, a ciò che di noi hanno fatto la nostra storia intellettuale e morale, da un lato, la nostra collocazione in un mondo, dall’altro (insomma, in lettere minuscole, il nostro destino). Almeno in questo senso, la coerenza può forse risultare una virtù, e questa è stata la prima ragione che mi ha indotto ad accettare la proposta di raccogliere questi scritti, affidandoli volentieri a un piccolo ma coraggioso editore.
Scritti con la mano sinistra, appunto. Ovviamente nel doppio senso che si tratta, da un lato, di scritti marginali, parerga, rispetto al mio impegno professionale di studioso della filosofia antica; dall’altro, di scritti che rispecchiano più direttamente la mia collocazione politica, la mia presa di partito (questa espressione non ha naturalmente a che fare con appartenenze di “tessera”, ma con una decisione di fondo, la scelta “da che parte stare”). “A sinistra”, dunque. Una posizione alla quale mi consegnano la mia tradizione familiare, il mio percorso intellettuale e morale, la mia convinzione di un futuro possibile alternativo alla barbarie che attraversa il nostro tempo e ne minaccia l’orizzonte. Un futuro comunista, anche: con la necessaria precisazione che per “comunismo” non intendo un’identità ereditata e conclusa, in qualche misura “anagrafica” o certificata da un’iscrizione, ma appunto un orizzonte di ricerca e di azione, una prospettiva di liberazione e di giustizia, che si situa all’intersezione fra la parzialità della “presa di partito” e l’universalità che appartiene ai valori. Un’utopia, forse, della quale non nego l’ascendenza platonica oltre che giacobina e marxiana, che tuttavia, se vuole essere presa sul serio, deve poter individuare i suoi vettori storici di realizzabilità, le sue condizioni di possibilità, i livelli concreti di attuazione parziale e approssimata.
È appena il caso di aggiungere che in questi scritti non devono venire cercati né la chiave di lettura né il senso “segreto” dei miei lavori professionali di ricerca nel campo della storia della filosofia antica. Come ogni indagine disciplinare e a suo modo “scientifica”, essi contengono in se stessi, cioè nella relazione interpretativa che istituiscono con i testi e gli autori, e negli strumenti di metodo dichiaratamente messi in opera, le condizioni per la propria validità, e presentano il proprio specifico ambito di significazione. Stabilita questa necessaria clausola di salvaguardia, sarebbe tuttavia ingenuo, e anche a mio avviso metodicamente erroneo, assumere una perfetta “neutralità” dell’osservatore di fronte ai suoi oggetti di indagine, o una totale immunità di questa indagine dalla posizione extra-scientifica dello studioso. Ingenuo, erroneo e dal mio punto di vista anche inammissibile: credo infatti che la stessa tensione razionale, lo stesso sforzo di comprensione e argomentazione, ispirino e sorveglino (o almeno dovrebbero sorvegliare) sia il lavoro di ricerca sia la “presa di partito” che coinvolge l’uomo prima che il ricercatore.
Può darsi, dunque, che questi “scritti con la mano sinistra”, dichiarando esplicitamente la seconda senza riguardo per la finzione di “neutralità” del primo, contribuiscano a definire più chiaramente gli interessi intellettuali, i punti di vista da cui vengono formulate le domande di senso messe in questione nell’indagine storica. Anzi, l’esser consapevoli della propria parzialità può evitare di cadere in una tentazione, di commettere un errore storiografico in cui spesso si incorre, più o meno ingenuamente: quelli di “piantare le proprie bandierine” sul campo di indagine, cioè di riconoscere nel passato “precursori” delle idee in cui si crede (che siano il comunismo o il socialismo o il liberalismo o il cristianesimo: quanto spesso xe “Platone”Platone è stato arruolato sotto queste insegne?). Si tratta di un errore particolarmente funesto, perché lo studio del passato non serve allora a conoscere il passato stesso e per suo tramite a comprendere meglio noi stessi, bensì soltanto, narcisisticamente, a specchiarsi nel passato per riconoscervisi: il che non porta ad alcun incremento di comprensione né da una parte né dall’altra.
2. Questo libro è diviso in tre parti. La prima, Tra filosofia e politica, comprende scritti che discutono alcune problematiche filosofiche rilevanti dal punto di vista di interrogazioni che vengono, in senso lato, dalla politica. Che cosa significa la “crisi della ragione” e delle sue pretese universalistiche, tematizzata nel dibattito filosofico dell’ultimo scorcio del Novecento, dal punto di vista dei conflitti sociali e valoriali? Qual è il rilievo dell’esaurimento teorico della filosofia storicistico-dialettica dello “sviluppo”, e la sfida che esso propone a un pensiero non evoluzionistico della rivoluzione come progetto di emancipazione? Quale autonomia e quale ruolo restano all’intellettuale, e in particolare al filosofo, di fronte al dominio dei poteri sociali di conformazione della soggettività? Infine: c’è ancora uno spazio possibile per una prospettiva etica come orizzonte di senso della politica? Intorno a queste domande insistenti si articola la riflessione sviluppata – certo in modo solo incoativo – in questo primo gruppo di scritti.
La seconda sezione si intitola, per contro, Tra politica e filosofia. Qui l’oggetto di indagine sono le prospettive della politica considerate da un punto di vista filosofico. Un primo nodo problematico è costituito dalle condizioni di possibilità di una soggettività collettiva antagonista (il “partito dei comunisti”) nell’epoca del tardo-capitalismo in cui si è prodotto il progressivo logoramento delle grandi strutture di formazione di identità sociale (la fabbrica, il sindacato, l’esercito), in altre epoche capaci di esprimere una propria guida e rappresentanza politica. Emerge qui l’urgenza di pratiche collettive intese primariamente a “fare società”, cioè a creare legami sociali e progettualità collettive di cui la politica possa farsi interprete e strumento. E ancora una volta la questione dell’etica si profila come decisiva per costruire forme nuove di aggregazione sociale.
Un compito imprescindibile in questa prospettiva è quello di comprendere le ragioni della crisi dei modelli di stato e di società storicamente sperimentati dal movimento operaio e dai suoi partiti nel corso nel Novecento, e in primo luogo delle forme del cosiddetto “socialismo reale”. Ma altrettanto importante è riflettere – al di fuori delle semplificazioni propagandistiche e delle deformazioni ideologiche – sui temi della guerra e della “violenza”, tanto nelle loro dimensioni antropologiche quanto nelle implicazioni politiche che vi sono connesse.
Infine, e soprattutto, c’è l’esigenza imprescindibile di immaginare un futuro possibile, come orientamento della prassi quotidiana e anche come presupposto di un recupero valoriale della tradizione, ai fini della ricostruzione di una soggettività progettuale, di una nuova presa di coscienza della storicità capace di uscire dalle secche del “pensiero unico” e dalla minaccia della “fine della storia”. Al pari della società, la storicità non è un dato di fatto che si possa considerare acquisito, ma un obiettivo da costruire, un compito da perseguire, insomma una possibilità che non è garantita ma deve venir prodotta nell’azione collettiva di comprensione e di trasformazione.
La terza sezione, Fra gli antichi e noi, torna ad una riflessione sulla società e il pensiero dell’antichità dal punto di vista delle prospettive filosofico-politiche che si sono venute fin qui delineando. Da un lato si discutono le possibilità e i limiti di un’impiego delle categorie marxiane per l’interpretazione delle forme sociali e culturali del mondo antico: si tratta ancor oggi di uno strumento euristico indispensabile, anche per rettificare vedute dell’antico ingenue o ideologiche che ne oscurino il carattere profondamente conflittuale; uno strumento che va però maneggiato con cautela metodica e consapevolezza critica, vista la differenza che intercorre fra il sistema sociale del capitalismo moderno, in cui quelle categorie si sono formate, e la struttura delle “forme economiche pre-capitalistiche” su cui ci interroghiamo. Dall’altro lato sono in questione importanti episodi di reinterpretazione dell’antico da parte del pensiero contemporaneo, come le recenti indagini di M. Foucault sull’etica e l’antropologia antiche, e la vicenda novecentesca delle interpretazioni del pensiero politico di Platone, con i suoi abusi ideologici. Questo stesso pensiero viene infine indagato in due direzioni: l’utopia della comunità “giusta”, da un lato, e la critica – non disgiunta da un’inquietante attrazione – per una forma di potere politico assoluto ed efficace quale fu rappresentata nel IV secolo dalla tirannide: il circolo in questo modo si chiude, perché l’utopia della comunità giusta e la prospettiva del potere tirannico come strumento di trasformazione sociale ci riportano prepotentemente a questioni centrali della riflessione politica contemporanea.
3. Grandi interrogativi, dunque, per piccoli scritti. Che non aspirano davvero a fornire risposte, e neppure, in molti casi, a formulare le domande in modo filosoficamente adeguato. Ma che possono, forse, rivendicare a proprio merito lo sforzo di tenere aperto lo spazio dell’incertezza, di riproporre l’urgenza della riflessione, resistendo sia al cedimento di fronte all’omologazione del pensiero, sia alla rassegnazione di fronte all’estrema durezza dell’epoca. Non si tratta di un compito esclusivo del filosofo, e tanto meno dell’antichista, perché esso coinvolge la responsabilità morale e intellettuale di ognuno. Ma se sarà riuscito a riproporre, con la sua insistenza, un richiamo a questa responsabilità, a suscitare qualche consenso e naturalmente molti dissensi intorno al suo modo (certo controvertibile) di porre questioni e di condurre il ragionamento, questo piccolo libro non avrà del tutto deluso la fiducia di coloro cui si deve il progetto della sua realizzazione, e le speranze del suo autore.
Mario Vegetti
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